venerdì 31 ottobre 2025

La stangata – George Roy Hill

sceneggiatura eccezionale, ottimi interpreti, regista al massimo.

una storia di imbroglioni, come un'arte.

e rubare ai ladri non è mai stato così godibile, per chi guarda il film, tempi perfetti e colpi di scena (in)credibili.

un film “toda joia toda beleza”, da non perdere, promesso.

buona (truffatrice) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, in italiano


 

 

…chi è disposto a stare al gioco non può non rimanere incantato dall’atmosfera del film. La stangata è un meraviglioso omaggio ai film di gangster dell’età d’oro di Hollywood, e come tale è puro e semplice entertainment. Ma di gran livello. E se parte della critica si rifiutò di accettare il senso del progetto, il pubblico lo adorò: il film incassò nei soli Stati Uniti più di 68 milioni di dollari e arrivò a vincere 7 Oscar (film, regia, sceneggiatura, montaggio, scenografia, costumi e musica) su 10 nomination.

In realtà, nelle intenzioni di Ward il film avrebbe dovuto essere diverso. Avrebbe innanzi tutto dovuto essere il suo esordio registico, con Redford protagonista assoluto. Ma l’attore aveva dei dubbi a lavorare con un regista debuttante e la cosa convinse George Roy Hill a prendere in mano il progetto. A quel punto, Newman si dimostrò interessato a partecipare e Hill e Ward riscrissero la sceneggiatura addosso a Newman e Redford. Il risultato di quelle revisioni fu questo magnifico esempio di cinema dotato di stile, visivamente brillante e raccontato con gran ritmo. Una meraviglia per gli occhi.

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…Al termine dell’operazione Johnny rinuncia alla sua quota affermando che finirebbe comunque per perderla, scegliendo invece di lasciare la scena insieme a Gondorff. Il finale sottolinea come astuzia strategica e spirito collaborativo siano strumenti essenziali per sovvertire situazioni critiche dove forza fisica o violenza non trovano spazio.

Gli ultimi minuti mettono così in evidenza:

·        L’importanza della fiducia reciproca tra complici;

·        L’utilizzo intelligente dell’inganno rispetto alla brutalità;

·        I dilemmi etici legati al confine sottile tra legalità e opportunismo.

L’eredità lasciata da questa pellicola resta quella di uno spettacolo elegante ed estremamente intelligente che continua ad essere considerato modello indiscusso nel panorama dei caper movie americani.

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E' un film ottimamente dosato, in un gioco eccezionale di intreccio, tempi, azione, caratterizzazione dei personaggi. La tensione e' continua e il gioco dei colpi di scena nei colpi di scena e' poi perfetto, e trae in inganno lo spettatore fino alle ultime scene, quando il complicato gioco d'incastro si risolve ed ogni tassello scivola perfettamente al proprio posto. Ottimo tutto, regia, fotografia, sceneggiatura, montaggio, recitazione, musiche. Oggigiorno gli spettatori per lo piu' si aspettano da un film di azione molti effetti speciali spettacolari, sequenze mozzafiato, emozioni forti, senza pensare che spesso questi fattori servono a nascondere film di scarsa qualita', con trame povere e poche idee, trite e ritrite ed, oltre a tutto, poco e male sviluppate.

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mercoledì 29 ottobre 2025

Cinque pezzi facili – Bob Rafelson

Bobby (Jack Nicholson) vive la sua vita libera, lavora quando serve, ha una fidanzata, e altre donne, ama la sua libertà, ma non sa bene cosa fare.

poi gli dicono che il padre sta morendo, e torna a casa, per qualche giorno, poi di più.

e sappiamo tante cose, era un pianista di talento, ma non sopportava l'oppressione della e nella sua benestante famiglia d'origine, ed era fuggito, vivendo una vita completamente diversa rispetto a quella che avrebbe voluto il padre per lui.

e alla fine, quando si sente legato, continua a fuggire.

nessuno è davvero libero, e bisogna ricominciare da capo.

quello che impressiona del film è quanto sia vivo ancora oggi, e sincero, e le interpretazioni sono perfette, quella di Jack Nicholson ancora di più.

la prigione della famiglia, del lavoro, di una relazione duratura costringono all'evasione Bobby, a sua volta inquieto portatore di una solitudine esistenziale senza soluzione.

un piccolo grande film da non perdere, se uno si vuole bene.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, in italiano

 


Uno splendido inno all'anticonformismo,una luce accecante sullo spirito contraddittorio sugli anni a cavallo tra i Sixties e i Seventies,senza la rabbia tipica di quegli anni ma solo descrivendo la confusione dei sentimenti e la ricerca di qualcosa non semplice da definire(liberta'?).Il finale di poetica indeterminazione è emblematico in questo senso:non si cerca un punto di vista ma si constata solo il malessere esistenziale del protagonista ingabbiato in schemi sociali che sente che non gli appartengono e da cui vuole fuggire nel modo piu'veloce possibile senza neanche la giacca addosso....Uno dei film piu'belli di Rafelson

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…‘Cinque pezzi facili’ ha la complessità, le sfumature, la profondità del Cinema migliore. Coinvolge lo spettatore nella vita dei personaggi e lo fa affezionare a loro anche se i protagonisti non cercano quell’affetto.

Ricordiamo Bobby e Rayette perché sono completamente se stessi, così incasinati, così bisognosi eppure così coraggiosi nella loro solitudine. “Una volta che si sono visti personaggi ‘vivi’ come questi, è più difficile apprezzare dei pupazzi in uno spettacolo di marionette”.

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In un’atmosfera rarefatta e allusiva che si tramuterà in tipica cifra stilistica della New Hollywood anni Settanta, Cinque pezzi facili tratteggia dunque il profilo di un giovane americano che sceglie scientemente una propria inquieta deriva. La sua è una fuga da qualsiasi forma di tradizionale responsabilità. Pure verso se stesso, verso il proprio talento dimenticato, verso un probabile futuro di generali apprezzamenti pubblici. Una lenta e sommessa autodistruzione, che sembra generarsi da un non meglio definito risentimento verso qualsiasi forma di consesso sociale, famiglia compresa. Bobby continua forse a credere nell’amore (l’incontro con Catherine), ma con ogni probabilità si tratta più di coazione a ripetere che di sincera convinzione. Come il fotografo Thomas di Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), pure Bobby è destinato a sparire all’orizzonte. La splendida sequenza finale sta lì a dimostrarlo. In un piano-sequenza pressoché a macchina fissa che si allunga sui cartelli di coda Bobby decide di optare per l’evanescenza, per l’evasione finale da qualsiasi possibilità di interpretazione dell’esistenza umana. Nemmeno il confronto con il padre può essere risolutivo – ed è del resto significativo che il padre non possa rispondere, riducendo la confessione di Bobby a un monologo davanti alla propria indecifrabile coscienza. In un certo senso il personaggio di Bobby Dupea anticipa le radicali ribellioni del Randle McMurphy di Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975). Ne è la premessa, in qualche modo. Bobby non è ancora sospettato di essere pazzo né viene rinchiuso in un istituto psichiatrico, ma la ribellione che agita entrambi i personaggi ha radici molto simili. Randle avrà una maggiore consapevolezza del Potere e, pur in un territorio ancora allusivo e allegorico, un più diretto coinvolgimento con istanze contingenti. Bobby si ferma un attimo prima della coscienza. Percepisce, avverte, vive di intuizioni, mai di vere elaborazioni. Cinque pezzi facili può condividere l’animo contestatario dei suoi tempi, ma tenendosi lontano dalle sue più dirette implicazioni…

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lunedì 27 ottobre 2025

I professionisti - Richard Brooks

una banda di professionisti viene ingaggiata da un riccone per riportare la moglie (Claudia Cardinale) a casa, dice lui che era stata rapita da un bandito messicano.

i professionisti fanno il loro lavoro al meglio e riportano la donna a casa, ma non tutto è come sembra.

ottimi attori, buon ritmo, un film che merita.

buona (rivoluzionaria) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

"La rivoluzione è sempre uguale. Si tratta di buoni contro cattivi. Bisogna vedere chi sono i buoni..."

I Professionisti (The Professionals, 1966) è a mio avviso uno dei migliori western di sempre. Lo vidi per la prima volta da ragazzino e me ne innamorai subito, per via della storia avvincente e delle belle scene d'azione, oltre che per via di una bellissima ed indomita Claudia Cardinale. Ma soltanto dopo varie visioni ti accorgi di quanto sia un film politico, nel vero senso del termine. I due personaggi interpretati magnificamente da Burt Lancaster e Lee Marvin sono due sconfitti. Hanno partecipato alla rivoluzione messicana ed hanno perso. Essi "incarnano le delusioni e le miserie di tutta una generazione", sono i figli di un'America liberale che di lì a poco scoprirà davvero quanto sia difficile poter portare avanti le proprie idee. Così, si fanno assoldare da un ricco americano per ritrovare la propria moglie, rapita (apparentemente) da un loro vecchio compagno di lotta. L'apparenza è un altro tema importante: niente è come sembra. I due se ne renderanno conto ancora una volta, ma questa volta sapranno fare la scelta giusta. Ed è proprio il finale a ribaltare tutto e a non cambiare niente, perchè i due possiedono ancora intatta la loro coerenza. Richard Brooks è stato un regista straordinario, molto sottovalutato. Ma penso che questo sia davvero il suo capolavoro, poichè lo ha diretto e scritto in maniera straordinaria, con dialoghi magnifici, malinconici ("La rivoluzione è come una grande avventura d'amore: al principio sembra una dea, una causa santa. Ma, come tutti gli amori, ha un nemico implacabile: il tempo. E allora uno la vede com'è realmente. La rivoluzione non è una dea, ma una baldracca: non è mai stata pura, mai santa, mai perfetta") ed un reparto attoriale da far venire la pelle d'oca. Cosa si può chiedere di più ad un western?

"Tu sei un bastardo!", dice nel finale Ralph Bellamy a Lee Marvin, mentre i quattro mercenari liberano finalmente la moglie. E Marvin replica: "E' vero, ma io ci sono nato, mentre lei... lei si è fatto da solo!" Applausi. 

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Un western senza tempo con uno stile anomalo e un messaggio rivoluzionario ancora piu'anomalo.Il quartetto di mercenari è semplicemente magnifico:Lancaster,Ryan,Marvin,Strode creano dei personaggi che rimangono bene impressi nella memoria come dall'altra parte è memorabile l'indomita Cardinale e il rivoluzionario innamorato Palance.I personaggi sono complessi,con una forte connotazione d'ambiguita e forse è proprio questa la carta vincente del film.Il finale,poi,una vera chicca con un messaggio politico letteralmente inequivocabile

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Con “I professionisti” Richard Brooks torna al western dopo dieci anni (nel 1956 aveva diretto “L’ultima caccia”) e gira quello che probabilmente sarà il suo capolavoro. Partendo dal romanzo “A Mule for the Marquesa” di Frank O’Rourke, Brooks trasforma un’idea di base molto sfruttata al cinema (un gruppo di “mercenari” che si avventurano in territorio ostile per salvare una donna prigioniera di un crudele rapitore) in un film maturo e complesso, ricco di notazioni morali e politiche, che offre una disincantata riflessione sul fallimento degli ideali di un’intera generazione, sulle logiche distorte del potere rivoluzionario, qualsiasi esso sia (“La rivoluzione è sempre uguale. Si tratta dei buoni contro i cattivi. C’è solo un dubbio: quali sono i buoni.”) e sull’impossibilità “di rifugiarsi dietro l’asetticità professionale di chi si preoccupa solo di eseguire il proprio lavoro” [Paolo Mereghetti]. In questo senso “I professionisti” è un film che rifiuta categoricamente qualsiasi facile manicheismo o soluzione a buon mercato…

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domenica 26 ottobre 2025

The haunting (Gli invasati) - Robert Wise

un film di paura come si deve, senza chissà quali effetti speciali.

tratto da un gran bel libro di Shirley Jackson (qui), il film ci porta in una casa dove avverrebbero fatti molto strani.

uno studioso del soprannaturale scova due ragazze con sensibilità speciali ed è obbligato a "prendere" il nipote dei padroni della casa.

i quattro vivono insieme per pochissimo tempo (poche decine di ore, in realtà) scoprendo che davvero succedono alcuni fatti che hanno del soprannaturale.

gli attori sono perfetti per la parte, sopratutto il professore (Richard Johnson) ed Eleanor (Julie Harris), che sente di essere parte della casa, e non vuole andare via.

un piccolo grande film, che non si dimentica.

dallo stesso libro è stato tratto almeno un altro film e anche una serie, ma il film di Wise è perfetto, perchè insistere con altro?

nessuno si pentirà di aver visto il film, promesso.

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Lungaggini? Psicologismi? Questo è un film perfetto. Una regia sublime al servizio di una storia e un'atmosfera terrificanti. La sceneggiatura gioca magistralmente sul non-mostrato, la minaccia è sempre oscura, i personaggi sono ricchi di sfumature, la suspence non cala mai. Ancora oggi uno dei film di paura più...paurosi. La casa in cui si svolge la vicenda è indimenticabile, con i suoi corridoi labirintici. Insieme all'Overlook Hotel del capolavoro "Shining" di Stanley Kubrick, è l'edificio più terrificante della storia del cinema.

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E' un capolavoro di tensione che inchioda alla sedia sin dall'inizio. Il regista è stato veramente grande nel far riuscire così bene un film ambientato quasi tutto in una vecchia e tetra casa di campagna, servendosi solo di una manciata di attori. La suspense è costruita abilmente con l'uso di luci e ombre, rumori inquietanti (oggi col digitale non riescono a farli così sinistri), movimenti di macchia, inquadrature particolari. Gli attori lo coadiuvano al meglio, ciascuno incarnando un tipo umano diverso: lo scienziato razionalista, la donna complessata e oppressa dalla famiglia d'origine, lo sbruffone scettico, e la moretta molto, molto ambigua…

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Wise mette in serie le varie sequenze de “Gli invasati” utilizzando un montaggio connotativo, in cui i primi piani di Eleanor (e degli altri personaggi) si alternano con dettagli dell’arredo e dell’architettura di Hill House per rafforzare il conflitto interiore della protagonista, dando un senso specifico al travaglio interiore del personaggio. Le dissolvenze incrociate hanno poi una doppia funzione: se nell’incipit mostrano il fluire del tempo, nella parte centrale del film esse sono passaggi onirici, mentali, dove Eleanor è sempre il soggetto dell’operazione.
Regista poliedrico e capace utilizzatore delle possibilità del mezzo cinematografico, Robert Wise dirige un film in cui il dettagliato e ricco profilmico, la messa in quadro estrema, il montaggio che fonde l’immagine e il suono creano un’opera di grande fascinazione tout court. La profondità scopica va di pari passo con quella psicologica e “Gli invasati” risulta un esempio di horror di “atmosfera” tra i meglio riusciti della storia del cinema.

da quui

 

In una villa in campagna sono avvenute strane morti nell' 800. A distanza di diverse dcine di anni uno studioso del paranormale, il dottor Markway, decide di verificare se veramente questa villa sia maledetta. Perciò, chiede ad altre tre persone di aiutarlo nei suoi studi, invitandole a passare qualche giorno all'interno di questo luogo sinistro. Oltre all'erede e ad una lesbica dalle apparenti dure maniere, vi è anche la fragile e strana Eleanor. La casa la sta chiamando a sé o è frutto della sua mente fiaccata da anni di insicurezze e repressioni?
Wise gioca con l'ambiguità dall'inizio alla fine e questo è uno dei punti di forza di The Haunting. Un'ambuiguità insita tanto negli oggetti quanto nei soggetti. Un'ambiguità che va di pari passo con la suspense creata ad hoc dal taglio espressionista delle luci; dalle opprimenti scenografie barocche; dalle profonde e buie inquadrature "wellesiane" spesso dal basso verso l'alto; dal gioco dei rumori; dai normali particolari che si trasformano in angosciose presenze (la maniglie, le porte che sbattono).
Qui non ci sono spargimenti di sangue. La morte rimane fuori campo. Qui tutto è giocato sul tempo dell'attesa, sul buio, sull'intravisto, sul percepito.
Un grande impianto stilistico, unito ad una sceneggiatura impeccabile e ad interpreti (e personaggi) convincenti, fanno di The Haunting un "piccolo" manuale del terrore e per questo la sua potenza dirompente non viene scalfita dal passare degli anni.

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Sofisticato e opprimente nell’impianto visivo e scenografico gotico, fra corridoi, porte nell’incubo e scale terrorizzanti, il film ottiene i suoi migliori effetti inquietanti, però, nel sonoro, con un magistrale congegno di sottrazione e immissione, dove rumori, voci, effetti sonori elettronici, sguardi di terrore, squarci in soggettiva, angoli bui, rivelazioni e occultamenti non lasciano mai la certezza su cosa si sia visto, udito, percepito. Infine, la sensazione, non razionale, di una casa maledetta che s’impossessa dei suoi occupanti, è reale.

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Robert Wise ha la capacità di sfruttare le nostre paure più semplici: il buio, un rumore nella notte, la notte stessa con i suoi misteri, una porta socchiusa. Onirico e reale si mescolano senza farci capire il confine tra di loro e questo ci disorienta e ci disturba, più volte ci troviamo a riflettere se quello che vediamo accada veramente o sia frutto della suggestione dei personaggi.

Non esistono effetti speciali ma l’ansia e la tensione sono alimentate da movimenti veloci della camera da presa, giochi di luce ed ombra resi ancor più violenti dalla pellicola monocromatica, grandangoli fortemente distorcenti, giochi di specchi, musica dissonante.

Il montaggio unisce sapientemente momenti di dinamismo e riprese ossessive con sequenze molto più classiche. Che dire un piccolo gioiello di cinema perfetto e curato in ogni dettaglio. Un film di cui si parla poco ma che andrebbe riscoperto e rivalutato (non solo da chi lo sfrutta per farne delle rivisitazioni) soprattutto oggi, dove con gli effetti speciali si nascondono notevoli carenze, in primis di idee.

Piccole curiosità. Il regista è stato molto abile nel trattare l’attrazione saffica tra le due protagoniste. Nel ‘63 eravamo ancora in pieno Codice Hays e la censura era molto severa e poco permissiva.

L’unico effetto speciale di tutta la pellicola è, nel finale, la distorsione della porta creata con un operatore dall’altra parte che la spingeva con quanta forza aveva.

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…La grandezza del film non risiede tanto negli effetti visivi – volutamente limitati – quanto nell’uso del sonoro e del non detto. Rumori inspiegabili, voci, colpi improvvisi e silenzi angoscianti sono i veri protagonisti. Wise costruisce la tensione giocando sull’ambiguità: ciò che accade è frutto di fenomeni paranormali o delle allucinazioni di Eleanor?

La fotografia di David Boulton, con ombre e prospettive inquietanti, e le musiche sperimentali di Humphrey Searle, realizzate anche con incisioni a rovescio, rafforzano l’atmosfera perturbante. L’accenno al rapporto ambiguo tra Eleanor e Theo aggiunge inoltre una dimensione trasgressiva e psicologica, rara per l’epoca…

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The Haunting(che brutto il titolo italiano-Gli invasati-anche perche'di invasati non se ne vedono in questa pellicola)è il classico horror psicologico vecchio stampo 100%fosforo e 0% effetti speciali,al contrario dell'omonimo remake di DeBont in cui tutto era fin troppo esibito fin dalla prima inquadratura(la casa era fantastica pero').Qui i due uomini protagonisti fanno la parte degli scettici,le donne quella delle sensitive e Wise usa tutto l'armamentario a sua disposizione per spaventare non mostrando assolutamente nulla e se per due ore tiene desta l'attenzione e la suspense con solo rumori e voci fuori campo vuol dire che è un grande regista....

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sabato 25 ottobre 2025

Legend - Brian Helgeland

nella Londra dei gangsters, non quella dei Beatles e della swinging London, due fratelli diventano i leader del crimine.

sono i due fratelli Legend, Reginald e Ronald (entrambi interpretati mirabilmente da Tom Hardy), uno innamorato, l'altro pazzo, eppure non ce n'è per nessuno, tutti capitolano.

niente di straordinario, a parte Tom Hardy, ma è un film che non annoia.

buona (banditesca) visione - Ismaele


QUI si può vedere il film, su Raiplay



…Si parla molto in compenso in Legend, in articolati dialoghi che sfiorano il vaniloquio, dove ogni tanto si cita la Grecia, per ragioni enogastronomiche (si ordina del retsina al ristorante), etimologiche (ci viene spiegato il significato del termine “utopia”) e narrative (si allude al ritorno di Odisseo ad Itaca, anche se lo si confonde con Agamennone), ma dell’unità di luogo tempo e azione della tragedia non vi è traccia. Né si respira il dramma di questi personaggi, che vengono dal nulla e vanno verso un epilogo narrato in didascalia (d’altronde, bisogna ricordarcelo, questa è una storia vera), non hanno traumi né obiettivi (l’utopia della Nigeria non riesce a mascherare questa assenza), non sono mai realmente in pericolo. Bisogna accontentarsi di una rissa al pub, di un cattivo che viene ucciso con un colpo sparato in fronte, e poi c’è anche un corpo a corpo tra gemelli che naturalmente, data la doppia interpretazione di Hardy, è tutto in montaggio proibito…

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…La vera particolarità di Legend sta nell’avere il protagonista Tom Hardy impegnato in entrambi i ruoli dei gemelli Kray. Negli anni, Hardy si è confermato come uno degli attori più esplosivi e carismatici della sua generazione, e in possesso di una carica espressiva e fisica non comune, ma, anzi, assai rara. Basti pensare ai suoi recenti impegni in Mad Max: Fury Road Revenant – Redivivo, per averne un esempio. In Legend, l’attore britannico si “sdoppia” interpretando contemporaneamente (nella pellicola) due ruoli così simili quanto diametralmente opposti, praticamente dicotomici. Con grande impegno e intelligenza, Hardy “entra” alla perfezione sia in Reginald che in Ronald, e il risultato è spettacolare. E anche la sola e unica nota positiva di questo film…

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…Un mix di violenza e spettacolarità che, dal punto di vista drammaturgico, fa sì che "Legend" possa contare da una parte sul contrasto caratteriale dei protagonisti, uniti da un legame indissolubile ma distanti sia sul piano della personalità (omosessuale dichiarato, Ron era affetto da disturbi mentali) che su quello della predisposizione mentale, con Reggie  differente dal gemello per la visione pragmatica e imprenditoriale della sue "attività"; dall'altra sul pathos prodotto dal tormentato e romantico legame che contraddistinse l'unione tra Reggie e la bella e fragile Frances, la donna che sarebbe diventata sua moglie e che nel corso della loro relazione avrebbe cercato - senza successo - di convincere il marito a non lasciarsi coinvolgere dalle tendenze autodistruttive dell'imprevedibile fratello…

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...Se il titolo suggerisce l’ambizione a un respiro epico per la vicenda dei fratelli Kray, l’obiettivo è ben lungi dall’essere stato raggiunto: Legend incespica al contrario in una narrazione che, indecisa se dare risalto alla dimensione pubblica (e mediatica) della vita dei due fratelli, o alle sue implicazioni più intime, resta sospesa in una sorta di terra di mezzo. Problematica, seppur non priva di motivi di interesse, è infine la doppia interpretazione di Hardy: la sua prova nei panni dello psicopatico Ronnie, infatti, appare tanto marcata nella resa delle idiosincrasie del personaggio, talmente smaccatamente sopra le righe, da perdere presto in misura e credibilità. Un limite che, più che all’ottimo interprete britannico, va imputato a una sceneggiatura che sembra affidarsi in misura eccessiva alle sue doti attoriali.

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mercoledì 22 ottobre 2025

Eddington – Ari Aster

la prima parte il film scorre tranquilla, niente di imperdibile, ma è solo la preparazione di quello che succede poi, nella seconda parte del film inizia la resa dei conti, come fosse un western impazzito, dove tutti sono contro tutti, agiscono come se non ci fosse un domani.

in una minuscola cittadina del New Mexico si svolge una contesa elettorale senza esclusione di colpi, ai tempi del covid, degli smartphone(s) e del complottismo (o dei complotti veri).

alla fine appaiono degli incappucciati, che non sono il Ku Klux Klan, e ammazzano delle vittime designate, una vera macelleria messicana.

diversi impazziscono, molti la pagano, pochi, come sempre, ne traggono profitto, altri (che appaiono in parte) se ne avvantaggiano, e tutti (o quasi) sono pedine di un gioco al massacro che non capiscono fino in fondo.

Joaquin Phoenix aggiunge al suo curriculum una prestazione straordinaria, ma tutti sono bravi, sotto l'ottima direzione di Ari Aster.

a me è piaciuto molto, i film perfetti sono pochi, ma Eddington è una grande ed inquietante opera (quarta) di Ari Aster.

fra i finanziatori manca il ministero del turismo degli Usa.

un film da non perdere, per i miei gusti.

buona (pessimistica) visione - Ismaele

ps: per concidenza pochi giorni fa ho letto un libro di Leslie Marmon Silko (qui), ambientato in New Mexico, nel film vengono citate, come nel libro, le terre rubate (agli indiani)

  

 

Qualcuno mica a torto lo troverà pasticciato e confuso, visto che inserisce al suo interno persino troppi spunti e tematiche non tutti sviluppati al meglio. Però questo è anche il suo bello, e il bello del cinema di Ari Aster in generale. Un suo film parte in un modo e poi può prendere qualsiasi direzione, anche e soprattutto quelle più pazzesche. Il suo è un cinema fastidioso, poco soddisfacente, perché non dà allo spettatore ciò che vorrebbe. Gli dà qualcosa di diverso, di duro, di sgradevole, di inaspettato. Ed è poi la cosa da apprezzare di più.

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Ari Aster ha dichiarato che dai film precedenti vuole imparare a non sbagliare, ma di Beau ha paura corregge solo gli estremismi che risultavano incompatibili con un pubblico più ampio. Eddington è un esperimento altrettanto rischioso, ugualmente libero. Prende strade impervie, si sgretola, divide. Un cinema che non vuole piacere è un cinema che palpita scegliendo di non sopravvivere, che supera il proprio tempo e sospende il giudizio mentre lo subisce, che mostra più di quanto voglia mostrare. Chissà se Aster è consapevole del fatto che questo film non parli solo dell’America trumpiana – i critici italiani sicuramente no.
Nell’universo di Eddington tutto è sfumato, specialmente le questioni più delicate: c’è la psicosi di chi indossa la mascherina da solo in macchina o in videochiamata e di chi utilizza la tecnologia come protesi, l’ignoranza di chi invoca la tradizione ma è disposto a credere a qualsiasi teoria che passi in rassegna sullo schermo del cellulare; e poi c’è l’incoerenza di chi protesta armato di hashtag e spogliato del linguaggio – gli antifa diventano terroristi, come in Lanthimos, le vittime sono anche carnefici e viceversa. Come nella sequenza già di culto in cui Phoenix spara all’impazzata mentre gli manca il respiro. Ma in questo caso e in questo Cannes, il cinema respira. E spara fortissimo.

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Il problema di Eddington è dunque quello di rimanere in superficie e banalizzare le questioni raccontate tramite una narrazione in cui il disordine regna sovrano. Si può giustificare tutto questo con la difficoltà di trovare risposte soddisfacenti a questioni sociali di complessa risoluzione? Oppure con l’obiettivo di voler rappresentare una situazione caotica che rispecchia una società in cui diventa molto difficile distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è? In realtà viene più il dubbio, a conti fatti, di trovarsi di fronte più che altro ad un tradimento delle coraggiose ambizioni di partenza, a vantaggio di una sterile osservazione degli eventi narrati resa in maniera più o meno spettacolare ed eccessiva anche nella sua lunghezza (due ore e mezza di film che potevano essere tranquillamente accorciate). E questo, in un momento in cui c’è forse bisogno più che mai se non di risposte, di spunti e di coraggio, è imperdonabile.

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Eddington non è una grande riflessione sul nostro tempo. Non è nemmeno un film pienamente riuscito. È piuttosto una constatazione impotente, quasi disperata, del fatto che la frattura è ormai insanabile. Come dice una battuta di Sirat, notevole titolo del concorso di questa Cannes: «È la fine del mondo già da tanto tempo». Oliver Laxe, tuttavia, sa incorniciare quella fine con poesia e chiarezza. Ari Aster, invece, finisce per confonderla ancora di più.

Ma forse anche questo ha un senso. Forse Eddington va accettato per quello che è: un film spartiacque, uno dei primi a cercare di raccontare l’America post-COVID per ciò che è, senza finzioni, senza nostalgia, e senza alcuna illusione di salvezza. Solo caos, paura e un lungo, inevitabile silenzio.

hda qui

 

…El cineasta norteamericano no propone soluciones, evita posicionarse en un cien por ciento a favor o en contra de alguna ideología, detalle que enmascara cierto cinismo facilista, y opta en cambio por señalar los absurdos detrás de cada bando porque el atolladero de la actualidad es producto de la acción, inoperancia y/ o apatía de todos, desde el ecosistema político y la lacra chupasangre capitalista hasta los medios de comunicación y esos tibios del montón de las patrias abúlicas de hoy en día, en este sentido la polarización en pantalla se nos aparece como irreversible o caricaturesca o pesadillesca o tal vez tan surrealista y confusa como la “guerra civil” del último acto entre Joe y los francotiradores de izquierda en las sombras. El film trabaja bien el contraste entre la vulnerabilidad del protagonista (la esposa loquita, el asma, sus muchas inseguridades y un posible contagio de coronavirus, precisamente por necio y no usar barbijo) y esa enorme ambición política que le despierta de repente aunque no por vocación verdadera o doctrina concreta a defender sino por desprecio, justo como suele ocurrir entre la fauna de derecha del nuevo milenio (a la candidatura en sí se suma el triple asesinato, dos por venganza y el primero para sacarse de encima el vagabundo, un pobre odioso en la tradición de Luis Buñuel). El miedo y la verdad fragmentada se mezclan con una angustia de larga data y una tecnofilia de celulares consagrados al narcisismo, el morbo o una denuncia crónica banal que deriva en sadismo…

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martedì 21 ottobre 2025

Tre ciotole – Isabel Coixet

incursione in Italia di Isabel Coixet, portandosi dietro Francesco Carril (protagonista, con Iria del Río, di Dieci Capodanni, di Rodrigo Sorogoyen) dalla Spagna.

ispirato a un libro di Michela Murgia, Tre ciotole racconta la storia di Marta, una professoressa di educazione fisica e Antonio, cuoco e ristoratore.

noi li conosciamo quando già si stanno lasciando, Antonio lascia Marta, che non riesce a fare quello che non vuole, non sa fingere mai, un po' inadatta nel mondo, la sincerità è un difetto.

entrambi soffrono di non essere più insieme, ma non sanno come fare per ritrovarsi.

entrambi si dedicano molto al lavoro, e non riescono a parlarsi e a capirsi davvero.

le loro strade sono ormai divergenti, Marta intanto scopre di essersi ammalata seriamente... e il resto del film guardatevelo da soli.

i due protagonisti sono bravi, come pure tutti gli altri interpreti.

c'è tanta tristezza, nel film, ma anche sorrisi che illuminano la storia.

certo non è un capolavoro, ma si vede bene.

buona (sconsolata) visione - Ismaele 

 


 

Tre ciotole suona, scena dopo scena, di un grave e insostenibile «non sappiamo cosa scrivere…», supplendo ad esso ora con la tecnica, ora con ardimenti gestuali e vocali, ora con luoghi comuni e più o meno centrate riflessioni poetiche sullo sfondo di una Roma come raccontata da un turista dopo averla visitata appena qualche giorno. Dalla Murgia Coixet trae un sogno più o meno lucido, come la fantasia speranzosa e arrabbiata di chi, lasciato, si sente vittima di ogni ingiustizia e si augura quella finale, per godere della pena e del senso di colpa negli occhi di colui che ha lasciato. Per fortuna però Marta non cerca la pena di nessuno, in compenso i sogni sono sogni e, quando poi ci svegliamo, non siamo mai arrivati al punto. Ugualmente va la storia di Marta, e identico è l’esito di Tre ciotole.

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Dal punto di vista drammaturgico “tradisce” Murgia, prende questo rischio calcolato consapevole che è l’unico modo per restarle fedele lì dove conta: dal punto di vista etico e sentimentale. Nel suo terzo atto, Tre ciotole (il film) è il compimento del messaggio che Murgia ha voluto lanciare non solo con Tre ciotole (il libro) ma anche con la sua malattia. Nel modo in cui Marta “accoglie” il tumore risuonano le parole che Murgia pronunciò in quella intervista che colpì tanti così tanto«Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere». E ancora: «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono». Se si volesse ridurre questo film a un merito soltanto, sarebbe dunque quello di chiarire definitivamente un equivoco che va avanti da quanto il libro Tre ciotole è uscito e da quando Murgia rivelò la sua diagnosi: sì, in questa storia, in queste storie, si parla di malattia ma no, non di morte. Quasi per niente di morte. Semmai il contrario.

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È, probabilmente, una mera coincidenza, eppure sembra fatta apposta la scelta di Francesco Carril come interprete del professore di filosofia con cui Marta scambia, forse, il suo ultimo bacio – "mi puoi baciare" gli chiede Marta a là Otello. L'attore spagnolo porta alla mente l'apprezzatissima serie tv diretta da Rodrigo Sorogoyen "Dieci Capodanni" di cui è protagonista, a cui, forse, "Tre ciotole" farebbe pensare ugualmente. Sì, perché anche i dieci episodi di "Los años nuevos" (il titolo originale spagnolo) mostrano inequivocabilmente quanto inizio e fine si assomigliano (anche se ripetuti per dieci volte consecutive per dieci anni diversi). In "Tre ciotole" questo duetto, che è quello classicissimo tra eros e thanatos, porta con sé anche l'altra grande meta di Sorogoyen, ovvero il suggerimento proustiano (soprattutto nel primo libro della "Recherche", "Dalla parte di Swan") secondo cui l'amore muore quando perde la sua componente adolescenziale…

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Tre ciotole è un film che, seppur profondamente distante dallo stile scabro e diretto di Michela Murgia, gli è affine per approccio e capacità empatica. La scelta di accantonare la coralità del breve romanzo originale - dodici piccoli racconti su diversi personaggi - per concentrarsi esclusivamente sui due protagonisti permette alla regista spagnola e al co-sceneggiatore Enrico Audenino di imbastire un racconto che tratta una doppia perdita: quella del sentimento d'amore e quella della salute. Come se la sofferenza emotiva fosse anticamera di quella ben più esiziale del corpo, Sonia sperimenta in breve due sconfitte da cui una donna leggermente anaffettiva come lei difficilmente sarebbe potuta uscire fuori. E invece la riscoperta della perduta umanità, purtroppo esemplificata dalla scelta registica di far riapparire come lampi i ricordi felici in grana simil 8mm, la porta fuori dalla “comfort zone” di cui l’aveva accusata il compagno in quel diverbio domestico prima della rottura permettendole di accorgersi, tra l’altro, degli atti autolesionistici delle due allieve Giulia e Flaminia. Coixet è bravissima quando si prende il tempo di personalizzare la poesia capitolina di una città che sembra rispondere alle sollecitazioni di una delle sue cittadine più sfortunate attraverso sprazzi visivi inusitati e delicati (le inflazionate Trastevere e Pigneto sono connotate con lo stupore di chi non ci vive); è meno originale, invece, quando deve portare in scena il dramma della sua protagonista, irrelata in un immobilismo supponente e rigidamente borghese (l’antipatia verso la sorella più borderline, i mancati rapporti umani dettati da un’indisponente mancanza di curiosità). Così Tre ciotole finisce per dare eccessivo spazio alla separazione affettiva della poco simpatica Sonia piuttosto che alla sua malattia, perdendo il cuore di una storia che annoierebbe anche al vernissage cui partecipa chissà per quale motivo o alla cena post-mortem in cui si riunisce il clan familiare e amicale della protagonista, in un evidente tributo – ma poco riuscito - alla vera vicenda occorsa a Michela Murgia.

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Isabel Coixet rispetta il mondo che ha circondato, protetto e amato Michela Murgia. Roma diventa la vera coprotagonista di questa complessa storia d’amore e la racconta trasformando le pagine di Tre Ciotole in un film che ha tantissimi echi morettiani.

Il giro in scooter per conoscere i quartieri della Capitale locali per locali che ricordano molto Caro Diario, una citazione esplicita con il primo piano del Nuovo Sacher e anche la stessa struttura narrativa del film ricorda molto il tanto criticato Tre Piani.

Da un certo punto di vista il punto di forza del film, ossia l’interpretazione di Alba Rohrwacher con Elio Germano a supporto, rischia di diventare anche il punto di debolezza. La grandezza dei loro personaggi rischia di oscurare l’interpretazione e il ruolo dei ruoli secondari che rischiano di rimanere ai margini come il collega sottone innamorato che già al terzo Miss Marta si meriterebbe la “FriendZone” o Elisa la sorella di Marta che meriterebbe un focus tutto suo vista la bravura di Silvia D’Amico.

Peccati veniali che comunque non inficiano più di tanto il valore finale dell’opera che rimane per me una piacevole sorpresa.

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lunedì 20 ottobre 2025

L’immagine mancante - Giampiero Frasca


Sono stato un po’ in giro nel Sud Italia. Piacevolissima esperienza. Se me la tirassi lo chiamerei tour promozionale. In realtà, ho incontrato un sacco di studenti, ma proprio un sacco, tra Campania e Molise (di cui, a questo punto, posso testimoniare la reale esistenza), obbligati dai loro insegnanti a sentir parlare di Storia e cinema. C’è da dire che sono stati al gioco e hanno abbozzato benissimo, talmente bene che al termine di uno di questi incontri, in cui per tutto il tempo avevo insistito sulla necessità di “dimostrare” ciò che accade, altrimenti, vivendo in questa cultura della mostrazione, nessuno sarebbe disposto a credere a nulla, si sono timidamente avvicinati due studenti e mi hanno lasciato un foglio con alcune loro riflessioni da sottopormi. Stupendo. Ma fantastico davvero il fatto che qualcuno pensi di riflettere sulle tue parole. Lasciate perdere la questione che se qualcuno si avvicina timidamente e addirittura ragiona su ciò che hai detto ha una considerazione totalmente alterata di te che corrisponde poco alla paraculica realtà, ma è stato bello lo stesso illudersi, in quel momento.

La riflessione partiva dal film di Rithy Panh L’immagine mancante, ovvero dalla strenua e ossessiva ricerca di documenti filmati o perlomeno fotografati che potessero in qualche modo sostanziare il dramma del popolo cambogiano oppresso dal regime dei Khmer rossi di Pol Pot (dei quali, devo ammetterlo, ho sempre trovato irresistibile la sciarpetta, la krama). E in effetti, quella dei due studenti, un ragazzo e una ragazza, era una riflessione molto matura, che forse avrete capito se avete visto il film: la tragedia della Cambogia possiede infatti questo buco paradossale, a causa del quale, senza le immagini che si sedimentano in memoria (di un intero popolo) quella stessa memoria diventa lacunosa, perfino discutibile, quando non addirittura, nei casi più estremi, negabile. Pensate se non ci fossero state le immagini dai campi di sterminio, una volta aperti e liberati. Pensate se qualcuno non riuscisse a documentare Gaza, malgrado gli sforzi grotteschi, se il risvolto non fosse assolutamente tragico, da parte di influencer prezzolati dagli israeliani per dimostrare quanto si stessero ingozzando i palestinesi, altro che ridotti alla fame. Quasi un video promozionale dell’ente del turismo.

L’immagine mancante (il singolo film, ma anche il principio più ampio) è il lavoro sullo spazio negativo, su un fuoricampo totale che dev’essere recuperato per potersi ancorare a una liturgia del ricordo che eviti pericolose rimozioni. È il succo della Storia del Novecento. È quello che fa in pratica il cinema dalla fine dell’Ottocento (nel catalogo Lumiére, quando smettevano di riprendere treni e annaffiatori annaffiati, c’erano un sacco di film su visite di regnanti ed eventi storici, magari ricreati appositamente). È l’idea all’origine del testo presentato nel corso degli incontri di cui sopra. È quello che ho ripetuto come un disco rotto in questi giorni agli studenti così cortesi da ascoltarmi (ringrazio pubblicamente).

D’altronde, se un albero cade nel fitto di un bosco senza che nessuno lo veda, è caduto veramente?, si chiedeva George Berkeley fin dal ‘700, anche se io l’ho letto la prima volta in un libro di Joyce Maynard.

C’è una data precisa in cui ogni accadimento è diventato quasi esclusivamente un problema di percezione: 16 gennaio 1991. Inizio ufficiale della Guerra del Golfo. È stato il primo evento globale a entrare nelle case di ogni famiglia, consentendo di vivere in tempo pressoché reale le operazioni belliche. Chiedo ai più attempati: ve le ricordate le immagini delle esplosioni e dei raggi verdognoli che solcavano i cieli scuri proposti dagli schermi televisivi mentre Emilio Fede orgasmava? Quelle, esatto.

Quello è stato il momento in cui la Storia ha avuto un suo sviluppo totalmente complementare fatto di immagini in diretta e da lì in avanti non è stato più possibile pensare agli eventi, di qualsiasi natura, senza che ci fosse un’immagine a dimostrarne la veridicità. Poi ci siamo deformati completamente. Come umanità, intendo. Perché sono arrivati gli smartphone e tutti si sono sentiti Kubrick. Ma con un’etica differente, soprattutto quando si riprendono, immobili, un incidente stradale o una rissa come se si fosse un corpo estraneo e non si sentisse affatto l’esigenza di dover intervenire per tentare di salvare il salvabile (è la natura umana, bellezza. Ce lo aveva detto già 74 anni fa Billy Wilder in quel capolavoro che è L’asso nella manica).

Ma indignarsi sgrava solo le coscienze e invece lo smartphone ha anche dei risvolti positivi, perché l’altro grande evento, quello che segna il punto di reale non ritorno e dopo il quale nessuno — NESSUNO — è stato più lo stesso di prima è l’11 settembre, ossia, guardandolo in una certa prospettiva, il momento nel quale la Storia è stata catturata in diretta da chiunque avesse uno strumento per la registrazione a portata di mano: ossia tutti (ed è la grande differenza rispetto al video in 8 mm di Abraham Zapruder che nel ’63 a Dallas riprese l’assassinio di Kennedy). Non solo percezione in diretta, come nella Guerra del Golfo, ma partecipazione diretta a un trauma vissuto nell’istante in cui il secondo aereo si è schiantato sulla torre sud ed è stato ripreso da centinaia di telefoni che hanno contribuito a creare un immaginario collettivo del disastro. L’osservare che diventa l’esserci: l’esistenza trasformata in essenza compartecipe dell’evento.

Una proliferazione mai vista di immagini. Da tutte le distanze, da ogni angolazione, con qualunque grana, con le singola urla di raccapriccio a emergere nitide sullo sfondo sonoro (comunque gli «Oh, my God!» si attestarono almeno al 90%). Talmente proliferante che per il cinema americano divenne irrapresentabile: tutt’altro che una rimozione, quanto il riconoscimento che l’eventuale ricostruzione drammatica era già stata superata dalla Storia vissuta in prima persona attraverso le immagini di ognuno. La rappresentazione resa inutile dall’essenza. E il cinema si diede direttamente all’elaborazione del lutto, dando per scontato il trauma per manifesta inflazione oppure cancellandolo come immagine, riconoscendo di aver perso l’impari lotta. Come fecero due grandi nomi, non due sfigati qualunque, come Alejandro González Iñárritu Kathyrin Bigelow, i quali si limitarono a mostrare uno schermo completamente nero animato dai lanci telegiornalistici e da brevissimi flash drammatici sui corpi in caduta dalle torri (Iñárritu, nel suo episodio del film collettivo 11 settembre 2001) oppure dalle voci disperate delle vittime al telefono, con tutta l’angoscia consapevole di un destino segnato (la Bigelow, come preambolo della caccia a Bin Laden raccontata in Zero Dark Thirty, ben 11 anni dopo).

Ma queste sono scelte personali e artistiche meditate. Dovute alla chiara coscienza di un’evoluzione rappresentativa e percettiva. Altre decisioni invece sono imposte e la conseguente mancanza delle immagini mostra l’arroganza e, indirettamente, la stupidità del potere che si premura di censurare ciò che è avvertito come scomodo, imbarazzante. Quindi pericoloso, perché genera dissenso, discussione, messa in dubbio. Si tratta anche, ma fingono di non accorgersene, dell’ammissione involontaria di un’ottusità di fondo, perché nella contemporaneità in cui tutto diventa velocemente noto grazie al tambureggiamento ecoico dei social sortisce l’effetto contrario. Ossia un boomerang. Non sono più i tempi in cui un film (bellissimo) come Il leone del deserto, kolossal realizzato da Moustapha Akkad e prodotto dagli americani anche con i soldi di Gheddafi, con un cast fantastico (Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger nei consueti panni di Mussolini) e l’intento di denunciare la violenta repressione del generale Rodolfo Graziani, plenipotenziario militare del Duce in Libia, veniva vietato da Andreotti per vilipendio delle forze armate (fasciste, occorre ricordarlo). Un film cancellato perché sfatava l’ormai sfiatato mito degli “italiani brava gente”, impossibile da vedere almeno fino al 2009, quando Sky lo trasmise; 29 anni dopo la sua uscita, però. Non sono più i tempi perché, pur essendo ancora indisponibile in Italia in qualunque formato casalingo (DVD o Blu-Ray) e pur avendo ottenuto il visto della censura solo lo scorso anno, 44 anni dopo l’essere stato ultimato, l’invisibilità ormai si può aggirare in molti modi che ben conoscete (non ve li devo certo suggerire io). Con buona pace di una censura démodé.

Eppure il potere non demorde. Qua sopra abbiamo parlato più volte dell’essenzialità di un film come No Other Land, che non dovrebbe essere solo un film di nicchia, tanto più che è riuscito a vincere un Oscar all’interno di un’enclave americana, quella dei produttori di Hollywood, che proprio così distante dalle simpatie israeliane non è (mi sono tenuto larghissimo). Ebbene, No Other Land, inizialmente programmato per il 7 ottobre su Raitre in prima serata, è stato cancellato dal palinsesto da una misteriosa telefonata giunta in viale Mazzini da qualcuno molto vicino al Governo. Il problema è che ora come ora un tentativo di cancellazione rivelato da stampa e social (più social che stampa, a essere onesti) concentra l’attenzione sull’atto in sé, riuscendo nell’intento di attirare anche alcuni di coloro che non erano ancora informati circa la messa in onda. Un’immagine cancellata che lavora con gli stessi meccanismi psicoanalitici del feticcio: attirare l’attenzione sulla mancanza spostandola su qualcos’altro che ne rifletta l’effettiva esistenza. In questo caso, la possibilità di vederlo ugualmente con mezzi più o meno leciti. Perché questa possibilità c’è. Praticamente sempre (era nel palinsesto di Mubi, ma anche lì è durato poco). Consapevoli di questo, dopo un primo, iniziale, momento di smarrimento, il film è stato riprogrammato per la sera del 21 ottobre. Staremo a vedere: è pur sempre un film filopalestinese, d’altronde. E la Palestina sarà riconosciuta quando sarà il caso, dicono ogni paio di giorni dal Governo.

Tutto questo solo per dire che l’immagine non può più risultare mancante e il mondo non può diventare una nuova Cambogia. Perché se lo diventa, pur con tutti i vincoli sociali e politici, a qualunque latitudine, Cina e Iran compresi, la mancanza è solo la nostra e la colpa è quella di non essere stati i soggetti attivi e partecipativi che questo periodo storico permette che ognuno di noi sia.

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