si corre
tutto il film, Beatrice trascina Donatella con le parole e poi si va nel mondo.
basta
poco per essere felici, prima di tutto dimenticarsi di non esserlo, e finché
dura funziona.
poi la
realtà prende il sopravvento, entrambe non ci stanno con la testa, e però
l’importante è lottare, contro i mulini a vento o i mostri che si agitano
dentro.
parafrasando Paco
Ignacio Taibo II, Beatrice e Donatella non
potranno più conquistare il mondo, solo provano a sopravvivere e a continuare a
dare fastidio.
Beatrice, la contessa, è stata archiviata e dimenticata da
tutti, dopo averle rubato tutto, Donatella non ha niente, ha solo un ricordo, e
quello la tiene in vita.
belli anche i personaggi di che le cura e le cerca.
il film magari non è perfetto, ma non ti lascia
indifferente, questo è sicuro - Ismaele
…questo è un film che parla di malattia mentale ed è
ambientato nel 2014, quando gli ospedali psichiatrici giudiziari erano ancora
aperti. Quindi tocca temi molto delicati, che prevedono automaticamente il
rischio di scivolare nel pietismo o nello schema consolatorio
dell’antipsichiatria, ma non ha mai nemmeno un tentennamento. Invece è onesto,
sentimentale e generoso: onesto nel mostrare la malattia e la sua gestione
quotidiana, sentimentale nella relazione con i personaggi e le loro manie,
generoso nello slancio con cui gestisce tutto questo materiale umano senza
avere paura di nessun tema…
… Virzì, lo aveva già dimostrato in tutti gli
altri suoi film: non parte da una prospettiva ideologica ma
compassionevole, come chi sa che l’essere angelo e demonio allo stesso
tempo è esattamente la cifra (scrivo così perché fa fine, ma avrei detto
caratteristica) dell’essere umano.
La differenza tra operatori e pazienti si
confonde, alcuni curanti starebbero meglio dall’altra parte, mentre la
relazione terapeutica più bella e salvifica è quella che una protagonista
instaura con l’altra protagonista, la più matta di tutta la compagnia.
Se non mi vergognassi della banalità della frase
dopo una vita di studio direi che, alla fine, il vero ingrediente indispensabile
per la cura è la relazione terapeutica, dove sperimentare un amore
compassionevole in cui il curante riconosce nell’altro le sue stesse fragilità
e meschinità e vi fa pace, rimandando ad altri il compito impossibile e
logorante della perfezione.
Il film è intessuto di queste relazioni
terapeutiche, poco tecniche ma molto calde, trasversali tra i personaggi anche
più marginali e, a prima vista, abietti. Ognuno visto più da vicino ha le sue
ragioni e, come diceva De Andrè: ‘Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo
mondo‘.
Non vorrei aver dato l’impressione che si tratta
di un film serioso a cui far seguire il temuto dibattito.
Si sta molto in apprensione. Si tifa ora per
l’uno e poi anche per il suo avversario e soprattutto, non si ride di qualcuno,
ma si ride perché quella pazza gioia è contagiosa.
…Come spesso gli capita Virzì dimostra il meglio
di sé quando riesce a dare slancio alla propria spontaneità registica,
scardinando un racconto troppo prevedibile e slabbrato, disperso in una vicenda
picaresca che accumula situazioni e incontri non sempre convincenti. Rispetto
ad alcuni dei titoli principali della sua carriera (Ovosodo, Baci e
abbracci,Tutta la vita davanti, Il capitale umano) La
pazza gioia perde in più di un’occasione la dimensione di insieme,
sfaldandosi in piccoli bozzetti e arcipelaghi emotivi altalenanti, ma riesce a
trovare un riscatto in poche, mirabili sequenze: il primo incontro tra le due
donne, quello tra la Ramazzotti e il padre (un Marco Messeri dimesso al punto
giusto). Gli aspetti più prevedibili e banali – anche la scelta della colonna
sonora si dimostra “facile”, sia per quel che riguarda il tormentone Senza fine di
Gino Paoli, motore anche narrativo, che la preghiera laica Ave Maria di
Fabrizio De André – trovano così una pur parziale compensazione, e La
pazza gioia riesce persino a commuovere, senza troppi ricatti sentimentali.
…A dispetto di alcuni momenti irrisolti,
"La pazza gioia" è un film da amare quanto le sue splendide
protagoniste, specie per quei vuoti che aprono il racconto, per quell'assurda
fuga senza meta, in cui gli eventi sono slegati, costretti a consumarsi nell'attimo
e quel che accade obbedisce a una logica che è del sogno - e a chi lamenti una
mancanza di coesione, chiediamo: come potrebbe esserci?
Siamo, allora, al centro del film, nel suo
sviluppo più libero e felice, quello in cui i personaggi, sciolte le briglie
della drammaturgia, realizzano se stessi, si impongono ai nostri occhi e ci
catturano. Non potevamo chiedere di meglio.
…Il meglio sta nella prima parte, nel personaggio di
Beatrice, perfettamente scritto e interpretato. Ed è parecchio interessante lo
sguardo dal di dentro sulla comunità terapeutica. Fa capire parecchio di cosa
sia oggi la follia, di come sia socialmente vista e trattata. Sparite le gabbie
e le camicie di forza dei manicomi, i pazienti sono tenuti sotto controllo e
regolati attraverso la somministrazione di psicofarmaci. La lodevole intenzione
di togliere ogni stigma alla malattia mentale finisce col risolversi spesso in
condiscendenza, in un correttismo politico che abolisce la cosa e si vergogna
perfino a nominarla, ma che non può eluderla. I confini della villa-ricovero
sembrano elastici, espandersi o restringersi a seconda del tasso di tolleranza
o di controllo esercitato al momento dai responsabili. E se qualche volte quei
confini sembrano sparire trattasi di illusione ottica, i confini non spariscono
davvero mai. Chissà cosa scriverebbe oggi della malattia mentale e del suo
trattamento in Occidente il Michel Foucault di Sorvegliare e punire. Di culto, come sempre, il cameo
di Marisa Borini, vera mamma di Valeria Bruni Tedeschi (e di Carla Bruni) già
vista in film diretti dalla figlia come Un castello in Italia,
e che qui fa benissimo la contessa-madre di Beatrice Morandini Valdirana. Paolo
Virzì si conferma il vero erede, forse l’unico, della commedia all’italiana dei
Monicelli, Risi, Scola. Solo con meno perfidia e più sentimentalismo.
…Paolo Virzì da
sempre fa cinema italiano classico, porta sulle sue spalle un’eredità
pesantissima e la mette in scena ogni volta cercando contemporaneamente di
guardare avanti, a modo proprio cerca di portare avanti un’idea di cinema che
lo precede. Non è nè un merito nè un difetto ma una scelta che lo caratterizza.
Come potrebbe quindi un film così classico far compiere alle proprie
protagoniste l’atto che nemmeno Umberto D. aveva il
coraggio di compiere? Il risultato è che attraverso l’ostinata resistenza di
questi esseri umani al desiderio di porre fine a tutto si manifesta un’umanità
così caratteristica dello spirito nazionale per come lo ha sempre messo in
scena il cinema, che commuove. C’è una coerenza così invidiabile tra
l’ostinazione a tenere duro e la contaminazione tra dramma e commedia (qui tesa
fino agli estremi) che è invidiabile. In un paese in cui non si raccontano
finali suicidi ma personaggi che “andranno avanti”, anche se non si sa come, le
commedie non possono che essere contaminate di dramma e le tragedie non possono
che far anche ridere. La Pazza Gioia in ultima
analisi mette in scena questo: la nostra ostinazione a non contemplare il
nichilismo quando raccontiamo il mondo. Ed è inebriante vederlo accadere sullo
schermo…
…Ottime,
ribadisco, le prove delle due protagoniste: a Valeria Bruni Tedeschi è
affidata, a sorpresa, la parte comica e sopra le righe della pellicola,
superando l'esame a pieni voti. Ma la vera sorpresa arriva dalla
signora Virzì, ovvero Micaela Ramazzotti, quasi muta,
paralizzata dal dolore e "spalla" paziente per 3/4 del film per poi
"esplodere" nel finale, stritolando letteralmente i nostri cuori con
un monologo di grande intensità: ammetto di non averla mai troppo amata, nè
come attrice nè come persona, ma sarei intellettualmente disonesto se non le
riconoscessi i giusti meriti e i suoi grandi progressi professionali.La pazza
gioia non raggiunge la perfezione stilistica e l'impegno civile de Il
capitale umano:è un film che prende più al cuore che alla testa, facendo leva
sui sentimenti. La prima parte è un po' stiracchiata, non esente da evitabili
banalità (vedasi la scontatissima e inflazionata scena della fuga dal
ristorante) tuttavia man mano che ci si avvicina all'epilogo la comicità lascia
spazio alle emozioni e al desiderio di giustizia, di umanità, di riscatto morale
e materiale. E' un film che coinvolge e si fa amare, e che
conferma Virzì come autore a tutto tondo, capace di mettere nelle sue
opere la giusta dose di leggerezza e denuncia sociale, invitandoti a riflettere
senza mai appesantire. Degno erede di una tradizione di "commedia
all'italiana" che nulla ha a che vedere con innumerevoli filmetti che,
purtroppo, troppe volte ingolfano le nostre sale.
…sono le due classiche perdenti di successo, che hanno la
sola colpa agli occhi della società di essere “nate tristi”. E che si
prendono semplicemente una rivincitaverso l’istituzione, sovvertendo l’ordine
costituito, per poi farvi diligentemente ritorno. SeValeria Bruni
Tedeschi qui, va detto, in una prova maiuscola, fa sostanzialmente se
stessa (con una punta di snobistica civetteria e di temperato macchiettismo),
laRamazzotti studia il suo personaggio in levare, trattenendo il dolore
per lasciarlo scorrere dentro di sé come un dolce veleno, ma pronto a
trasformarsi in amore.
Ovvio che sono loro due a tenere su tutta la vicenda
che Virzì, tutto sommato, regge bene tenendosi equidistante
dall’estetica dei “matti da slegare” ma anche dalle tentazioni spettacolari
alla Qualcuno volò sul nido del cuculo. Viaggia a velocità
diverse accelerando o rallentando, pigiando ora più sul pedale
della commedia, ora su quello del dramma. Senza alzare la voce,
oltretutto, butta anche lì qualche discorso sull’istituzione psichiatrica anche
mescolando nel cast attori e veri pazienti dei centri che ha visitato per
documentarsi. Cameo per il cantautore livornese Bobo Rondelli nella
parte del truzzissimo ex amante di Beatrice che fa pipì, dal terrazzo di casa
sua, in testa a Valeria Bruni Tedeschi: e anche questo è Paolo Virzì.