Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
giovedì 30 novembre 2017
mercoledì 29 novembre 2017
martedì 28 novembre 2017
lunedì 27 novembre 2017
Le Samouraï (Frank Costello faccia d'angelo) - Jean-Pierre Melville
il Samurai compie il suo lavoro di killer alla perfezione, fa una vita da eremita, l'essere vivente a cui vuole più bene, e convive con lui, è un uccellino, in gabbia, che si accontenta di poco, di pochissimo, come lui.
Jef non è mai sopra le righe, ha un profilo basso, non deve farsi riconoscere, lo conosce chi serve.
l'eremita dandy di periferia si trova in un gioco più grande di lui, deve difendersi, senza quartiere.
sappiate che è un film come pochi, non sapete cosa vi perdete - Ismaele
ps: ho visto la versione italiana, con qualche taglio, mi sembra di capire; il titolo italiano fece arrabbiare Melville, che apostofò i "colpevoli" del titolo italiano con il seguente gentile attributo: "Salauds!".
Jef non è mai sopra le righe, ha un profilo basso, non deve farsi riconoscere, lo conosce chi serve.
l'eremita dandy di periferia si trova in un gioco più grande di lui, deve difendersi, senza quartiere.
sappiate che è un film come pochi, non sapete cosa vi perdete - Ismaele
ps: ho visto la versione italiana, con qualche taglio, mi sembra di capire; il titolo italiano fece arrabbiare Melville, che apostofò i "colpevoli" del titolo italiano con il seguente gentile attributo: "Salauds!".
E' incredibile la bellezza di questo film. Una bellezza che
lascia davvero senza fiato. Quando il cinema d'autore si unisce ad una superba
interpretazione (penso sia inutile parlare della bravura di Delon, una bravura,
a mio parere, persino sottovalutata, se si considera l'incredibile curriculum
di questo grande attore), ecco, improvvisamente, uno spettacolo davvero da
manuale. E qui si tratta di un cinema veramente serio, che offre sensazioni
inimitabili. Quale è il sentimento che affiora in noi dopo questa proiezione?
Innanzi tutto, una sensazione di estrema partecipazione a questa storia. Si
tratta quasi di cinema muto, talmente è intensa la recitazione, direi plastica,
del protagonista. Ma i protagonisti, in realtà, sono due: Frank Costello ed il
suo uccellino. Ed ecco affiorare il tema della solitudine, un tema costante
delle interpretazioni di Delon. Questo spietato killer ha, come tutti, un volto
umano: l'amore per l'unico vero compagno della sua vita, anzi, direi, del suo
modo disperato di vivere: un piccolo animale rinchiuso in una gabbia, che lo sa
allietare e che gli fa pesare un pò di meno la sua estrema solitudine. Ed è
l'amore per questo animale che, più volte, lo salva, facendogli capire da dove
arriva veramente il pericolo. Deluso da tutto quanto, dall'animo veramente
sporco degli uomini e dalla vita disperata che conduce, lo sceglie come suo
unico e vero amico. Anche lui, come il suo canarino, è un animale chiuso in una
gabbia. E si tratta di una gabbia intrisa di sofferenza, di una disperazione
tanto forte che culminerà con un vero gesto d'onore. L'ambientazione è scarna,
come la sua anima: porte scrostate, periferie tristissime, a cui fa da
contrapposizione un modo particolare di vestire, di aggiustarsi sempre il
cappello. E' solo, ma ama se stesso, e lo dimostra con il suo abbigliamento
sempre a puntino. Una vera parabola sulla solitudine, sulla difficoltà di
fidarsi degli altri e sul modo di cercare, inutilmente, dei punti fermi a cui
aggrapparsi. Un film tristissimo, come è triste, tante volte, la vita.
Veramente superbo.
Scrivere di questo film è un’autentica follia, un atto di
superbia, di pura tracotanza. L’unica attività concessa da “Le Samouraï” a
chiunque abbia un briciolo d’intelligenza è la visione. La visione di una
pellicola che, pur rispettando le regole cogenti del noir, travalica ogni
indicazione di genere per affermare una vera e propria filosofia del cinema.
Tradotto in italiano con un titolo irripetibile, “Le Samouraï” è il decimo film
di Jean-Pierre Melville; l’anno prima, con lo strepitoso “Tutte le ore
feriscono... l’ultima uccide” (“Lè deuxième souffle”) ha ottenuto il
riconoscimento definitivo da parte di critica e pubblico. Adesso può finalmente
portare alle estreme conseguenze il suo approccio stilistico. La secchezza
narrativa di “Tutte le ore feriscono...” si trasforma in disadorna essenzialità,
l’asciuttezza visiva in raggelata astrazione, il codice morale del milieu in
regola monastica. Frank Costello (Jef nell’originale) è un asceta del crimine.
Non commette omicidi o esegue delitti: segue un rituale, officia una cerimonia.
La sua solitudine è prova di un’assoluta indipendenza, il rigoroso rispetto
delle regole il segno paradossale della sua libertà, lo scontro con la morte il
teatro della verità. Nel suo sfidare l’ineluttabile Frank Costello afferma
l’autonomia morale dell’uomo, un’autonomia che trascende ogni determinazione
contingente e accidentale. Voto: 10
… Non esiste solitudine più profonda del samurai
Se non quella della tigre nella giungla
La frase è apocrifa, attribuita al Bushidō anche nel doppiaggio giapponese che la presero per buona e invece è una interpolazione dello stesso Melville mentre, sempre in tema di "curiosità" delle distribuzioni, in Italia, che il film lo co-produsse, si optò per una lettura creativa del titolo che da "Le Samouraï" divenne un incredibile "Frank Costello faccia d’angelo" attirandosi le ire di Melville che li apostrofò con un Farabutti che è la sintesi della disistima del regista francese per il nostro Paese, basta solo ricordare i suoi difficili rapporti con Volontè sul tournage de "Le Cercle Rouge" (1970) e la pessima fine che fa fare a Riccordo Cucciolla ne "Un Flic".
Jef (o Frank, comunque Alain Delon) è un lupo solitario utilizzato dalla pegre parigina per lavori di fino e senza intoppi.
Metodico al limite della mistica (o della schizofrenia, ci torneremo) vive da solo con un uccellino la cui sopravvivenza è garantita da piccoli gesti rituali, un goccio d’acqua, due semini e tanta tranquillità..
Se non quella della tigre nella giungla
La frase è apocrifa, attribuita al Bushidō anche nel doppiaggio giapponese che la presero per buona e invece è una interpolazione dello stesso Melville mentre, sempre in tema di "curiosità" delle distribuzioni, in Italia, che il film lo co-produsse, si optò per una lettura creativa del titolo che da "Le Samouraï" divenne un incredibile "Frank Costello faccia d’angelo" attirandosi le ire di Melville che li apostrofò con un Farabutti che è la sintesi della disistima del regista francese per il nostro Paese, basta solo ricordare i suoi difficili rapporti con Volontè sul tournage de "Le Cercle Rouge" (1970) e la pessima fine che fa fare a Riccordo Cucciolla ne "Un Flic".
Jef (o Frank, comunque Alain Delon) è un lupo solitario utilizzato dalla pegre parigina per lavori di fino e senza intoppi.
Metodico al limite della mistica (o della schizofrenia, ci torneremo) vive da solo con un uccellino la cui sopravvivenza è garantita da piccoli gesti rituali, un goccio d’acqua, due semini e tanta tranquillità..
…The elements of the film--the killer, the cops, the
underworld, the women, the code--are as familiar as the movies themselves.
Melville loved 1930s Hollywood crime movies and in his own work helped develop
modern film noir. There is nothing absolutely original in "Le Samourai"
except for the handling of the material. Melville pares down and leaves out. He
disdains artificial action sequences and manufactured payoffs. He drains the
color from his screen and the dialogue from his characters. At the end, there
is a scene that cries out (in Hollywood terms, anyway) for a last dramatic
enigmatic statement, but Melville gives us banalities and then silence. He has
been able to keep constantly in mind his hero's chief business.
…Melville utiliza poca complejidad en
su película, y más busca la intensidad de sus bien desplegados personajes, en
un definido filme de crimen que sabe manejar con destreza sus pocas piezas que
se asientan con solvencia creando personalidades marcadas que a medio camino de
conocerlos se nos tuercen voluntariamente y se nos hacen impredecibles; la dama
faltando a su cita o el samurái provocando la sorpresa en su decisión final,
salvo el oficial que se debe a su trabajo y no tiene otra meta que atrapar a su
presa.
Desde el
principio el dardo apunta a Costello y su sentencia es asunto de tiempo, una
genialidad que juega a favor de la caza del gato sobre el ratón, sin embargo el
asesino también va tras otras personas, no es un ente estático y despliega sus
fichas con ingenio aunque sabe que tiene la soga al cuello, lo que no lo altera
sino lo hace definir su situación, ordenar su ideas y sacudirse el polvo,
despedirse de todo saldando cuentas…
domenica 26 novembre 2017
sabato 25 novembre 2017
venerdì 24 novembre 2017
giovedì 23 novembre 2017
martedì 21 novembre 2017
lunedì 20 novembre 2017
Mr. Ove - Hannes Holm
Ove a 59 anni è un uomo finito, senza lavoro, vedovo, depresso fisso, con sfortunati tentativi di suicidio.
dopo si capisce perché non ne ha più voglia, pian paino lo conosciamo meglio.
fino a che la vita lo incrocia di nuovo (o viceversa) e allora cambia tutto.
nel remake Mr. Ove sarà interpretato da Tom Hanks, successo assicurato.
intanto godetevi il film in sala, pochissime, naturalmente.
vale davvero il prezzo del biglietto, e anche più - Ismaele
dopo si capisce perché non ne ha più voglia, pian paino lo conosciamo meglio.
fino a che la vita lo incrocia di nuovo (o viceversa) e allora cambia tutto.
nel remake Mr. Ove sarà interpretato da Tom Hanks, successo assicurato.
intanto godetevi il film in sala, pochissime, naturalmente.
vale davvero il prezzo del biglietto, e anche più - Ismaele
…Il contesto narrativo è adornato
da gustosi personaggi secondari e da una costante alternanza di flashback atti
a raccontare il passato, più o meno recente, del Nostro, quasi ad assistere a
una sorta di percorso di formazione senza continuità di sorta.
Una ricetta non originalissima ma confezionata magnificamente, immersa
in toni suadenti dove lacrime e risate coesistono in un leggiadro e magnetico
equilibrio.
Al contempo le due ore di visione trattano temi non semplici, e i bizzarri
tentativi di suicidio perpetrati da Ove offrono, pur in chiave leggera, diversi
spunti sulla volontà di credere ancora nella bellezza della vita, oltre ad
altri spunti sociali inerenti la condizione degli immigrati e l'omosessualità
malvista dalla società bigotta. Il tutto messo in scena con un tono caustico
spruzzato di elementi surreali che infondono una gustosa freschezza d'intenti
ad un'operazione sicuramente strizzante l'occhio al pubblico ma non per questo
meno amabile.
…In una società-villaggio che sembra un villaggio a metà
strada tra il mondo colorato di Tim Burton e gli interni-vetrina di Ikea, il
film sulla vita dello scorbutico Ove (ne conserva tutte le ragioni!) che si
evolve fino a diventare un modello di efficienza e solidarietà verso il
prossimo (adotta una adorabile gattina trovatella e ospita in casa un ragazzo
mediorientale cacciato di casa per aver fatto outing con la propria
omosessualità), diventa una lezione di vita senza pretendere di insegnarci
nulla, ma con l’intenzione di raccontarci una bella storia di vita che pare una
favola moderna.
…una storia
potente e tragica che pur concedendo qualcosa alla divertita insofferenza del
presente, lo rende immanente, togliendogli ogni carattere artificioso; riuscirà
a parlarci di sentimenti autentici e delle piccole, grandi battaglie per la
vita che si combattono tutti i giorni.
Il regista
Hannes Olm cerca così un equilibrio tra i vari caratteri del film: la commedia
grottesca e surreale portata avanti dall’intransigenza del vecchio Ove, il tono
melodrammatico del racconto del suo passato, e le istanze di rivendicazione
sociale della moglie e dell’amica immigrata. Potrebbe essere il pregio migliore
della pellicola, ma invece si traduce in una equidistanza che rendono l’oggetto
della visione più freddo di quanto possa sembrare.
…Mr. Ove ha
tutti gli elementi tipici del film composto e garbato, a cominciare dalla
rassicurante rappresentazione di una cittadina nordica e dei suoi abitanti,
tipi umani abbastanza prevedibili e riconoscibili, per quanto un po’
scompaginati.
Eppure, nonostante quest’apparenza, la sgradevolezza che caratterizza
il personaggio principale non sa di posa, ma sembra autentica dall’inizio alla
fine: dentro quest’uomo corpulento e odioso, che tenta il
suicidio nei modi più disparati senza riuscirci
mai per un motivo o per l’altro (un topos della dark comedy, a ogni latitudine)
c’è infatti un disagio autentico nello stare al mondo.
Una condizione che impedisce al film, col passare dei minuti e con
l’elemento dell’integrazione e del calore umano che subentra, di farsi una
semplice parabola sui buoni sentimenti, come in partenza si sarebbe potuto
immaginare. La disperazione di fondo infatti persiste, l’umanità convive col
nichilismo e vi aggiunge soltanto delle sfumature di complessità in più. Un
aspetto che fa di Mr. Ove una specie
di fiaba nera, in cui la cupezza di
Ove concede una tregua al solo scopo di lasciar posto a una dolcezza e una
distensione non meno contraddittoria e carica di domande…
…se Mr.
Ove funziona, funziona grazie alla cura dei dettagli che lo
rendono umano e credibile, a quei piccoli gesti nella recitazione di Rolf Lassgård e
a quelli ripetitivi del personaggio che interpreta, per quell'aria sempre un
po' sospesa e stralunata che hanno tanti titoli scandinavi.
Al fatto che Ove è uno che, se odia, odia solo gli idioti, in un mondo - il nostro - dove invece l'idiozia viene troppo spesso ostentata e appuntata al petto come fosse una medaglia di cui andare orgogliosi.
Al fatto che Ove è uno che, se odia, odia solo gli idioti, in un mondo - il nostro - dove invece l'idiozia viene troppo spesso ostentata e appuntata al petto come fosse una medaglia di cui andare orgogliosi.
E sì, anche a
quella piccola ma esemplare trovata legata alle automobili, al culto della
macchina, all'idolatria per quel marchio stampigliato sulla calandra del
radiatore.
Che, come tutto il film, fa ridere, arrabbiare e commuove allo stesso tempo.
Che, come tutto il film, fa ridere, arrabbiare e commuove allo stesso tempo.
…It’s almost
impossible not to be intrigued by Ove – a bossy, grumpy, obsessively righteous,
and deliberately offensive widower who fights anyone disobeying the rules
created for the neighborhood he lives in. The more we know about his past, the
more we get fond of him, excusing his rude conducts and understanding his
reluctance to help others.
When we take a
quick glance at the 56-year-old Ove, immaculately played by Rolf Lassgard
(“Under the Sun”, “After the Wedding”), he reminds us Michael Caine. With him,
honesty, responsibility, and duty come always first, no matter what. We follow
him on his morning rounds, learning he doesn’t tolerate pets, children’s toys
left in the playground, and especially cars circulating on the pathway…
domenica 19 novembre 2017
Pas koji je voleo vozove (Il cane che amava i treni) - Goran Paskaljevic
un po' di anni dopo La strada,
di Fellini, sembra di rivedere i due protagonisti di quel film in Mika, evasa
dalla prigione, e Rodolyub, un cowboy che di guadagna da vivere con i suoi
due cavalli e esperienza fatta nei film western, magari come stuntman.
Mladic, un ragazzo orfano in cerca di un
cane che viaggia sui treni, è il terzo protagonista, aiutante del cowboy,
all'inizio.
la vita non è rose e fiori per nessuno,
Mika viene picchiata e violentata, Mladic cerca di aiutarla, ma Mika non
vuole nessun aiuto, mai avere debiti.
il film è abbastanza triste, ma non del
tutto, merita di essere visto, un film dove tutti sono ultimi, senza troppe
speranze, così va il mondo, e il film non fa eccezione.
buona visione - Ismaele
…Mika’s character resembles that of innocent
Gelsolmina (La Strada) or the virginlike Cabiria from Nights of Cabiria and The White Shriek, Bojkovic’s short hair and vivid
nature doing little to conceal her striking resemblance to Giulietta Masina.
But even more than Masina’s characters, Mika is a doer, someone who takes her
faith into her own hands. While Paskaljević’s film can also be considered a
road movie of some sort, Mika’s road is quite different from that of Gesolmina:
where Gesolmina meets the tyranny of her boss with holy passivity, Mika flees –
first from the police, then from Alexich, and finally from the helping hands of
Ding’s owner (in the case of Ding’s owner, this distrust has fatal
consequences)…
…Escaped prisoner Mika (Svetlana Bojkovic) is an
independent, thirtyish woman fleeing both the authorities and her smuggling
past; larger-than-life Rodolyub Rodney (Yugoslav mega-icon Velimir ‘Bata’
Zivojinovic) is a charismatic former movie stuntman in his forties (supposedly
a double for “Stewart Granger, Lex Barker and Kirk Douglas”) now on the road
with his rodeo show; Mladic (Irfan Mensur) – is the meek-and-mild,
twentyish son of a railroad man, on a quest to find ‘Ding’, the errant, loco-hopping
family pet that provides the picture’s cutesy title…
un po' di anni dopo La strada,
di Fellini, sembra di rivedere i due protagonisti di quel film in Mika, evasa
dalla prigione, e Rodolyub, un cowboy che di guadagna da vivere con i suoi
due cavalli e esperienza fatta nei film western, magari come stuntman.
Mladic, un ragazzo orfano in cerca di un
cane che viaggia sui treni, è il terzo protagonista, aiutante del cowboy,
all'inizio.
la vita non è rose e fiori per nessuno,
Mika viene picchiata e violentata, Mladic cerca di aiutarla, ma Mika non
vuole nessun aiuto, mai avere debiti.
il film è abbastanza triste, ma non del
tutto, merita di essere visto, un film dove tutti sono ultimi, senza troppe
speranze, così va il mondo, e il film non fa eccezione.
buona visione - Ismaele
…Mika’s character resembles that of innocent
Gelsolmina (La Strada) or the virginlike Cabiria from Nights of Cabiria and The White Shriek, Bojkovic’s short hair and vivid
nature doing little to conceal her striking resemblance to Giulietta Masina.
But even more than Masina’s characters, Mika is a doer, someone who takes her
faith into her own hands. While Paskaljević’s film can also be considered a
road movie of some sort, Mika’s road is quite different from that of Gesolmina:
where Gesolmina meets the tyranny of her boss with holy passivity, Mika flees –
first from the police, then from Alexich, and finally from the helping hands of
Ding’s owner (in the case of Ding’s owner, this distrust has fatal
consequences)…
…Escaped prisoner Mika (Svetlana Bojkovic) is an
independent, thirtyish woman fleeing both the authorities and her smuggling
past; larger-than-life Rodolyub Rodney (Yugoslav mega-icon Velimir ‘Bata’
Zivojinovic) is a charismatic former movie stuntman in his forties (supposedly
a double for “Stewart Granger, Lex Barker and Kirk Douglas”) now on the road
with his rodeo show; Mladic (Irfan Mensur) – is the meek-and-mild,
twentyish son of a railroad man, on a quest to find ‘Ding’, the errant, loco-hopping
family pet that provides the picture’s cutesy title…
Amer Shomali: “La risata dell’oppresso fa tremare l’oppressore”
Una bella intervista di Chiara
Cruciati a Amer Shomali, regista
di The
Wanted 18
Perché un film sulla Prima intifada?
Sono nato fuori dalla Palestina, sono cresciuto in un
campo profughi in Siria. Durante gli anni della Prima Intifada ero ossessionato
dai fumetti che venivano pubblicati dall’Olp. Molti artisti arabi e
internazionali facevano cartoon, poster, disegni su quello che stava accadendo
in Palestina e questo ha modellato in me un’immagine della Palestina molto
potente. Un luogo bellissimo e utopico. Ad un certo punto, negli anni Novanta
avevo in mano un libro di fumetti su Beit Sahour, di un artista egiziano, che raccontava
la disobbedienza civile nel mio villaggio di origine. Ero affascinato: era il
mio villaggio e quei personaggi, dei supereroi, potevano essere i miei zii, i
miei nonni. Un giorno leggevo Superman e il giorno dopo la lotta a Beit Sahour
e la sua gente, i miei parenti.
Più tardi nel 1997 quando arrivai a Beit Sahiur dopo
il processo di pace, rimasi scioccato dalla realtà: il mio villaggio era un
posto come gli altri, i giovani erano interessati a cose materiali, non c’era
senso di comunità, niente di quello di cui sognavo da fuori. Provai a fuggire e
a tornare in Siria al campo profughi, ma senza successo: ormai qualcosa era
cambiato in me. Poi ho incontrato uno dei personaggi che avrei inserito nel
film. Mi disse solo: tutto quello che ti hanno raccontato è vero, ma è passato,
sei arrivato tardi, hai perso la Prima Intifada.
Allora ho iniziato a pensare al film: un modo per
riappacificarmi con Beit Sahour, raccontarne la storia per farla vivere ancora
e per viverla io stesso tramite le voci dei protagonisti. Ho ricreato la mia
versione della Palestina, per me e per i giovani. È stato in qualche modo
un’operazione egoista. È stata una riconciliazione con la Palestina di oggi. La
immaginavo come un’utopia e dovevo comprendere quel passaggio critico, che è
stato il processo di pace di Oslo.
È stato un modo anche per svelare gli errori, quello
che non è stato fatto e quello che è stato sbagliato. Uno strumento per un
possibile futuro?
Alcuni mi chiedono oggi se tramite il film promuovo
una terza o una quarta Intifada copiando il modello della Prima. Non
esattamente: non intendo riproporre quelle pratiche ma piuttosto sottolineare
ed esaltare la creatività, quel tipo di resistenza che le nuove generazioni
potrebbe facilmente rimettere in piedi. Possono farlo ma devono crederci,
devono credere che possono guidare la comunità.
Con la versione inglese del film, vuoi parlare al
mondo fuori. In un periodo in cui mancano i grandi intellettuali di un tempo,
da Kanafani a Said a Darwish, possono i nuovi artisti e i loro nuovi linguaggi
ridefinire la narrativa palestinese e controbattere a quella israeliana, più
facilmente comprensibile all’Occidente?
Il film ha diverse versioni, in arabo, in francese, in
inglese e anche in giapponese. Lo abbiamo fatto perché potesse essere trasmesso
anche in altri paesi, nei cinema e nelle televisioni. È stato difficile perché
dovevo bilanciare il contesto: non ridurlo troppo perché altrimenti il pubblico
straniero non avrebbe capito di cosa si stava parlando; e non ampliarlo troppo
per non renderlo noioso per l’audience palestinese e quella araba che conoscono
la storia dell’Intifada. Alcune scene sono state riviste molte volte,
rischiavano di non essere divertenti perché avevano o troppe informazioni o
troppo poche.
Veniamo proprio all’ironia, all’umorismo che è il
linguaggio principale del film. Un’ironia che va a sgretolare le basi
dell’occupazione israeliana, della sua paranoia illogica del controllo. Non è
facile narrare un periodo tanto drammatico come la Prima Intifada attraverso la
voce di 18 mucche.
La decisione di usare l’umorismo in questo film era un
rischio, ma era la cosa giusta da fare. Non avrei saputo farlo altrimenti, sono
un fumettista e cerco l’ironia ovunque, in ogni angolo di una storia. Ma era
comunque difficile combinare una mucca che diceva qualcosa di divertente vicino
ad una madre che raccontava del figlio ucciso. All’inizio non avevo una
risposta. Poi uno dei protagonisti del film mi ha raccontato un episodio: una
notte, durante la Prima Intifada, stava studiando matematica a casa perché il
giorno dopo avrebbe avuto l’esame finale. In piena notte l’esercito israeliano
ha fatto irruzione a casa sua, lo ha preso, bendato e ammanettato e lo ha
caricato nella jeep. Era disperato, sapeva che avrebbe saltato l’esame e
avrebbe perso l’anno. Stava pensando a tutto questo quando la jeep si è fermata
di nuovo a Beit Sahour e ha arrestato un’altra persona. I soldati l’hanno fatta
salire dietro, con lui. Il ragazzo gli ha dato una gomitata e ha chiesto: “Chi
sei?”. L’altro ha risposto: “Il professore di matematica”. Hanno iniziato a
ridere come pazzi. I soldati urlavano di smettere di ridere ma non riuscivano a
fermarsi. Hanno fermato la jeep e li hanno picchiati ma loro continuavano a
ridere.
In quel momento è stato tutto chiaro: i soldati
pensano che arrestandoti, bendandoti e ammanettandoti, ti controllano
completamente. Ma non è così: tu puoi ancora ridere e loro non possono farci
nulla. Tu continui a pensare e loro non possono controllare la tua mente. La
risata dell’oppresso può distruggere le fondamenta del sistema di oppressione.
È stata la chiave del film: i palestinesi soffrono per la loro situazione ma
non sono vittime, sono persone con i loro sentimenti e anche con le loro
risate. Così, chi sta fuori non proverà pieta ma empatia.
sabato 18 novembre 2017
venerdì 17 novembre 2017
mercoledì 15 novembre 2017
Quattro notti con Anna - Jerzy Skolimowski
una strana storia d'amore, quella di Leon.
lui è un po' ritardato, ha vissuto ai margini della società, lavora all'inceneritore dell'ospedale, e vive con la nonna vecchia, che poi muore.
vive di niente, le sue relazioni con gli altri esseri umani sono come quelle dei gatti, lui ama la natura e gli animali.
poi scopre, già molto grande, la bellezza di un'infermiera vicina di casa, la spia, riesce ad entrare a casa sua con l'inganno e trascorre quattro notti con lei, che non si accorge.
il suo amore è esserci, vicino a quella donna, che per lui è bellissima.
la protegge nel sonno, la guarda, cura la casa.
nessuno potrebbe capire un amore così strano, le porte della galera si aprono.
lei sa che lui non le ha fatto del male, ma non riesce a volerlo.
insomma, un film tristissimo, ma molto bello, e in più si può vedere online dal sito della Rai, in lingua originale, con i sottotitoli italiani, cosa volere di più?
buona visione - Ismaele
lui è un po' ritardato, ha vissuto ai margini della società, lavora all'inceneritore dell'ospedale, e vive con la nonna vecchia, che poi muore.
vive di niente, le sue relazioni con gli altri esseri umani sono come quelle dei gatti, lui ama la natura e gli animali.
poi scopre, già molto grande, la bellezza di un'infermiera vicina di casa, la spia, riesce ad entrare a casa sua con l'inganno e trascorre quattro notti con lei, che non si accorge.
il suo amore è esserci, vicino a quella donna, che per lui è bellissima.
la protegge nel sonno, la guarda, cura la casa.
nessuno potrebbe capire un amore così strano, le porte della galera si aprono.
lei sa che lui non le ha fatto del male, ma non riesce a volerlo.
insomma, un film tristissimo, ma molto bello, e in più si può vedere online dal sito della Rai, in lingua originale, con i sottotitoli italiani, cosa volere di più?
buona visione - Ismaele
QUI
il film completo, con sottotitoli in italiano
…Skolimowski decide di far vivere la storia a chi osserva in prima persona, accompagnati dallo stesso protagonista, creando una sensazione di enorme vicinanza e di malsana compassione per l’oggetto principale delle sue attenzioni.
Ma nonostante tutto, a scapito del più completo pessimismo, una goccia di umanità rimane nel prossimo, la donna infatti comprende Leon e capisce la sua inconsapevolezza e solitudine nell’atto perpetrato ai propri danni: lo stupro subìto dalla stessa anni prima, del quale sempre Leon fu incolpato (ma in seguito prosciolto), la convince e le apre gli occhi sull’ingenuità del soggetto. Ecco che quello dell’infermiera diviene lo sguardo che il regista ci invita a posare sul nostro prossimo, perché la pena che suscita il protagonista deve essere superiore alla condanna per l’atto commesso; il perdono e la comprensione devono convivere ed esistere in un universo malato ed imperfetto, regnato dall’odio e dall’ingiustizia. Su questo ci invita a riflettere il regista, sul trionfo di un bagliore di luce in un manto oscuro incedente e dilagante…
…Skolimowski si spinge nei meandri dell’incapacità di comunicare approfondendo situazioni ambientali nelle quali questa è portata all’estremo, come nel caso di Quattro notti con Anna: quello di un ritardato mentale innamorato della donna del cui stupro è stato accusato. L’estremità del caso di Leon è straziante e commovente nella sua incapacità di darsi una risposta e crea un’empatia profonda con il personaggio che va al di là della solidarietà per i suoi mali, ma va al profondo delle idiosincrasie di ognuno di noi quotidianamente di fronte a situazioni in cui l’incomunicabilità è il proverbiale convitato di pietra.
Con l’interpretazione magistrale di Artur Steranko e Kinga Prejs e le scelte di fotografia azzeccatissime nel ricreare quella cupezza che affatica gli occhi e del cui valore simbolico è quasi superfluo parlare, Quattro notti con Anna è un ritratto lirico dolce e tragico allo stesso tempo, la storia di un amore tossico, nel senso che produce tossine ineliminabili, avvelena la vita del protagonista che lo desidera senza poterlo realmente ambire.
…L’anello donato di nascosto diventa il simbolo di un legame invisibile che c’è finché non si percepisce, vivendo in uno stato di incosciente partecipazione, senza chiedere altra realtà da quella immaginata. Da fuori a dentro in un processo di graduale e faticoso avvicinamento si stringe il legame tra lo sguardo a distanza e il contatto con la pelle, per avvicinarsi quel tanto che basta a percepire che nessuna corrispondenza sarà possibile, per aspettare quel niente necessario per uscire per sempre da una casa che non è mai appartenuta.
L’unico accesso veramente proibito è quello dello sguardo dell’altro. Leon non può entrare dalla porta d’ingresso e alla luce del sole, ma da una finestra marginale e nel buio delle notti per poi cedere alla tentazione di vedere tutto e annegare. Non gli importa niente di diverso dalla partecipazione al sonno di lei che dorme e non sa. Sapere è il discrimine che annuncia la fine prossima di uno sbilanciamento di esistenza. Anna esiste solo per lui che la guarda e di cui ignora tutto; lei non sa di esistere per lui eppure finché lo ignora lei esiste e lui pure. Esistere nell’ignoranza senza cedere alla tentazione di vedere tutto e percepire la vita attraverso un’idea di finestra dalla quale non si vede a fondo sono le uniche strategie di sopravvivenza perché «se vedessimo davvero qualcosa non resisteremmo alla tentazione di buttarci di sotto» (E. Ghezzi)…
L’unico accesso veramente proibito è quello dello sguardo dell’altro. Leon non può entrare dalla porta d’ingresso e alla luce del sole, ma da una finestra marginale e nel buio delle notti per poi cedere alla tentazione di vedere tutto e annegare. Non gli importa niente di diverso dalla partecipazione al sonno di lei che dorme e non sa. Sapere è il discrimine che annuncia la fine prossima di uno sbilanciamento di esistenza. Anna esiste solo per lui che la guarda e di cui ignora tutto; lei non sa di esistere per lui eppure finché lo ignora lei esiste e lui pure. Esistere nell’ignoranza senza cedere alla tentazione di vedere tutto e percepire la vita attraverso un’idea di finestra dalla quale non si vede a fondo sono le uniche strategie di sopravvivenza perché «se vedessimo davvero qualcosa non resisteremmo alla tentazione di buttarci di sotto» (E. Ghezzi)…
…Questo film è
laconico e quasi completamente muto, direi quasi alla Kaurismäki se non fosse
per l'assenza di quell'umorismo e di quelle situazioni surreali che ravvivano
le opere del regista finlandese. La narrazione è temporalmente decostruita, al
punto che soltanto verso il finale si comprende chiaramente il vero ordine
cronologico delle vicende. Leon, il protagonista, assiste allo stupro di una
ragazza, Anna, e viene accusato di essere il colpevole. Condannato, quando esce
dal carcere inizia a sorvegliare di nascosto Anna, del quale si è invaghito. Dopo
averle messo nel sonnifero nel vasetto dello zucchero, si introduce nottetempo
in casa sua per starle vicino e guardarla mentre dorme, ma anche per ripararle
piccoli oggetti (come in "Ferro 3") e per lasciarle dei regali. La
quarta notte, però, verrà scoperto... Una pellicola notturna e disperata, lenta
ma a tratti intrigante, anche se in fondo piuttosto inconcludente.
…Ritratto tagliente di una Polonia
ritrovata dopo il lungo esilio volontario. Film capace di mantenere viva
l’attenzione nel silenzio e nel buio, di rinvenire carcasse di drammi facendo
rifulgere, tuttavia, piccoli momenti di grazia.
"Four nights with Anna" in realtà non
sorprende molto e per qualche ragione strana non riesce a fare totalmente
breccia se non a tratti, però resta intatto il senso di osservare un'umanità
maltrattata e umiliata, i deboli e gli ultimi, con la cornice di una storia
d'amore che più bizzarra non si può. E se la trama ad un primo sguardo appare
malata e morbosa il regista riesce, grazie anche all'incantevole
interpretazione del protagonista, a svuotarla di qualsiasi malizia rendendola
sensibile, delicata e soprattutto nel finale struggente. Senza rinunciare a dei
pugni nello stomaco ben assestati e fortissimi.
martedì 14 novembre 2017
Nowhere Line: Voices from Manus Island - Lukas Schrank
lunedì 13 novembre 2017
The Place - Paolo Genovese
tratto da
una serie tv Usa, The
Booth At The End, il film di Paolo Genovese era atteso dopo
l'exploit, di critica e di pubblico, del film precedente.
molti attori sono presenti in
entrambi i film, qui protagonista assoluto è Valerio Mastandrea, sempre seduto
(e sempre più somigliante a Francesco De Gregori), è un po' Aladino, un po'
psicologo, un po' (cattiva?) coscienza delle persone che lo cercano per
raggiungere i loro sogni e desideri.
le persone e le loro storie
sono spesso collegate, ma solo lui lo sa, e prova a muovere i fili invisibili
che li collegano, riuscendoci, faticosamente, in parte.
…Non tutto funziona, è giusto dirlo.
Gli interpreti sono credibili, ma non tutti i loro personaggi e le loro storie.
Qualcuno è abbastanza pleonastico, per non dire controproducente alla statura
del film (vogliamo bene a Sabrina Ferilli, ma a lei viene riservato
l'ingrato compito di chiudere i giochi con un epilogo tanto posticcio quanto
insulso, che stride pesantemente con quanto di buono si era visto fino allora),
mentre anche la sceneggiatura spesso si incarta su se stessa rendendo il film
un po' ripetitivo e prolisso (diciamo che qualche minuto in meno avrebbe
giovato), dove la retorica e il pietismo, seppur tenuti sotto controllo, sono
sempre in agguato.
Malgrado
tutto, ritengo comunque The Place un
film coraggioso e riuscito, un film dalla struttura universale e in
controtendenza rispetto all'omologato panorama italiano, dove evidentemente
l'ottimo cast dà una grossa mano a nascondere le pecche di cui sopra. Paolo
Genovese è un cineasta intelligente, consapevole dei propri mezzi e dei
propri limiti. E le sue pellicole sono validi esempi di un buon "cinema
medio" di cui, opinione personale, in Italia abbiamo tanto bisogno per
riportare la gente ad affollare le sale.
…The Place sperimenta una scrittura filmica che conserva il teatro come spettacolo vivo, facendo respirare
la finzione e la performance, lasciando conversare l'immagine teatrale, che si
offre senza limiti allo sguardo, e il quadro cinematografico, che costringe il
punto di vista. Convertito il salotto in ristorante, i suoi attori vivono il set
come vivrebbero la scena, sono le loro performance a organizzare lo spazio,
costruendo il proprio personaggio davanti alla macchina da presa.
…Il
successo di Perfetti Sconosciuti ha caricato di aspettative l’arrivo di The Place. La coralità del primo film è richiamata nel secondo, ma
questo rappresenta l’unico punto di contatto tra le due pellicole. Se nel primo
caso si trattava di una commedia brillante e divertente, nel secondo lo
spettatore si trova di fronte ad un genere quasi drammatico. Ovviamente non è
qui che nasce la delusione. La svolta di Perfetti Sconosciuti è
rappresentata dal colpo di scena finale, tentato anche in The Place pur senza bissarne la forza e l’incisività. Insomma,
manca quel quid che inevitabilmente ci si aspettava. Stesso discorso
per il ritmo: serrato sì, ma a tratti forzato e poco scorrevole.
…The Place non è un film
eccezionale, ma proprio per questo motivo sembra che Genovese sia a proprio agio, perché anche in un adattamento
abbastanza pedissequo (sono uguali alla serie tv anche le singole storie e il
personaggio della cameriera), si muove benissimo ed esalta a dovere un
materiale che, è facile intuirlo, in altre mani poteva rendere molto meno.
Proprio il suo stile estremamente tecnico e calligrafico lo aiuta, con un
necessario moltiplicarsi di inquadrature differenti per mostrare sempre la
stessa situazione senza uscire mai dai binari di una messa in scena invisibile
e funzionale agli attori.
Alla fine nelle sue mani quella di The Booth At The End sembra una storia italiana, anche se non lo è. Sembra una storia di personaggi teatrali pirandelliani, una in cui ognuno mette in scena se stesso davanti ad un pubblico formato da una sola persona, in un film che insiste sottilmente su quelle debolezze umane che inducono le persone a chiedere un aiuto disperato.
Alla fine nelle sue mani quella di The Booth At The End sembra una storia italiana, anche se non lo è. Sembra una storia di personaggi teatrali pirandelliani, una in cui ognuno mette in scena se stesso davanti ad un pubblico formato da una sola persona, in un film che insiste sottilmente su quelle debolezze umane che inducono le persone a chiedere un aiuto disperato.
…Mastandrea dimostra
per l’ennesima volta la sua bravura nel saper tenere la scena pur non
muovendosi dalla sedia, non comprendiamo chi rappresenti veramente, se una
figura demoniaca o un giustiziere che conduce il richiedente nella propria zona
d’ombra.
The Place risulta un film ambizioso, ricco di
dialoghi, primi piani, con narrazione che si svolge in un unico ambiente che a
tratti rischia di stancare lo spettatore, sopratutto a causa di alcune
interpretazioni deboli che fanno decadere il magnetismo scenico. Anzi,
probabilmente l’errore più grande é stato quello di mettere in scena troppe
storie, troppi personaggi, e sviluppandone davvero bene pochi, rischiando così
che non si crei abbastanza empatia con le storie e i suoi portatori.
Un’occasione mancata probabilmente, ma non vogliamo buttarla direttamente
nella pattumiera, anzi apprezziamo lo sforzo di realizzare qualcosa di diverso
dalla solita commedia – porto sicuro per molti registri nostrani – e siamo
certi che Paolo Genovese vuole
dimostrarci che può mostrarci la sua bravura su altri generi anche drammatici…
domenica 12 novembre 2017
Klopka (The trap) - Srdan Golubovic
Srdan Golubovic ha fatto pochi film, questo è il secondo che vedo, dopo Krugovi (Circles), e anche Klopka è memorabile.
ottima sceneggiatura e bravissimi attori, tra cui Miki Manojlovic, in una piccola, ma fondamentale, parte.
siamo a Belgrado, dopo la guerra e la globalizzazione, tutto è in vendita, tutto si vende e si compra, anche le vite umane hanno un prezzo.
un bambino malato, un'operazione decisiva, due ottimi genitori, una proposta irricevibile, e poi succede tutto.
grande film, fosse arrivato da Hollywood sarebbe stato nei nostri cinema un mese, e sarebbe stato nella cinquina degli Oscar.
cercatelo, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele
ottima sceneggiatura e bravissimi attori, tra cui Miki Manojlovic, in una piccola, ma fondamentale, parte.
siamo a Belgrado, dopo la guerra e la globalizzazione, tutto è in vendita, tutto si vende e si compra, anche le vite umane hanno un prezzo.
un bambino malato, un'operazione decisiva, due ottimi genitori, una proposta irricevibile, e poi succede tutto.
grande film, fosse arrivato da Hollywood sarebbe stato nei nostri cinema un mese, e sarebbe stato nella cinquina degli Oscar.
cercatelo, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele
…"The Trap" racconta una
storia del nostro tempo, descrive la crudele realtà della società contemporanea
in cui, per necessità, anche chi apparentemente conduce una vita tranquilla può
da un momento all’altro sprofondare nel baratro. Non vuole essere un film che
suggerisce cosa sia giusto e cosa sbagliato, ma semplicemente descrive con
lucida drammaticità cosa può accadere ad un uomo quando è costretto per amore
filiale a fare delle scelte che probabilmente non avrebbe mai pensato di poter
fare…
Thriller
serbo poco conosciuto, vale la pena di scoprirlo. Una buonissima regia che sa
mettere angoscia e molto disagio. I personaggi del film vengono devastatati
psicologicamente piano piano, vuoi per la preoccupazione per la malattia del
figlio, vuoi per la varie difficoltà a cui viene sottoposto il padre. Non
lascia scampo, nemmeno la fine. Anche le interpretazioni sono perfette. E' da
vedere.
…El progresivo deterioro interior y exterior de
la pareja protagonista, paralelo al declive físico de su vástago, permite a
Srdan Golubovic abrir sus intenciones al dibujo de una radiografía que alcanza
todos los estratos sociales de la ciudad, desde la miseria infantil a los
grupúsculos enriquecidos con el tráfico de armas. Con verismo palpable y una
dirección inteligentísima, que encadena con pretendida imperfección largos
encuadres estáticos e imposibles rupturas de planos, la historia atrapa en su
brutal sinceridad desangelada, en el cariño casi inmediato del público hacia
unas figuras entrañables de puro identificables. Impredecible pese a sus
presuposiciones, “The trap” sacude la conciencia a ritmo de thriller y
cala desde la insondable profundidad del drama familiar. Obligada.
A harsh, existential thriller, this,
which is also a terrific portrait of life in the grey, hopeless suburbs of
contemporary Belgrade.
Mladen and Marija are both professionals, he an architect, she a teacher, who nevertheless, working for the state, are relatively poor. So when their young son is suddenly diagnosed with a life-threatening condition that only a trip to a specialist hospital in Germany can put right, there is no way they can afford it, and their lives are ripped apart as they realise their powerlessness. No-one can help, so Marija puts an ad in the newspaper (apparently a common resort) asking for financial help.
A response from a mysterious caller presents Mladen with an offer he cannot accept yet can hardly refuse since the life of his son is at stake. It's stomach clenching, unbearable to watch, as this everyman is forced into an evil act which will hopefully save his son. Ironies pile upon ironies, as he descends into a spiral of guilt. What would you do to save your child's life?
Meanwhile in the streets, in the post-Milosevic 'society in transition', wealth and poverty co-exist in a corrupt dead-hearted society where criminals with expensive cars can do as they please and little boys live on the margins washing car windscreens.
All framed by a 'confession' by Mladen to an unknown listener, the stunning ending can be seen as the ultimate tragedy, or a kind of redemption. A member of the audience remarked on its utter sadness. It's a sad country,' responded the director.
Mladen and Marija are both professionals, he an architect, she a teacher, who nevertheless, working for the state, are relatively poor. So when their young son is suddenly diagnosed with a life-threatening condition that only a trip to a specialist hospital in Germany can put right, there is no way they can afford it, and their lives are ripped apart as they realise their powerlessness. No-one can help, so Marija puts an ad in the newspaper (apparently a common resort) asking for financial help.
A response from a mysterious caller presents Mladen with an offer he cannot accept yet can hardly refuse since the life of his son is at stake. It's stomach clenching, unbearable to watch, as this everyman is forced into an evil act which will hopefully save his son. Ironies pile upon ironies, as he descends into a spiral of guilt. What would you do to save your child's life?
Meanwhile in the streets, in the post-Milosevic 'society in transition', wealth and poverty co-exist in a corrupt dead-hearted society where criminals with expensive cars can do as they please and little boys live on the margins washing car windscreens.
All framed by a 'confession' by Mladen to an unknown listener, the stunning ending can be seen as the ultimate tragedy, or a kind of redemption. A member of the audience remarked on its utter sadness. It's a sad country,' responded the director.
sabato 11 novembre 2017
venerdì 10 novembre 2017
Al fuoco pompieri! (Horí, má panenko - The Fireman's Ball) - Miloš Forman
film che fa ridere, mischiando risate a tristezza.
alla fine non c'è più niente, neanche un tetto, la Primavera di Praga è dietro l'angolo, poco più in là i carri armati.
il film sarà candidato all'Oscar nel 1969.
Miloš Forman lascerà Praga, e il film intanto sarà bandito dagli schermi della Cecoslovacchia, e non solo.
film che merita molto, un gioiellino, cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele
Il ballo organizzato dall'associazione dei pompieri di un
paesino cecoslovacco si trasforma in un disastro: naufraga nel caos il
tentativo di eleggere la miss della serata, i premi della lotteria vengono
trafugati, scoppia un incendio in una casa vicina e l'ultraottuagenario capo in
pensione (Jan Stöckl) rimane senza regalo di addio.
Tragicomico e malinconico come solo il cinema
dell'Est Europa sa essere, Al fuoco pompieri! è uno dei film più importanti e maturi
della prima parte di carriera di Miloš Forman. Dosando attentamente la comicità
agrodolce, il regista costruisce un tenero ritratto di un gruppo di uomini di
mezza età totalmente inetti, incapaci non solo di organizzare una festicciola
di paese ma anche (e soprattutto) di dare un senso alla propria divisa e alla
propria missione. Sfiorando il grottesco in alcune sequenze (la fuga delle
aspiranti miss con il bailamme che ne segue, la “premiazione” dell'ex capo) il
ballo dei pompieri diventa metafora di tutti i fallimenti e di tutte le
circostanze assurde che costellano le nostre vite: un valzer crepuscolare e
buffo al contempo che si conclude, amaramente, su una bellissima nota onirica
nel finale. Buona performance corale del cast privo di grandi nomi ma ricco di
volti espressivi. Prodotto da Carlo Ponti e nominato all'Oscar per miglior film
straniero, provocò in patria aspre polemiche, soprattutto da parte della
categoria dei pompieri che lesse la divertente satira come un attacco
personale.
da qui
…In Al
fuoco, pompieri, conosciuto in Italia anche con la traduzione letterale del
titolo ceco Fuoco ragazza mia!, Miloš Forman si focalizza sulle
storture che falcidiavano il suo Paese e, pochissimi mesi prima della loro
esplosione, mentre la febbre sociale stava per raggiungere il punto di
ebollizione, le racchiude in una sera di festa destinata ad andare a rotoli da
cui attaccarle apertamente. Con l’arma della satira più pungente, le prende e
le ridicolizza, le vira all’assurdo, le disumanizza, dipingendole impietoso,
senza filtri, senza altri veli che non siano quelli della finzione
cinematografica. Ne ha per tutti Forman, nella sua personale lotta contro un
intero sistema statale ormai incancrenito: ne ha per gli uomini in divisa, fra
i quali nessuna personalità riesce a emergere sull’altra, come se fossero un
grigio e informe ammasso di mediocrità; ne ha per l’intera cittadinanza
convitata alla festa, fra selvaggi accoppiamenti sotto il tavolo, ulteriori
furti al posto di restituzioni e candidate miss non così tanto avvenenti che
comunque, al momento della sfilata, fuggono e si chiudono in bagno mentre a
ricevere la corona, per esclusione, sarà un’anziana paesana. Fino alla messa
alla berlina della falsa solidarietà di una comunità intera, che al vecchietto
che ha perso tutto nell’incendio della sua casa, quello stesso vecchietto la
cui sedia viene progressivamente avvicinata alle fiamme “perché non prenda
freddo” ma di spalle “perché non veda la sua casa bruciare”, dona anziché
denaro i biglietti di una lotteria della quale i premi non esistono più, già
trafugati da mani ignote. E a nulla servirà il tentativo di recuperarli, a luci
spente per (tentare di) lasciare nell’anonimato i colpevoli redenti, se non a
infangarsi ancora una volta, a rivelarsi per quello che si è, in una società
talmente marcia che persino l’ultimo sparuto barlume di onestà non può che
ribaltarsi in vergogna, ignominia, fallimento. Miloš Forman, profeta di quello
che sarebbe accaduto l’anno dopo e che lo costrinse, fra interventi militari e
censori, ad abbandonare il suo Paese, già nel ’67 distruggeva la burocrazia con
l’arma dell’ironia, colorava lo schermo della più ottusa stupidità della gente
e dell’arroganza degli incompetenti che si aggiogano il diritto di decidere per
gli altri, metteva in scena il caos per mostrare come non possa che generare
altro e peggiore caos. Centrando un film straordinario, bruciante, sofferto,
mai abbastanza celebrato: il sontuoso e urticante monumento funebre di
un’intera civiltà.
da qui
Milos Forman's The Firemen's Ball was banned
"permanently and forever" by the Communist regime in Czechoslovakia
in 1968, as Soviet troops marched in to suppress a popular uprising. It was
said to be a veiled attack on the Soviet system and its bureaucracy, a charge
Forman prudently denied at the time but now happily agrees with. Telling a
seductively mild and humorous story about a retirement fete for an elderly
fireman, the movie pokes fun at citizens' committees, the culture of thievery,
and solutions that surrender to problems…
… Is
"The Firemen's Ball" dated today? That's an interesting question. It
no longer borrows energy from its risk-taking, as so many Soviet bloc films did
in the 1960s and 1970s. In those days any new film from Poland, Hungary,
Yugoslavia or Czechoslovakia, in particular, was likely to be a veiled attack,
wreathed in the glamour of danger. But "The Firemen's Ball" hasn't
dated as entertainment; Forman doesn't push his political points, being content
to let them make themselves, unfolding gracefully from the human drama. The
movie is just plain funny. And as a parable it is timeless, with relevance at
many times in many lands. Remarkable, how often when I learn of a bureaucratic
brainstorm I think of the fireman moving the farmer's chair closer to the
flames.
da
qui
dice Miloš Forman
- „Non avevo in mente
di fare un’allegoria politica – non mi piace
nei film –però purtroppo
nella storia del furto alla lotteria
i primi protagonisti del regime comunista
hanno riconosciuto loro stessi.“
- „Insieme a Papousek
abbiamo preso il tutto e ce ne siamo andati
da Praga a Krkonose (montagna al nord della Boemia,
nota red.) per scrivere una storia
di un disertore che si nasconde nei sotterranei
del palazzo Lucerna di Praga. Ci ha raggiunto Ivan
Passer per aiutarci, ma neanche lui riusciva
a tirarci fuori dal punto morto della sceneggiatura.
Così abbiamo deciso di riposarci un po’
e siccome nel paese dove stavamo c’era un ballo,
organizzato dai pompieri locali, abbiamo deciso
di recarci là. Volevamo giusto bere qualche birra, guardare
la gente, chiacchierare con le ragazze e rilassarci
un po’. A Vrchlabi, dove stavamo, la maggior parte
della gente lavorava nella fabbrica locale
e ogni tanto organizzavano dei balli
per divertirsi un po’. Questo qui era stato
organizzato dai pompieri volontari,
che per far divertire i partecipanti avevano
preparato un concorso di bellezza
per le proprie figlie.
C’era anche una lotteria. Bevevano e litigavano
con le loro mogli. Noi tre li guardavamo
a bocca aperta. Durante tutto la giornata seguente
non facevamo altro che parlare con Ivan Papousek
della serata passata. Lunedì abbiamo iniziato
a buttare giù le nostre idee: chissà cosa
sarebbe successo se... E da martedì
abbiamo iniziato a scrivere un’altra sceneggiatura. Quella storia
si scriveva da sola. Ogni volta che c’era
un problema, siamo andati a Vrchlabi a farci
due chiacchere con i pompieri, dato che avevamo
scoperto che locale frequentavano per giocare a carte, bere
birra e giocare a biliardo. Ormai ci conoscevano
ed erano aperti con noi –
così abbiamo finito la prima versione
della sceneggiatura del film Al fuoco, pompieri!iIn sei settimane.“
- „Nel passato un film
del genere sarebbe stato semplicemente vietato.
Ma in quel periodo speciale della Primavera
di Praga anche i capi dei comunisti stavano perdendo
il senso di sicurezza e quindi dissimulavano
le azioni impopolari dietro dei raggiri .
Per esempio organizzavano le proiezioni di un
film che in realtá volevano vietare, il pubblico
però se lo sceglievano loro. Pagavano
dei provocatori che dovevano ad esempio gridare
che il film offendeva la classe lavoratrice
-per poi poter ritirare il film dalla distribuzione
sostenendo che „il popolo non lo gradisce.“
- „La prima proiezione
pubblica della pellicola Al fuoco, pompieri! venne organizzata a Vrchlabi. I personaggi
influenti della politica e della cultura scelsero
questo posto sperando che i cittadini
si sentissero offesi e ridicolizzati dal modo in cui li ho presentati
sullo schermo. Avevano presupposto che la loro reazione
sarebbe stata talmente furiosa
che mi fu addirittura vietato di partecipare
alla proiezione per non essere magari ferito.
In realtà il pubblico di Vrchlabi rise durante tutto il film.
Poi arrivo´ il momento della discussione aperta.
Uno dei provocatori, portati dal partito, si alzo´ e dichiaro´ in nome
di tutti i presenti, il suo disgusto per il
livello a cui questo film arrivava ad umiliare
la nostra classe lavoratrice e soprattutto i pompieri.
Quando finí o, uno dei pompieri locali chiese
di parlare – per caso anche lui si chiamava
Novotny come il Presidente della Repubblica
di quel tempo. Il signor Novotny si alzo´ e
disse: . “Beh, compagni, io non so...
Davvero non so. Sapete,
non è che io sia un oratore,
un intellettuale, però davvero, io non so.
Qui il compagno afferma che questo qui ci umilia,
vabbè magari sì, ma cavolo, gente,
non vi ricordate
com’era quando ha preso fuoco
la stalla degli Jira? E noi che trincavamo
come dei pazzi al bar?
E poi quando siamo finalmente arrivati dagli Jira
ci siamo resi conto di aver lasciato
la pompa nella base? Ma, ve lo ricordate?
E poi, quando la macchina ci è scivolata
e siamo caduti di lato sul ghiaccio? Ancora oggi
vedo la capra degli Jira in fiamme.
Non è che siamo così tanto beoti
in ‘sto film. “
da qui
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