domenica 28 febbraio 2016

Perfetti Sconosciuti - Paolo Genovese

Perfetti Sconosciuti è un film d'attori, con una sceneggiatura a orologeria.
si inizia ridendo e scherzando, piano piano diventa un altro film.
spesso senti ridere in sala, anche troppo, molti credono che sia una commedia, non sai se tutti stiamo guardando lo stesso film, ma anche la vita è così.
in realtà è un film dell'orrore, ma non quello esterno, dei mostri alieni, è solo un'orrore quotidiano, che si fa finta di non vedere, finché non tocca a te.
bravi gli attori, Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston e Marco Giallini su tutti.
la fine sembra un happy end, sembra, ma fa ancora più male.
non trascurarlo, è un film che merita. 

(fra qualche anno ci sarà un remake a Hollywood, sicuro) - Ismaele




…Grande intelligenza e senso della misura si uniscono nelle battute spassose che gli amici si riversano contro con la noncuranza di chi è abituato a ferirsi ed essere ferito, ma anche nell'escalation tensiva in cui la presunta trasparenza ad ogni costo diventa elemento di violento sopruso nelle vite che ognuno di noi, nel bene o nel male, si costruisce.
E quando sembra che si sia superato il limite della decenza tra i segreti manifestati, ecco un bel finale che rimette in gioco tutto e tutti…

Se il cast - con la sola eccezione di Alba Rohrwacher alla quale riescono soltanto ruoli piagnucolosi - è affiatatissimo, il vero valore aggiunto del film sta in uno script congegnato in maniera assai imprevedibile, quantunque incapace di risolvere il finale con maggiore coraggio (ma lo si può leggere in diverse maniere)…

I due mattatori della pellicola però sono indubbiamente Battiston, alle prese con una parte drammatica che gestisce con una facilità estrema, e soprattutto Mastandrea che interpreta in assoluto il personaggio più tridimensionale della pellicola ed è in grado, in cinque minuti, di ribaltare la prospettiva sul suo ruolo completamente, complice una scena madre e una singola battuta potente, di quelle che rimangono impresse all’uscita dal cinema…
Perfetti Sconosciuti rimane un film molto interessante, molto ben scritto, ma sopra ogni cosa un film di attori, sicuramente un enorme passo avanti nella filmografia di Paolo Genovese, non possiamo far altro che augurarci che continui su questa strada.

Con "Perfetti sconosciuti" Paolo Genovese realizza quello che è probabilmente il suo film più maturo e compiuto, impreziosito da una scrittura di grande scioltezza e a tratti genuinamente brillante. E si distingue dai vari Brizzi, Zalone e Miniero nel novero dei nuovi "maestri" della commedia all'italiana.
Il film però non riesce mai a raggiungere il respiro ampio dello spaccato socio-generazionale, come seppero fare a modo loro "Compagni di scuola" di Verdone e pure "L'ultimo bacio" di Muccino, e purtroppo l'autore dimostra di non poter evitare le secche della più becera retorica, alla ricerca di una "morale" ad uso e consumo del pubblico più distratto. Si pensi, per esempio, all'agghiacciante metafora ripetuta più volte dei telefonini come "scatole nere" delle nostre vite.
L'inciampo definitivo si consuma in chiusura: il finale conciliatorio, che è tristemente amaro ma sembra lieto, finisce per disinnescare il cinico gioco al massacro condotto con programmatica perizia per tutta la durata del film. Un epilogo posticcio che, aggravato dalla metafora indigesta dell'eclisse lunare, sembra avere il solo scopo di pacificare lo spettatore con la propria realtà di (supposte) bugie e ipocrisie quotidiane. Come dire, il re è nudo, ma non indichiamolo.

Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe "conversazioni": l'eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch'esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale. Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa)…

Il film, ammiccante e non nuovo, risulta tuttavia piuttosto riuscito grazie soprattutto all'apporto prezioso di sette attori tutti bravi e piacevoli, che risultano, più che altre volte, compatti e motivati, forti ognuno di personaggi perfettamente nelle corde di ognuno ed equamente ripartiti e tratteggiati nel gioco al massacro che si scioglie abilmente nell'ora e mezza di mattanza psicologica e morale che ne segue.

E allora Perfetti sconosciuti sembra diventare il paradigma, l’incarnazione impeccabile, di questa commedia italica contemporanea: il classico potrei ma non voglio, che non si riesce mai bene a distinguere dal vorrei ma non posso. In tal senso sembra addirittura che Perfetti sconosciuti sia vittima dello stesso limite di cui soffrivano in passato certi film della Hollywood classica che, vista l’imposizione dell’happy end, ribaltavano negli ultimi minuti tutto il coraggio mostrato nel corso del film. È possibile che sia così? È possibile che a Genovese sia stato imposto un finale posticcio? In realtà crediamo di no, crediamo anzi che tra Genovese e i suoi produttori – al contrario di quanto per l’appunto succedeva ai registi americani degli anni Quaranta – vi sia una totale condivisione d’intenti. L’idea cioè di un’auto-censura che debba tenere a bada gli istinti più bassi, con l’obbligo ontologico di salvaguardare un velo d’ipocrisia e facendo sì che lo spettatore esca sempre dalla sala con il sorriso. È il cinema italiano, bellezza!

sabato 27 febbraio 2016

I palestinesi soddisfatti della presa di distanze dell’Academy dal pacco regalo Oscar


L'Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha annunciato di aver citato in giudizio Distinctive Assets, società distributrice di un pacco regalo di lusso per i candidati agli Oscar, che quest'anno prevede un viaggio completamente spesato in Israele, iniziativa sponsorizzata dal governo israeliano.
I palestinesi avevano già denunciato come il governo israeliano, piuttosto che affrontare le violazioni dei diritti umani nei confronti del popolo palestinese, con questa proposta allettante rivolta alle celebrità del viaggio in Israele, tentasse in modo "cinico e disperato" di opporsi al proprio crescente isolamento internazionale.
In risposta a questi sviluppi più recenti, Omar Barghouti appartenente al Comitato Nazionale Palestinese per il BDS (BNC), la più ampia coalizione palestinese alla guida del movimento globale BDS, ha dichiarato:
"Prendendo le distanze dalla società che sponsorizza il viaggio di propaganda in Israele dei candidati all'Oscar, l'Academy sta compiendo un passo nella giusta direzione. Il cosiddetto 'bottino Oscar' è caduto ulteriormente in discredito con la sua associazione al regime di occupazione, colonialismo e apartheid perpetuato da Israele".
"Ovviamente l'Academy deve fare molto di più, affrontando le gravi accuse di pregiudizio e razzismo sollevate dalla campagna #OscarsSoWhite così come, tra molti altri, anche dagli attivisti per i diritti umani in sostegno dei palestinesi."
"Gli attivisti continueranno a sollecitare i candidati ad agire con coscienza respingendo l’ennesimo tentativo propagandistico di Israele volto a nascondere i suoi crimini di guerra e le altre gravi violazioni dei diritti umani. Ogni artista con una coscienza avrebbe sicuramente rifiutato un viaggio gratis pagato dal regime dell'apartheid nel Sud Africa del 1980".
Raccogliendo l’istanza proveniente dalla comunità artistica palestinese è stata quindi lanciata una petizione che invita i candidati a non prendere parte al viaggio gratuito in Israele.
Gli artisti palestinesi hanno evidenziato l’ipocrisia di tale iniziativa denunciando l’attacco deliberato all’arte e alla produzione culturale palestinese da parte di Israele.
I candidati all'Oscar Mark Rylance e Asif Kapadia hanno già assicurato che non si recheranno in Israele per motivi professionali fino a quando persisteranno in tale paese violazioni dei diritti umani.
Oggi Mike Leigh (candidato agli Oscar per ben cinque volte), il regista Ken Loach e il musicista Brian Eno hanno denunciato pubblicamente l'iniziativa di propaganda del governo israeliano.

(…Artists for Palestine UK (APUK) on Wednesday called on actors and directors on this year’s Oscars shortlist:  ‘Give your Israeli swag bag to a Palestinian refugee!’

Mike Leigh, film director and five-times Oscar nominee said: “ A five-star trip to the land of their parents and grandparents is just what exhausted Palestinians from the refugee camps could do with. I think the world would be happy to see Israeli government money used for once to make reparations to Palestinians — and I hope the stars will agree.’
Ken Loach, BAFTA nominee and Palme d’Or winner said: “Just think what $55,000 could do for Palestinians whose homes have been destroyed and their lands stolen.  Let’s hope that film people can see through this crude propaganda.”
Brian Eno, musician and composer suggested an alternative swag bag offering: “Visit Palestine! Enjoy a tear-gas filled weekend in an East Jerusalem ghetto!..

Traduzione di Teresa Pelliccia

venerdì 26 febbraio 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot - Gabriele Mainetti

per completezza Lo chiamavano Jeeg Robot andrebbe visto insieme a
Non essere cattivo e Suburra, per due motivi, appare sempre Luca Marinelli e c'è Roma, protagonista dei film.
e allo stesso tempo sono tre film che vivono benissimo da soli.
Lo chiamavano Jeeg Robot parte lento, e poi cresce e sale a livelli molto alti.
non ti annoi un attimo, i personaggsono perfetti, la sceneggiatura funziona, tutto torna.
Enzo Ceccotti diventa Jeeg Robot grazie ad Alessia, una ragazza fuori di testa, i due si vogliono bene, si completano, si sostengono, si proteggono.
Alessia fa un lavoro a maglia durante il film, e alla fine si capisce cos'è, bisogna aspettare l'ultimo secondo per saperlo.
Claudio Santamaria e Luca Marinelli, i due supereroi, si combattono fino alla morte, alla fine Hiroshi diventa il protettore di Roma e dei romani.
è un film che merita molto, non avrai delusioni, lo so - Ismaele







Lo chiamavano Jeeg Robot è un tipo di cinema che in Italia non avevamo e che ora, forse, potremmo anche avere. Fancuore ai complessi d’inferiorità, al noi non possiamo mica fare quelle robe lì, al questo è un paese per vecchi (e commedie tutte uguali). Ecco qua, possiamo. Vai Hiroshi, menagli. Menagli a tutti.

La storia di Enzo Ceccotti è una storia appassionante, adrenalinica, intensa. Non ha nulla da invidiare alle storie delle origini nei blockbuster più commerciali perché la sua formula essenziale – ma comunque efficace – funziona alla perfezione. Eppure c’è un aspetto su cui la macchina di Hollywood ha un po’ schiacciato il freno a mano negli ultimi anni, e su cui la pellicola tutta italiana di Gabriele Mainetti insiste invece con deciso vigore: il ruolo del villain.
Tra i tanti meriti di Lo Chiamavano Jeeg Robot c’è anche questo, il non aver tratteggiato con minuzia solamente l’improbabile eroe di Tor Bella Monaca protagonista di tutte le vicende, ma anche il suo “avversario” Fabio Cannizzaro, interpretato da un magistrale Luca Marinelli, capace di dare spessore, carisma e – soprattutto – credibilità a un personaggio che in altri contesti sarebbe facilmente scaduto nella macchietta.
Perché un buon film è definito dalla somma di tutte le sue componenti: serve a poco investire sui modelli “in positivo” se poi non esiste una controparte alla pari che possa alzare la posta in gioco; la dinamica d’altronde funziona così. E forse risiede proprio in questo il segreto del successo (per ora critico) del film, nella decisione di calare la storia in un contesto urbano che aiuta a sospendere l’incredulità già in partenza, con protagonisti ritratti a tutto tondo che catturano l’occhio – e il cuore – dello spettatore…


Operazione coraggiosa dell'esordiente Gabriele Mainetti che parte da un soggetto geniale dove protagonista è un rapinatorucolo romano che scappando dalla polizia cade in un bidone radioattivo e acquista una forza sovrumana. Da qui il conflitto, creato ovviamente da una donna, se usare i propri poteri a scopo malavitoso o per aiutare il prossimo.

Mainetti conosce il genere, sfrutta l'immagine di uno dei robottoni più amati dalla generazione 80 e azzecca un bel titolo per nostalgici. La sfida ardita è quella di aver inserito dei supereroi in una Roma noir alla Caligari e direi che è stata superata ampiamente perché i due generi sono legati grazie ad effetti speciali misurati e un realismo che non manca mai. 
La sceneggiatura però non è sempre ad alti livelli e forse c'è qualche momento di troppo e la regia non va mai oltre il minimo sindacale. Come avviene sempre in un film di supereroi il cattivo toglie la scena al buono, anche perché è interpretato da uno strepitoso Luca Marinelli. Un film che comunque merita assolutamente di esser visto e sostenuto.

Mainetti dimostra gusto cinematografico e consapevolezza, autoironia e vigore, e si produce anche in ottimi pezzi di regia (la lunga sequenza finale è, in questo senso, pregevolissima). Soprattutto, il regista evita di perdere di vista, nella giustapposizione e sovrapposizione dei suoi immaginari di riferimento, il senso ultimo della storia: una fiaba metropolitana che vuole descrivere un moderno e originale senso di “eroismo”. Il riconoscimento del coraggio, e della passione che il regista ha profuso in questo suo esordio, è inevitabile. Così come il puntuale, ma questa volta pienamente convinto, applauso che accompagna i titoli di coda.

...Si potrebbe pensare che l’elemento più ispirato alla tradizione Marvel stia nell’ironia che tanto spesso sembra emergere dalla sceneggiatura, ma in realtà, se i film statunitensi preferiscono alleggerire la tensione con battute frivole la cui diretta conseguenza sta nella passionalità dei personaggi sminuita e spesso annullata, questo film si costruisce in maniera acuta e intelligente su un complesso sistema di paradossi. Mescolando il più vivo realismo alle dinamiche fantasiose del fumetto, Mainetti approda a un esercizio che, più che affievolire il pensiero critico dello spettatore, gli dà in pasto riflessioni e spunti che partono proprio dai contrasti evidenti tra realtà esperibile e immaginazione a a un esercizio che, più che affievolire il pensiero critico dello spettatore, gli dà in pasto riflessioni e spunti che partono proprio dai contrasti evidenti tra realtà esperibile e immaginazione...

Mainetti e i suoi compari l’hanno fatta grossa, davvero grossa,  Lo chiamavano Jeeg Robot è grande cinema, e nuovo, italiano come quando italiani erano i film avulsi da compromessi, film che esibivano, raccontavano, incantavano. Mainetti è riuscito, sta riuscendo, riuscirà (ne siamo certi) a far accettare come cinema popolare quella che fino all’altroieri era la visione blindata e respinta (dal sistema cinema, dal pensiero unico, dalla miopia nazionale) di Claudio Caligari, vede e riprende le periferie romane alla stessa maniera, le piazza su grande schermo per quello che sono davvero, cioè non-luoghi distopici, teatri perfetti per una storia come questa. Lo chiamavano e continueranno a chiamarlo Jeeg Robot. E poi Jeeg Robot Colpisce Ancora, e poi Jeeg Robot e Il Ragazzo Invisibile contro i Vampiri Dallo Spazio. Sogniamo seguiti e franchise a valanga, esaltati e commossi. Mainetti una via da percorrere, lui si che può,  e noi lo seguiremo. Sia lodato il Dio del cinema, sempre sia lodato.

Se nel leggere la trama si può pensare che il film sia prevalentemente una commedia, la sua visione ci mette dinnanzi ad un'opera dove più generi si sovrappongono, e dove la componente fantascientifica è oscurata da quella noir. Che molto prende ispirazione dalla rappresentazione di quella mala romana che tanto ha caratterizzato le opere nate sull'onda del successo di “Romanzo criminale – La serie” diretta da Stefano Sollima, e che in una certa maniera ne è diventato punto di riferimento per la rinascita del genere in Italia. Ed è proprio in questo che il film si discosta dal filone supereroistico americano, perché tutto viene riproposto con un punto di vista nostrano, lasciando ai minimi termini i punti di contatto con il genere di derivazione, non prendendosi perciò mai del tutto sul serio. Da questo punto di vista molteplici sono le scene dove la tensione viene spezzata da quelle battute che come dicevamo sono riconducibili alla dissimulazione figlia della commedia, e dove tutto di conseguenza viene dissacrato…

mercoledì 24 febbraio 2016

Jack - Francis Ford Coppola

non è il miglior film di Francis Ford Coppola, sarebbe impossibile.
una storia che ne ricorda altre, "Mighty", di Peter Chelsom, per esempio.
la cosa migliore del film è Robin Williams, che fa il personaggio che ci si aspetta, il bambino cresciuto.
senza infamia e senza lode, e  però, come fai a perderti Robin Williams?
buona visione - Ismaele






Coppola, prima della distribuzione di "Jack", ha voluto premettere chiaramente che il nuovo film era un lavoro-pausa su commissione, un divertissement - per preservarsi da attacchi della critica o perché poco convinto del risultato ottenuto? Ma come con "Peggy Sue" si era innestato in maniera personale nel filone dei ritorni al futuro dando corpo ad un'opera che mostrava il lato più cupo, introspettivo, drammatico, del ripercorrere da parte della protagonista (adulta) la propria adolescenza con gli occhi, la consapevolezza ed il senno di poi; anche con "Jack", Coppola cerca di mostrarci l'altra faccia della medaglia del fenomeno"Big", intrecciando senza soluzione commedia e dramma alla ricerca della leggerezza e della tenerezza, per elevare lo "strano caso" di Jack a tragedia umana e a parabola sulla necessità del conservare una parte infantile nell'età adulta per non essere "dimezzati", per non essere distanti dai figli, per mantenere intatte le capacità di stupirsi, ascoltare, comprendere...: per vivere appieno. "Jack" è, in fondo, questo: una meditazione sul tempo, sulla brevità e fuggevolezza dell'esistenza, sulla velocità in cui le stagioni passano. In Usa non ha riscontrato un grande successo di pubblico ed è stato bastonato dalla critica con l'accusa di essere irrisolto e superficiale. Forse quello che infastidisce in "Jack" sta altrove, nell'interpretazione di Robin Williams: per quanto bravo, è forse eccessivamente inflazionata la sua immagine di "eterno bambino", Peter Pan peloso dagli occhi azzurri; e l'impressione che può suscitare il film è che sia stato confezionato per il suo istrionismo. In sostanza, l'attenzione viene catalizzata dal mattatore, e gli eventi che il suo personaggio vive, e le figure che lo accompagnano nella breve avventura (uno per tutti, il professore Bill Cosby), perdono nitidezza, vengono relegati come in una zona d'ombra. La sceneggiatura è buona, nonostante qualche scivolone nel patetismo e nel didascalismo (e comunque, una favola è un favola); valida soprattutto nell'analisi del rapporto tra il "diverso" e i compagni, e nel segmento in cui viene resa la progressiva accettazione da parte della "gang" di piccole pesti del nuovo gigantesco amicone attraverso il percorso iniziatico fatto di innocuo sfruttamento delle sue doti fisiche. Forse ci si poteva aspettare qualcosa di più da Coppola: ma è comunque un lavoro che va oltre il puro divertissement su commissione dichiarato dal regista - e già da solo il barocchismo dello schiudersi della simbolica crisalide (poi stupenda farfalla dalla vita brevissima) denuncia un occhio di mago dell'immagine dietro all'obiettivo.

“Jack” doesn't want to be a great movie. It only wants to pluck the usual heartstrings and provide the anticipated payoff. Far from being able to empathize with the thought processes of a 10-year-old, the filmmakers place him in situations they can imagine but a kid probably couldn't. I intensely disliked a subplot involving a schoolmate's trampy mother (Fran Drescher) that leads to a scene in a bar that doesn't work and doesn't belong, but does illustrate the ancient principle that every time there is a bar in a movie, there is a fight.
Who was this movie made for? Kids, maybe, who will like the scene where Jack passes himself off as the school principal (although the scene could have been written with smarter dialogue). But if this is a kids' movie, go for kids' reference points. Or if it's for adults, then it shouldn't have been constructed as a sitcom. My best guess is that the premise blinded everyone. Robin Williams is a 40-year-old in a 10-year-old's body? Great! When do we start shooting? If anyone dared to bring up the possibility of a better screenplay, he was probably shouted down: In the delirium of high concept, it doesn't pay to rain on the parade--no, not even if flowers might afterward grow.

martedì 23 febbraio 2016

Preghiera per Marilyn Monroe - Ernesto Cardenal



Oración por Marilyn Monroe

Señor 
recibe a esta muchacha conocida en toda la Tierra con el nombre de Marilyn Monroe, 
aunque ése no era su verdadero nombre 
(pero Tú conoces su verdadero nombre, el de la huerfanita violada a los 9 años 
y la empleadita de tienda que a los 16 se había querido matar) 
y que ahora se presenta ante Ti sin ningún maquillaje 
sin su Agente de Prensa 
sin fotógrafos y sin firmar autógrafos 
sola como un astronauta frente a la noche espacial. 
Ella soñó cuando niña que estaba desnuda en una iglesia (según cuenta el Times) 
ante una multitud postrada, con las cabezas en el suelo 
y tenía que caminar en puntillas para no pisar las cabezas. 
Tú conoces nuestros sueños mejor que los psiquiatras. 
Iglesia, casa, cueva, son la seguridad del seno materno 
pero también algo más que eso...
Las cabezas son los admiradores, es claro 
(la masa de cabezas en la oscuridad bajo el chorro de luz). 
Pero el templo no son los estudios de la 20th Century-Fox. 
El templo —de mármol y oro— es el templo de su cuerpo 
en el que está el hijo de Hombre con un látigo en la mano 
expulsando a los mercaderes de la 20th Century-Fox 
que hicieron de Tu casa de oración una cueva de ladrones. 
Señor 
en este mundo contaminado de pecados y de radiactividad, 
Tú no culparás tan sólo a una empleadita de tienda 
que como toda empleadita de tienda soñó con ser estrella de cine. 
Y su sueño fue realidad (pero como la realidad del tecnicolor). 
Ella no hizo sino actuar según el script que le dimos, 
el de nuestras propias vidas, y era un script absurdo. 
Perdónala, Señor, y perdónanos a nosotros 
por nuestra 20th Century 
por esa Colosal Super-Producción en la que todos hemos trabajado. 
Ella tenía hambre de amor y le ofrecimos tranquilizantes. 
Para la tristeza de no ser santos 
                                                        se le recomendó el Psicoanálisis. 
Recuerda Señor su creciente pavor a la cámara 
y el odio al maquillaje insistiendo en maquillarse en cada escena 
y cómo se fue haciendo mayor el horror 
y mayor la impuntualidad a los estudios.
Como toda empleadita de tienda 
soñó ser estrella de cine. 
Y su vida fue irreal como un sueño que un psiquiatra interpreta y archiva.
Sus romances fueron un beso con los ojos cerrados 
que cuando se abren los ojos 
se descubre que fue bajo reflectores 
                                                              ¡y se apagan los reflectores! 
Y desmontan las dos paredes del aposento (era un set cinematográfico) 
mientras el Director se aleja con su libreta 
          porque la escena ya fue tomada. 
O como un viaje en yate, un beso en Singapur, un baile en Río 
          la recepción en la mansión del Duque y la Duquesa de Windsor 
vistos en la salita del apartamento miserable. 
La película terminó sin el beso final. 
La hallaron muerta en su cama con la mano en el teléfono. 
Y los detectives no supieron a quién iba a llamar. Fue 
como alguien que ha marcado el número de la única voz amiga 
y oye tan solo la voz de un disco que le dice: WRONG NUMBER 
O como alguien que herido por los gangsters 
alarga la mano a un teléfono desconectado.
Señor: 
quienquiera que haya sido el que ella iba a llamar 
y no llamó (y tal vez no era nadie 
o era Alguien cuyo número no está en el Directorio de los Ángeles) 
            ¡contesta Tú al teléfono!


Preghiera per Marilyn Monroe

Signore
accogli questa ragazza conosciuta in tutta la terra con il nome di Marilyn Monroe
anche se questo non era il suo vero nome
(ma Tu conosci il suo vero nome, quello dell’orfanella violentata a 9 anni
e la piccola commessa che a 16 aveva voluto ammazzarsi)
e che adesso si presenta davanti a Te senza nessun maquillage
senza il suo Addetto Stampa
senza fotografi e senza firmare autografi
sola come un astronauta davanti alla notte spaziale
Essa sognò da bambina che si trovava nuda in una chiesa
(secondo quel che racconta il Time)
davanti a una folla prostrata, con le teste sul pavimento
e doveva camminare in punta di piedi per non pestare le teste.
Tu conosci i nostri sogni meglio degli psichiatri.
Chiesa, casa, antro, sono la sicurezza del seno materno
ma anche qualcosa più di ciò…
Le teste sono gli ammiratori, è chiaro
(la massa di teste al buio sotto il fiotto di luce).
Ma il tempio non sono gli studi della 20th Century Fox.
Il tempio – in marmo e oro – è il tempio del suo corpo
in cui sta il Figlio dell’Uomo con una frusta in mano
a cacciare i mercanti della 20th Century Fox
che hanno fatto della Tua casa di preghiera un covo di ladri.
Signore
in questo mondo contaminato di peccati e di radioattività
Tu non incolperai soltanto una piccola commessa.
Che come ogni piccola commessa sognò di essere una stella del cinema.
E il suo sogno divenne realtà (ma come la realtà del tecnicolor)
Essa non fece altro che agire secondo il copione che le demmo
– Quello delle nostre stesse vite – Ed era un copione assurdo.
Perdonala Signore e perdona noi
per la nostra 20th Century
per questa Colossale Super-Produzionenella quale tutti abbiamo lavorato.
Essa aveva fame di amore e le abbiamo offerto tranquillanti.
Per la tristezza di non essere santi
le venne raccomandata la Psicoanalisi.
Ricorda Signore la sua paura crescente della macchina da presa
e l’odio per il maquillage – mentre insisteva a truccarsi ad ogni scena –
e come divenne più grande l’orrore
e più grave la mancanza di puntualità negli studi.
Come ogni piccola commessa
sognò di essere una stella del cinema.
E la sua vita fu irreale come un sogno che uno psichiatra interpreta e archivia.
Le sue storie d’amore furono un bacio con gli occhi chiusi
che quando si aprono gli occhi
si scopre che è stato sotto i riflettori
e spengono i riflettori!
e smontano le due pareti della stanza (era un set cinematografico)
mentre il Regista si allontana col suo quaderno
perché la scena è ormai stata girata.
O come un viaggio in yacht, un bacio a Singapore, un ballo a Rio
il ricevimento nella dimora del Duca e della Duchessa di Windsor
visti nella stanzetta dell’appartamento miserabile.
Il film terminò senza il bacio finale.
La trovarono morta sul letto con una mano sul telefono.
E i detectives non seppero chi stava per chiamare.
Fu
come uno che ha fatto il numero dell’unica voce amica
e sente solo la voce di un disco che gli dice: WRONG NUMBER.
O come uno che ferito dai gangsters
allunga la mano verso un telefono staccato.
Signore
chiunque fosse quello che stava per chiamare
e non chiamò (e forse non era nessuno
o era Qualcuno il cui numero non sta nella Guida Telefonica di Los Angeles)
rispondi Tu al telefono!
(Traduzione di Antonio Melis)

lunedì 22 febbraio 2016

La terza generazione - Rainer Werner Fassbinder

i terroristi di Fassbinder sono una banda di rivoluzionari al confine fra la tragedia e la farsa, non troppo diversi, forse, dai nostri terroristi.
la polizia li tiene d'occhio, ma riescono a fare quello che vogliono, o che credono di volere.
una frase mi ha colpito, quando a un certo punto un poliziotto dice a un imprenditore nel settore della sicurezza: "Qualche tempo fa ho sognato che i capitalisti avevano inventato il terrorismo per costringere lo Stato a difendere i loro interessi".
(si parla anche di Solaris, di Andrei Tarkovsky, e le immagini del film che passa alla tv, all'inizio, sono tratte da Il diavolo, probabilmente..., di Robert Bresson).

un paio di giorni dopo aver visto il film (del 1979) ho ascoltato alla radio il ricordo del processo da parte delle Brigate Rosse a Roberto Peci (qui, nel 1981); il filmato del processo inizia con le note di Bandiera rossa e termina sulle note dell'Internazionale. 
anche nel film di Fassbinder si sente l'Internazionale. 
chissà se la visione di questo film agli aspiranti terroristi avrebbe evitato infiniti (e inutili) lutti, era il 1979, molte cose strane erano successe e molte ancora sarebbero successe - Ismaele




Forse il più bel film (e il più spietato e livido) mai girato sul terrorismo e uno dei più belli sullo sfacelo politico della società contemporanea. Nel suo classico stile dove la densità della parola e l’allegoria si fondono in opere algide e allo stesso tempo venate di “pietas” per il genere umano, Fassbinder racconta le assurde vicende di un gruppo di terroristi (senza dimenticare la droga) sullo sfondo degli ambigui anni 70 dove il potere e l’economia si danno la mano per scopi misteriosi. Spiazzante e sconvolgente.

…La mise en scène est aussi au cœur de ce qui est probablement un des cinq meilleurs films de Fassbinder, comédie d'hiver donc glacée et sombre, planquée sous un film noir antipsychologique avec vrais chapeaux et impers. Un grand film si vous aimez les pantins, les oscilloscopes en guise de bande sonore. Et les rires en travers de la gorge. Pour son auteur, il était vital qu'un film traite à chaud du terrorisme - comme en Italie au même moment -, nécessité affirmée au vu du climat de plomb allemand quand au sujet [résumé par Heirich Böll dans son court roman L'Honneur perdu de Katharina Blum] et du refus de financements publics pour son film…

…The subversives in the Berlin terrorist cell are led by the sneaky Volker Spengler, the nasty Raúl Gimenez and the cowardly Harry Baer. The chicks are in secondary positions and include the obedient Bulle Ogier, the drug addict Y Sa Lo and the spunky business secretary Hanna Schygulla. They spout anti-capitalist rhetoric, quote from Schopenhauer's book "The World as Will and Idea," write political graffiti on toilet walls, take heroin, rob a bank, get in a shootout with the police and get their info from watching TV and listening to the radio. It's all meant to be entertainment that mixes in politics with what's going down at the time, as if it were film noir but set in a realistic Germany that's growing more repressive each day. Eddie Constantine is the business executive who is taken hostage by this terrorist group when they are dressed as clowns and is videotaped to scare the public. 
It's ugly, messy, dissonant, distasteful but, nevertheless, it's a must see for its underlying reasoning.

…Part deconstruction on the aftermath of the Baader-Meinhoff affair, part criticism of bourgeois alienation (and complacency), and part exposition on celebrity and media addiction (note the saturation of ambient sound, presumably from a constantly running television that crystallizes in the shot of Ilsa with arm outstretch against a foreshortened radio antenna that seemingly displaces a heroin needle as the instrument of her overdose), The Third Generation reflects Fassbinder's singular melding of manic ingenuity with contemporarily relevant social commentary, where the incisive observations serve not only as a reflection of a country's troubled past and uncertain present, but also foretells the corrosive, self-serving dynamics that will define the geopolitical climate of the future.

Fassbinder si dà al thriller fantapolitico anticipando tematiche e argomenti che costituiscono un tetro e profetico incubo che alimenta sospetti di grande attualità oggi più che mai, in quanto legati alle vicende e le tragedie terroristiche che hanno travolto l'Occidente dal nuovo millennio in avanti, in nome di una guerra santa, di uno scontro di culture, di un fanatismo religioso mosso a baluardo di interessi più mirati e celati, in mano a poteri occulti di cui sempre più fortemente si sospetta come autori e responsabili della miccia che ha fatto esplodere la violenza…

La storia di un industriale nella Berlino del 1978 che produce software per schedare i terroristi della RAF. Dopo la morte di Ulriche Meinhoff e di Andreas Baader la RAF subisce una battuta d'arresto, l'industriale temendo di rimetterci di tasca propria assolda un fantomatico latitante per organizzare una cellula eversiva. Il film vuole essere una satira sociale e di costume sulla deriva ideologica dell'eversione rossa tedesca orfana di Baader e Meinhoff, i terroristi sono degli imbranati bonaccioni pericolosi più per se stessi che per gli altri e mossi da un sentimento di rivalsa personale più che dal desiderio di una rivoluzione marxista leninista. C'è la moglie del banchiere seviziata dal marito, il commesso del negozio di dischi vessato dal principale, la tossicodipendente, il fighetto rozzo e profondamente maschilista, la segretaria ''del nemico'', il giovane timido rampollo della ''Berlino bene'', i due militari ed infine il fantomatico doppiogiochista. Nessuno di loro ha idea di chi sia stato Karl Marx e nessuno di loro è comunista. Infine c'è il commissario padre di uno dei terroristi che rivolgendosi all'industriale enuncia tutto il senso del film:''ho fatto un sogno, i capitalisti creavano il terrorismo per convincere lo stato ad assecondare i loro interessi…

Apologo acido e disperato sulla fine delle utopie rivoluzionarie, atroce schianto di disillusione ideologica, parabola livida di morte e gravida di algido pessimismo. Nella cellula sovversiva della“Terza Generazione”, come in un incrocio di superfici riflettenti, si intravedono gli stessi medesimi errori/orrori propri della società borghese-capitalistica che i rivoluzionari vorrebbero combattere: l’ambiguità ideologica (traslata in ambiguità sessuale per mezzo dell’uso metaforico di varie forme di travestitismo), l’autoritarismo, il maschilismo, la violenza, l’autoesaltazione. E tuttavia ogni tentativo di confronto generazionale si infrange sullo scoglio di differenze storiche troppo grandi tra la “prima” generazione (quella che ha conosciuto entrambe le guerre mondiali) e la “terza” generazione (quella dei trentenni del 1978 e quindi quella di Fassbinder stesso, tutta composta da individui nati dopo la fine del secondo conflitto mondiale). La prima animata da una violenta voglia di vita e di riscatto, la seconda oppressa da un oscuro sconforto e da un profondo senso di vuoto esistenziale. Tra le due, la generazione dei padri-poliziotto, repressori perversi e integerrimi custodi dell’ordine. Impossibile individuare un punto di sintesi, un approdo comune. La distanza di posizioni non può quindi non sfociare in conflitto aperto, in lotta, in guerriglia armata, sebbene del tutto inutile e manipolabile. Un conflitto quindi storicamente necessario ma altrettanto illusorio, sembra volerci dire Fassbinder. L’epoca delle chimere e dei fantasmi ideologici è finita per sempre, lasciando dietro di sé soltanto macerie. Maschere vuote che si agitano davanti ad uno schermo per non soccombere…

… Chiede uno studente di storia a Hilde, professoressa di giorno e militante rivoluzionaria nel tempo libero, se non è forse vero che i valori borghesi della Germania pre-nazista (proprietà privata, ordine, disciplina) sono stati determinanti per l’avvento del nazismo stesso. E mentre la donna non risponde stizzita, considerando fuori luogo la domanda, lo fa qualche minuto dopo l’ispettore di polizia che trama e collabora col ‘padrone’ Lurz, quando esclama: «Qualche tempo fa ho sognato che i capitalisti avevano inventato il terrorismo per costringere lo Stato a difendere i loro interessi. È buffo, no?» Con queste due semplici battute Fassbinder sintetizza la gravità di problemi che, se allora erano all’ordine del giorno, oggi non smettono di essere attuali: ha senso combattere con la violenza un sistema che, sotto la facciata liberale e razionale delle sue istituzioni, agisce e si consolida proprio per mezzo di quella stessa brutalità con cui si vorrebbe abbatterlo? E si può esser terroristi incappucciati ma dotati di coscienza di fronte alla spavalda consapevolezza di un potere che si legittima attraverso la manipolazione del terrore e il mascheramento della sua vera natura? Nel finale del film, dove si porta a compimento un rapimento che sembra una triste carnevalata (e di fronte a cui anche la vittima non può che ridere), sta tutta l’amarezza di una risposta che difficilmente potrà lasciare indifferente chi sta a guardare dall’altra parte dello schermo.


giovedì 18 febbraio 2016

Khroustaliov, ma voiture! (Khrustalyov, mashinu!) - Aleksey German

uno di quei film che ti fanno rimanere a bocca aperta, per molti motivi.
si racconta una storia del periodo terribile delle deportazioni(per tacere del resto), in Unione Sovietica, attraverso la figura di Klenski, che nel 1953 perde i favori di Stalin.
Aleksey German (alla sceneggiatura c'è anche un certo Joseph Brodsky, premio Nobel qualche anno prima) è un fuoriclasse del cinema, per questa storia terribile sceglie un registro comico e ironico, è una delizia vedere questo film, e sai che lo rivedrai, è cinema di serie A - Ismaele

 

 

 

 

Un film pieno di vita, dispersivo forse, ma altamente affascinante, dove il freddo ed il gelo dei paesaggi innevati meravigliosamente resi dalla fotografia ammaliante di un bianco e nero potente e abbagliante, viene surriscaldato dalla vitalità delle scaramucce in famiglia, dagli istinti vitali di una umanità imprigionata e resa succube, ma ancora viva e vitale, per nulla vinta ed ancora in grado di farsi sentire.

da qui

 

German si muove ancora una volta tra le pieghe della Storia ufficiale e del periodo staliniano trasformando gli eventi del tempo in una massa informe e misteriosa da indagare attraverso il proprio sublime apparato registico, caratterizzato da un'imprescindibile propensione verso il bianco e nero e da immagini di inebriante potenza. L'autore russo si trova ancora una volta alle prese con una vicenda dall'altissimo valore simbolico, civile e politico. La macchina da presa di German, mobile come sempre e assetata di dettagli sui quali far fluttuare il proprio sguardo, assorbe all'interno del proprio flusso ininterrotto i movimenti dei personaggi, i loro scambi di battute, oltre a un'infinità di elementi che si sovrappongono con una tale generosità che la percezione dello spettatore si trova costretta a uno sforzo ricettivo in più rispetto a qualunque altra visione (esattamente come accadrà nel successivo, altrettanto fluviale e ancora più immenso Hard to Be a God del 2013). Ma è una necessità che German sa bene come ripagare, dal momento che le sue pellicole possiedono sempre e comunque una dimensione onnicomprensiva in grado di trasformare un magma in apparenza informe in una densissima sinfonia che stimola i sensi di chi guarda, trovando l'armonia nel caos. Straordinarie gli scenari che ritraggono una Mosca innevata e sublime l'attenzione del regista a ogni particolare, anche il più millimetrico, della sua messa in scena, che non lascia davvero nulla di intentato e si cimenta nel catturare ogni barlume di squallore e di violenza, approdando e all'epica e alla meraviglia solo dopo aver attraversato la brutalità e l'abiezione. Il titolo fa riferimento all'ordine che Beria (capo della polizia segreta dell'Unione Sovietica) rivolge al suo autista dopo la morte di Stalin.

da qui

 

Khrustalyov is some sort of exorcism. In the elegant party that the increasingly crazed and drunken Glinsky briefly attends, trying to glean some new information concerning his fate, German re-created aspects of the “palace atmosphere” he observed, as a child, at higher levels in Stalinist society. Among the members of the demented Glinsky household are a pair of little girls—Jewish cousins—who live, without permits, in the wardrobe. Their names, German explained, are those of his own nieces, and this incident, too, was part of his family history. “I don’t know if I’m a Russian or Jew,” the filmmaker added. “I always say I’m Jewish because of anti-Semitism. I don’t know anything about Jewish culture, but I know I keep expecting the worst, and that’s from my Jewish mother. She was preparing to die all her life, but she lived to the age of 91.”
Extravagant and unrelenting, Khrustalyov, My Car! has been described by one New York–based Russian critic as a Fellini film made from a Beckett script. Unlike any of German’s previous films in tone, Khrustalyov seems populated by a cast of grotesque, grimacing puppets. (The director expressed satisfaction that a mixed New York Times review that followed Khrustalyov’s festival screening at least called the movie a “Boschean vision of hell.”)…

da qui

 

…The provocative film plays out as an anti-socialist realism film from the Soviet period, and in spirit is a mind-boggling free-spirited Fellini film that effectively but weirdly catches how grotesque life was under Stalin.

da qui