domenica 17 gennaio 2016

Il Labirinto del Silenzio – Giulio Ricciarelli

un giudice ragazzino alla caccia dei carnefici nazisti riesce, dopo anni di indagini, a istruire un processo per ricordare il passato recente, quello delle SS e della guerra perduta, per fare i conti con quello che stava sotto la sabbia, nascosto e intoccabile.
il film racconta anche quel muro di gomma che rende tutto difficile, quasi impossibile.
ma tutto è scritto, tutto si può ricostruire e qualcuno vuole farlo.
apparati dello stato, doppia morale, cavilli giuridici, ma chi te lo fa fare, tutte cose che da noi si capiscono benissimo.
quello che colpisce è la banalità del male, e il combattimento fra la forza dell'oblio e la forza del ricordo.
è stato candidato tedesco per il miglior film straniero all'Oscar, anche se non è arrivato alla cinquina finale, e miracolosamente nelle sale italiane, addirittura una trentina.
il film non è straordinario, parla di Auschwitz, ma niente sensazionalismi, l'unica cosa che fa vedere è un numero su un braccio, ognuno capisca e veda da sè, è solo un film che racconta la storia di un'ossessione, e la scoperta della realtà, a volte didascalico, un buon esempio di cinema civile.
buona visione - Ismaele





Mescolando personaggi reali (il giornalista Thomas Gnielka e il procuratore Fritz Bauer, a cui il film rende omaggio) e di finzione (il protagonista ‘composto’ da tre procuratori esistiti), l’autore realizza un dramma giuridico e personale storicamente irreprensibile. Film-dossier sobrio ed efficace, Il labirinto del silenzio scorre una pagina rilevante della storia in fondo alla quale il male avrà finalmente “un nome, un viso, un’età, un indirizzo”. Divorato dall’interno e ‘aggredito’ dall’omertà dominante, il protagonista ostinato di Alexander Fehling si fa carico del passato della nazione. Convinto di vivere nel paese migliore del mondo, come cantano i bambini nel cortile della scuola, Radmann non riesce davvero a immaginare cosa siano stati i campi di sterminio spacciati per ‘campi di detenzione preventiva’. Ma l’enormità della menzogna non tarda a travolgere il protagonista convinto di indagare su un omicidio e smentito dalla realtà che emerge lo sterminio di massa. Due anni dopo il processo Eichmann a Gerusalemme e vent’anni dopo il processo di Norimberga, ventidue criminali nazisti (soltanto sei saranno condannati all’ergastolo) compariranno davanti al tribunale di Francoforte. Momento capitale nella storia recente della Germania, il ‘secondo processo di Auschwitz’ apre una fase volta alla sensibilizzazione della magistratura e dell’opinione pubblica sul tema delle colpe e delle responsabilità della Germania durante la guerra. Assumere il proprio passato divenne da allora un dovere morale per tutto il Paese. 
Teso e appassionante come un polar, Il labirinto del silenzio svolge una partitura inquisitoria che bracca i cattivi, confronta superiori, gerarchi e subordinati e interroga il silenzio degli aguzzini e quello delle vittime, barricate dietro il loro dolore. Perché il film, attraverso il personaggio di Simon, tratta (anche) l’isolamento dei sopravvissuti, la difficile integrazione in Germania come in Israele, l’impossibilità di dire a chi ignorava l’ampiezza dello sterminio. Ma il film trova le parole, quelle della legge e quelle del Kaddish che Radmann e Gnielka reciteranno per i bambini di Simon lungo il perimetro spinato di Auschwitz. Il silenzio è rotto.

La pellicola risente, tuttavia, di quella che è una delle pecche maggiori del cinema tedesco contemporaneo (con poche eccezioni) ovvero un’estetica di stampo fortemente televisivo in cui la regia, pur nella sua accuratezza, è assolutamente subordinata alla sceneggiatura, che a sua volta scorre perfettamente nei binari della sua prevedibilità (quantomeno per chi i fatti li conosce già). La società tedesca dell’epoca, appare bozzettistica, sopra le righe, quasi caricaturale nei suoi inserti legati alla vita quotidiana, precisi e prevedibili contrappunti alla vicenda giudiziaria che si fonde con il percorso di presa di coscienza del giovane procuratore, con tutti i suoi altrettanto prevedibili dubbi, rinunce, convinzioni fino alla vittoriosa entrata nell’aula giudiziaria. Uno dei meriti, comunque, è quello di aver rispettato lo spirito di Bauer nel volersi misurare con la questione soprattutto da un punto di vista legislativo, evitando con pudore la retorica sensazionalistica di tanti “Holocaust-film”(ebbene sì, è diventato un genere negli anni ’90). Lasciandoci indovinare l’orrore delle testimonianze dei sopravvissuti, che ormai ben conosciamo, dai volti impietriti di chi per la prima volta raccoglieva i loro racconti.
da qui

Il labirinto del silenzio trova la sua necessità nel raccontare un processo giudiziario che si tenne contro dei membri delle SS nella Germania Ovest della fine degli anni Cinquanta. Un fatto, come detto, poco noto e spesso sottovalutato: non a caso, tutti quanti ricordiamo il processo di Norimberga, ma in pochi si soffermano a riflettere sul processo di Ulm o su quello di Francoforte, dibattimenti che per la prima volta fecero sì che i tedeschi stessi potessero mettere sotto accusa i loro connazionali che avevano aderito alle SS.
La tesi che porta avanti Ricciarelli è semplice quanto efficace: la Germania della ricostruzione – quella di Adenauer – aveva rapidamente rimosso i crimini nazisti, con lo scopo – naturale, ma anche vigliacco – di tornare rapidamente alla ‘normalità’. Con Norimberga – che ovviamente non era stato condotto dalle autorità tedesche, ma da quelle alleate – erano stati condannati soprattutto i capi, mentre invece i vari ‘esecutori degli ordini’ erano rimasti in libertà, mimetizzatisi nella neonata Repubblica Federale Tedesca, chi a fare il lattaio, chi addirittura il maestro elementare.
Nel momento in cui allora un giovane e ingenuo Pubblico Ministero si imbatte nella faccenda, trova immediatamente l’ostilità generale. Ed è su questo tracciato dunque che si muove Il labirinto del silenzio, laddove il progredire dell’inchiesta finisce per coinvolgere più persone di quel che il giovane giudice potesse pensare inizialmente, tanto da arrivare a porsi delle serie domande sulla natura del padre morto durante la guerra… Era anche lui colpevole? E poi: se anche il padre della sua ragazza fosse stato un nazista e fosse tuttora un nostalgico del Terzo Reich?
Il labirinto del silenzio non si regge dunque su particolari svolazzi registici, né sulla attenta caratterizzazione dei suoi personaggi, né tantomeno su una abborracciata storia d’amore o sulle doti recitative dei suoi interpreti (il protagonista Alexander Fehling è decisamente privo di carisma), quanto su una solidità di scrittura, piana e sostanzialmente corretta, che permette di condurre a un crescendo inesorabile e a una progressiva acquisizione di consapevolezza che, per dirla alla De André, la si potrebbe sintetizzare in “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Ed è qui dunque che risiede il fascino principale del film, nella sua capacità di dimostrare come un fatto pubblico – la necessità di condannare dei criminali di guerra – arrivi a connotarsi come fatto privato, vale a dire che nessuno può dirsi innocente…

In Il labirinto del silenzio tutto quello che solitamente i film sulla shoah si fanno vanto di mostrare viene negato, viene raccontato, evocato e messo nella testa degli spettatori senza effettivamente mostrarlo. Il genere in assoluto più crudo e impietoso rinuncia alla sua caratteristica primaria, quella sorta di missione di cui si autoinveste e che consiste nel mostrare l’orrore perché nessuno dimentichi, calcando la mano con le armi del cinema quanto più possibile sulla crudeltà e l’infamia, la mancanza di umanità e il dolore. Come se quello fosse l'unico metro su cui si giudica la correttezza morale del genere (quando invece è più probabile il contrario). Questo avviene perché Il labirinto del silenzio in realtà è più un film sulla Germania che si è opposta al nazismo che uno su quella nazista…

…la película se va armando como una suerte de thriller legal, con Johann entrevistando testigos y acusando a criminales en un momento, para después luchar contra sus propias dudas y la inevitable paranoia de estar rodeado por sus enemigos. Pero donde se nota la diferencia con el estilo del cine norteamericano, es cómo esto es situado en segundo plano: la cinta no busca acelerar el pulso de su público, sino que ir enseñándoles sobre una parte importante de la historia moderna de occidente. En este sentido, trabaja muy a su favor la cinematografía. Usando tomas rápidas y planos más amplios únicamente cuando estén del todo justificados, “Laberinto de Mentiras” decide avanzar sólo cuando ha terminado de trabajar uno de sus aspectos por completo. Es de esta manera como logra el complicado equilibrio entre llenar al espectador de la información suficiente y mantener un ritmo que resulte atractivo.
Así, el arma secreta de la película son los breves destellos humorísticos que emplea de vez en cuando. Son chistes muy sutiles y un poco absurdos, pero que vienen en los momentos más adecuados, como si su propósito fuera recordar que en la vida no sólo hay tragedia…

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