lunedì 14 novembre 2016

Fai bei sogni – Marco Bellocchio

Belfagor me lo ricordo, faceva paura davvero.
Massimo se lo ricorda bene, la mamma lo proteggeva.
il film è sull'assenza, al protagonista manca qualcosa più della madre, gli manca un perché, e solo la dottoressa Elisa riesce a dargli una spinta decisiva a diventare un altro, non a dimenticare la madre, ma ad affrancarsi.
ci sono cose inutili nel film, le scene a Sarajevo (uno cattivo, molto cattivo, direbbe che è per dare una piccola parte a Piergiorgio, figlio di Marco Bellocchio), per esempio, ma c'è anche Roberto Herlitzka, per pochi minuti preziosi.
Massimo bambino è molto bravo, e anche da grande Massimo non delude, solo che vedere Valerio Mastandrea fuori dalla Roma popolare fa uno strano effetto. 
non è un film indimenticabile, ma nel complesso è un bel film.
Marco Bellocchio fa un film onesto, da una sceneggiatura non originale, e con interpreti che sanno il fatto loro, e un direttore della fotografia che è Daniele Ciprì.
al cinema le luci e i colori di Daniele Ciprì rendono più che a casa, secondo me.
buona visione - Ismaele






…Intendiamoci, l’argomento in sé è potente e significativo ma per poterlo narrare di nuovo (oggi) in modo veramente convincente e personale forse sarebbe servita un’impostazione meno scontata, e anche una sceneggiatura più attenta alla costruzione umana del personaggio che, ad esempio, vediamo improvvisamente giornalista sportivo e poi, altrettanto repentinamente, inviato in zona di guerra. A ciò, si aggiunge il fatto che Valerio Mastandrea, pur all’altezza (professionalmente) del compito che gli è stato assegnato (il ruolo del protagonista da adulto), non sembra proprio plausibile nei panni di un medio borghese nato e cresciuto nella Torino degli anni Sessanta e Settanta.
Fai bei sogni è, dunque, un’opera cinematografica che riesce a tenersi in piedi soprattutto grazie alla sua solidità registica, alla costruzione di alcune scene in cui l’emozione viene comunicata in modo trattenuto, alla mano di un cineasta che è in grado anche solo con alcune intense inquadrature di tenere accesa l’attenzione dello spettatore. Queste ultime sono vere, autentiche, apparizioni estetiche di un cinema di estrema importanza, quello di Marco Bellocchio, che ha dato tantissimo alla cultura visuale del Novecento (In Italia, e non solo) ma che, a nostro avviso, non sembra più possedere una tangibile spinta propulsiva.

…è potente e rivelante la scena di lui Massimo - di nuovo restio - accetta l’incarico offertogli dal direttore del giornale di rispondere ad una lettera in cui si afferma l’odio verso le madri - e in generale l’ordine costituito. Nella rubrica del giornale Massimo scrive in maniera viscerale, racconta la sua esperienza sofferta, di figlio senza madre e con desiderio di abbracci. Cosicché tutti i lettori conoscono il suo modo di esprimersi, fuori dalla sezione sportiva o di cronaca cui aveva finora lavorato. Ma ciò sigla la fine della purezza di Massimo. In questo caso ha usato la madre - e la sua morte - per ottenere un successo mediatico, seppellendola definitivamente: è ciò che infatti un altro giornalista gli fa notare, tanto che Massimo innervosito attacca il telefono in faccia.
È forse questo l’aspetto più innovativo che Bellocchio riesce ad offrire. Ovvero la capacità di denudare una propria sofferenza, per far immedesimare sì i lettori, ma aumentare anche il proprio business. È giusto usare l’esperienza intima per ottenere successo? La madre di Massimo sarebbe stata d’accordo nel sentirsi raccontata in un articolo di giornale? Se dal punto di vista giornalistico la riposta è no, lo è da quello letterario. È un omaggio ad una donna che non c’è più, ma dall'altra parte la si è usata per uno scopo anche economico - pur se attraverso la trasfigurazione letteraria.
Sono gli stessi pensieri intimi che il protagonista Massimo prova, e che Bellocchio amplifica a dismisura fino a farla diventare un’ossessione. I film che Massimo vede con la madre nutrono questo timore, da “Il bacio della pantera” a “Il gabinetto del dottor Caligari”, e ogni visione si schiudeva con un abbraccio. Fino al timore di essere catturato dalla figura demoniaca di Belfagor.
Alla domanda sulle liceità di usare il dolore privato per scopi mediatici Bellocchio non risponde, la semina. Una chiosa la offre la dottoressa Elisa mentre abbraccia Massimo: “Lasciala andare”.

Ora, si fa abbastanza fatica a capire cosa ci abbia trovato Bellocchio in questo melodramma familiare ipersentimentalista e gonfio di retorica con un protagonista orfano certo sofferente, ma pure qua e là insopportabilmente narciso e autoriferito (vogliam parlare delle scene finali quando il nostro non ha la minima parola di comprensione per la povera madre accusandola, ancora!, di averlo abbandonato?). Una storia oltretutto trasposta nel film con dialoghi al limite dell’inudibile, e con sequenze intere di cui faremmo a meno, come l’escursione nei Balcani o quella sulla collina torinese nella casa dell’amico ricco e stronzo. Per fortuna che Bellocchio c’è, ed è in grado di cavare visioni e cinema vero anche da un feuilleton tra Carolina Invernizio e Senza famiglia, per quanto aggiornato agli usi e agli psicologismi della contemporaneità italiana. Specialista nel cinematografare l’inconscio, appronta scene di un (sur)realismo più onirico che magico, dalla bara della madre che sovrasta e schiaccia il bambino al megapresepe in cui par di precipitare in un mondo parallelo. E le lezioni del sacerdote-mentore, e i percorsi misteriosi nelle vecchie case colme di libri e carte e ogni possibile soffocante arredo. E incubi e fantasmi e fantasticherie, molto giocando sul Belfagor televisivo anni Sessanta culto di mamma e figliolo. La claustrofobia familiare, così bellocchiana da sempre, trova in questo film un’altra occasione per imprigionare i personaggi e, per contagio, pure noi spettatori. Bellocchio dissemina il suo racconto di prefigurazioni, anticipazioni psichiche, premonizioni, come l’ossessione da parte di Massimo bambino, ragazzo e adulto della caduta, del precipitare, una spia di quello che sa ma non vuole ammettere di sapere. E via allora con la statuetta di Napoleone lanciata dalla finestra, con Belfagor che precipita, con il tuffo dal trampolino più alto della donna-salvatrice (una Bérénice Bejo bellissima). Come in quel romanzo psicanalitico anni Ottanta, L’albergo bianco, dove la protagonista attraverso visioni inconsce pre-vedeva e pre-sentiva quanto le sarebbe successo. Se solo Bellocchio avesse seguito con più radicalità e convinzione questa traccia di connessioni, concantenazioni inconsce, avremmo avuto un altro (e migliore) film…

Bellocchio, capace di vertiginose astrazioni e di altissimi afflati filosofici, racconta la storia di un salto nel vuoto attraverso i tuffi di Cagnotto e la caduta dell'aereo del Grande Torino sopra la collina di Superga, non mettendosi mai al di sopra di quelle "ovvietà che sconvolgono" e che sono la forza primordiale del romanzo di Gramellini perché parlano a tutti accantonando il comune senso del pudore (ma anche la spocchia da intellettuale) come si fa quando ci si scioglie nel ballo, rendendosi ridicoli e irresistibili nello stesso magico e imbarazzante istante. Le raffinate musiche di Carlo Crivelli sottolineano invece la presenza costante di un battito nascosto che viaggia in direzione contraria rispetto alla melodia di facciata, irrazionale e ingestibile come un attacco di panico, rivelatore di una verità che nessuna glassa superficiale può tenere nascosta…
da qui

La trasposizione in pellicola di Fai bei sogni ad opera del nostro Marco Bellocchio però ha rovinato tutto come peggio non poteva. Non c’è nulla degli slanci e dello sguardo a tratti ironico riconosciuti al romanzo. Della luce che nonostante tutto, sorge. Il film procede stentato e tedioso, la sceneggiatura spezzata in lacci che non si annodano mai; nonostante la lunghezza niente e nessuno nel film “sta” nelle situazioni per il tempo sufficiente a entrarci in empatia, il montaggio passa da un decennio all'altro come a caso…

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