…chi è disposto a stare al gioco
non può non rimanere incantato dall’atmosfera del film. La stangata è un meraviglioso
omaggio ai film di gangster dell’età d’oro di Hollywood, e come tale è puro e
semplice entertainment. Ma
di gran livello. E se parte della critica si rifiutò di accettare il senso del
progetto, il pubblico lo adorò: il film incassò nei soli Stati Uniti più di 68
milioni di dollari e arrivò a vincere 7 Oscar (film, regia, sceneggiatura,
montaggio, scenografia, costumi e musica) su 10 nomination.
In realtà, nelle intenzioni di Ward il film avrebbe dovuto
essere diverso. Avrebbe innanzi tutto dovuto essere il suo esordio registico,
con Redford protagonista assoluto. Ma l’attore aveva dei dubbi a lavorare con
un regista debuttante e la cosa convinse George Roy Hill a prendere in
mano il progetto. A quel punto, Newman si dimostrò interessato a partecipare e
Hill e Ward riscrissero la sceneggiatura addosso a Newman e Redford. Il
risultato di quelle revisioni fu questo magnifico esempio di cinema dotato di
stile, visivamente brillante e raccontato con gran ritmo. Una meraviglia per
gli occhi.
…Al termine dell’operazione Johnny
rinuncia alla sua quota affermando che finirebbe comunque per perderla,
scegliendo invece di lasciare la scena insieme a Gondorff. Il finale sottolinea
come astuzia strategica e spirito collaborativo siano strumenti essenziali per
sovvertire situazioni critiche dove forza fisica o violenza non trovano spazio.
Gli ultimi minuti mettono così in
evidenza:
·L’importanza della fiducia reciproca tra complici;
·L’utilizzo intelligente dell’inganno rispetto alla
brutalità;
·I dilemmi etici legati al confine sottile tra legalità
e opportunismo.
L’eredità lasciata da questa pellicola
resta quella di uno spettacolo elegante ed estremamente intelligente che
continua ad essere considerato modello indiscusso nel panorama dei caper movie
americani.
E' un film ottimamente dosato, in un gioco eccezionale di
intreccio, tempi, azione, caratterizzazione dei personaggi. La tensione e'
continua e il gioco dei colpi di scena nei colpi di scena e' poi perfetto, e
trae in inganno lo spettatore fino alle ultime scene, quando il complicato
gioco d'incastro si risolve ed ogni tassello scivola perfettamente al proprio
posto. Ottimo tutto, regia, fotografia, sceneggiatura, montaggio, recitazione,
musiche. Oggigiorno gli spettatori per lo piu' si aspettano da un film di
azione molti effetti speciali spettacolari, sequenze mozzafiato, emozioni
forti, senza pensare che spesso questi fattori servono a nascondere film di
scarsa qualita', con trame povere e poche idee, trite e ritrite ed, oltre a
tutto, poco e male sviluppate.
Bobby (Jack Nicholson) vive la sua vita libera, lavora quando serve, ha una fidanzata, e altre donne, ama la sua libertà, ma non sa bene cosa fare.
poi gli dicono che il padre sta morendo, e torna a casa, per qualche giorno, poi di più.
e sappiamo tante cose, era un pianista di talento, ma non sopportava l'oppressione della e nella sua benestante famiglia d'origine, ed era fuggito, vivendo una vita completamente diversa rispetto a quella che avrebbe voluto il padre per lui.
e alla fine, quando si sente legato, continua a fuggire.
nessuno è davvero libero, e bisogna ricominciare da capo.
quello che impressiona del film è quanto sia vivo ancora oggi, e sincero, e le interpretazioni sono perfette, quella di Jack Nicholson ancora di più.
la prigione della famiglia, del lavoro, di una relazione duratura costringono all'evasione Bobby, a sua volta inquieto portatore di una solitudine esistenziale senza soluzione.
un piccolo grande film da non perdere, se uno si vuole bene.
Uno splendido inno all'anticonformismo,una luce accecante
sullo spirito contraddittorio sugli anni a cavallo tra i Sixties e i
Seventies,senza la rabbia tipica di quegli anni ma solo descrivendo la
confusione dei sentimenti e la ricerca di qualcosa non semplice da definire(liberta'?).Il
finale di poetica indeterminazione è emblematico in questo senso:non si cerca
un punto di vista ma si constata solo il malessere esistenziale del
protagonista ingabbiato in schemi sociali che sente che non gli appartengono e
da cui vuole fuggire nel modo piu'veloce possibile senza neanche la giacca
addosso....Uno dei film piu'belli di Rafelson
…‘Cinque pezzi
facili’ ha la complessità, le sfumature, la profondità del Cinema migliore.
Coinvolge lo spettatore nella vita dei personaggi e lo fa affezionare a loro
anche se i protagonisti non cercano quell’affetto.
Ricordiamo Bobby e Rayette perché sono completamente se
stessi, così incasinati, così bisognosi eppure così coraggiosi nella loro
solitudine. “Una volta che si sono visti personaggi ‘vivi’ come questi, è più
difficile apprezzare dei pupazzi in uno spettacolo di marionette”.
…In un’atmosfera rarefatta e allusiva che si tramuterà
in tipica cifra stilistica della New Hollywood anni Settanta, Cinque pezzi facili tratteggia dunque il profilo di un giovane americano
che sceglie scientemente una propria inquieta deriva. La sua è una fuga da
qualsiasi forma di tradizionale responsabilità. Pure verso se stesso, verso il
proprio talento dimenticato, verso un probabile futuro di generali
apprezzamenti pubblici. Una lenta e sommessa autodistruzione, che sembra
generarsi da un non meglio definito risentimento verso qualsiasi forma di
consesso sociale, famiglia compresa. Bobby continua forse a credere nell’amore
(l’incontro con Catherine), ma con ogni probabilità si tratta più di coazione a
ripetere che di sincera convinzione. Come il fotografo Thomas di Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), pure Bobby è destinato
a sparire all’orizzonte. La splendida sequenza finale sta lì a dimostrarlo. In
un piano-sequenza pressoché a macchina fissa che si allunga sui cartelli di
coda Bobby decide di optare per l’evanescenza, per l’evasione finale da
qualsiasi possibilità di interpretazione dell’esistenza umana. Nemmeno il
confronto con il padre può essere risolutivo – ed è del resto significativo che
il padre non possa rispondere, riducendo la confessione di Bobby a un monologo
davanti alla propria indecifrabile coscienza. In un certo senso il personaggio
di Bobby Dupea anticipa le radicali ribellioni del Randle McMurphy di Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975). Ne è la premessa, in qualche modo.
Bobby non è ancora sospettato di essere pazzo né viene rinchiuso in un istituto
psichiatrico, ma la ribellione che agita entrambi i personaggi ha radici molto
simili. Randle avrà una maggiore consapevolezza del Potere e, pur in un
territorio ancora allusivo e allegorico, un più diretto coinvolgimento con
istanze contingenti. Bobby si ferma un attimo prima della coscienza.
Percepisce, avverte, vive di intuizioni, mai di vere elaborazioni. Cinque pezzi facili può condividere l’animo contestatario dei suoi tempi,
ma tenendosi lontano dalle sue più dirette implicazioni…
una banda di professionisti viene ingaggiata da un riccone per riportare la moglie (Claudia Cardinale) a casa, dice lui che era stata rapita da un bandito messicano.
i professionisti fanno il loro lavoro al meglio e riportano la donna a casa, ma non tutto è come sembra.
ottimi attori, buon ritmo, un film che merita.
buona (rivoluzionaria) visione - Ismaele
"La rivoluzione è sempre uguale. Si tratta di buoni contro
cattivi. Bisogna vedere chi sono i buoni..."
I Professionisti (The Professionals, 1966) è a mio
avviso uno dei migliori western di sempre. Lo vidi per la prima volta da
ragazzino e me ne innamorai subito, per via della storia avvincente e delle
belle scene d'azione, oltre che per via di una bellissima ed indomita Claudia
Cardinale. Ma soltanto dopo varie visioni ti accorgi di quanto sia un film
politico, nel vero senso del termine. I due personaggi interpretati
magnificamente da Burt Lancaster e Lee Marvin sono due sconfitti. Hanno
partecipato alla rivoluzione messicana ed hanno perso. Essi "incarnano le
delusioni e le miserie di tutta una generazione", sono i figli di
un'America liberale che di lì a poco scoprirà davvero quanto sia difficile
poter portare avanti le proprie idee. Così, si fanno assoldare da un ricco
americano per ritrovare la propria moglie, rapita (apparentemente) da un loro
vecchio compagno di lotta. L'apparenza è un altro tema importante: niente è
come sembra. I due se ne renderanno conto ancora una volta, ma questa volta
sapranno fare la scelta giusta. Ed è proprio il finale a ribaltare tutto e a
non cambiare niente, perchè i due possiedono ancora intatta la loro coerenza.
Richard Brooks è stato un regista straordinario, molto sottovalutato. Ma penso
che questo sia davvero il suo capolavoro, poichè lo ha diretto e
scritto in maniera straordinaria, con dialoghi magnifici, malinconici
("La rivoluzione è come una grande avventura d'amore: al principio sembra
una dea, una causa santa. Ma, come tutti gli amori, ha un nemico implacabile:
il tempo. E allora uno la vede com'è realmente. La rivoluzione non è una dea,
ma una baldracca: non è mai stata pura, mai santa, mai perfetta") ed un
reparto attoriale da far venire la pelle d'oca. Cosa si può chiedere di più ad
un western?
"Tu sei un bastardo!", dice nel finale Ralph Bellamy a Lee
Marvin, mentre i quattro mercenari liberano finalmente la moglie. E Marvin
replica: "E' vero, ma io ci sono nato, mentre lei... lei si è fatto da
solo!" Applausi.
Un western senza tempo con uno stile anomalo e un messaggio
rivoluzionario ancora piu'anomalo.Il quartetto di mercenari è semplicemente
magnifico:Lancaster,Ryan,Marvin,Strode creano dei personaggi che rimangono bene
impressi nella memoria come dall'altra parte è memorabile l'indomita Cardinale
e il rivoluzionario innamorato Palance.I personaggi sono complessi,con una
forte connotazione d'ambiguita e forse è proprio questa la carta vincente del
film.Il finale,poi,una vera chicca con un messaggio politico letteralmente
inequivocabile
…Con “I professionisti” Richard Brooks torna al western dopo dieci
anni (nel 1956 aveva diretto “L’ultima caccia”) e gira quello che probabilmente sarà il suo
capolavoro. Partendo dal romanzo “A Mule for the Marquesa” di Frank O’Rourke, Brooks trasforma un’idea
di base molto sfruttata al cinema (un gruppo di “mercenari” che si avventurano
in territorio ostile per salvare una donna prigioniera di un crudele rapitore)
in un film maturo e complesso, ricco di notazioni morali e politiche, che offre
una disincantata riflessione sul fallimento degli ideali di un’intera
generazione, sulle logiche distorte del potere rivoluzionario, qualsiasi esso
sia (“La rivoluzione è sempre uguale. Si tratta dei buoni contro i cattivi. C’è
solo un dubbio: quali sono i buoni.”) e sull’impossibilità “di rifugiarsi dietro l’asetticità
professionale di chi si preoccupa solo di eseguire il proprio lavoro” [Paolo Mereghetti]. In questo senso “I professionisti”
è un film che rifiuta categoricamente qualsiasi facile manicheismo o soluzione
a buon mercato…
un film di paura come si deve, senza chissà quali effetti speciali.
tratto da un gran bel libro di Shirley Jackson (qui), il film ci porta in una casa dove avverrebbero fatti molto strani.
uno studioso del soprannaturale scova due ragazze con sensibilità speciali ed è obbligato a "prendere" il nipote dei padroni della casa.
i quattro vivono insieme per pochissimo tempo (poche decine di ore, in realtà) scoprendo che davvero succedono alcuni fatti che hanno del soprannaturale.
gli attori sono perfetti per la parte, sopratutto il professore (Richard Johnson) ed Eleanor (Julie Harris), che sente di essere parte della casa, e non vuole andare via.
un piccolo grande film, che non si dimentica.
dallo stesso libro è stato tratto almeno un altro film e anche una serie, ma il film di Wise è perfetto, perchè insistere con altro?
nessuno si pentirà di aver visto il film, promesso.
Lungaggini? Psicologismi? Questo è un film perfetto. Una
regia sublime al servizio di una storia e un'atmosfera terrificanti. La
sceneggiatura gioca magistralmente sul non-mostrato, la minaccia è sempre
oscura, i personaggi sono ricchi di sfumature, la suspence non cala mai. Ancora
oggi uno dei film di paura più...paurosi. La casa in cui si svolge la vicenda è
indimenticabile, con i suoi corridoi labirintici. Insieme all'Overlook Hotel
del capolavoro "Shining" di Stanley Kubrick, è l'edificio più
terrificante della storia del cinema.
E' un capolavoro di tensione che inchioda alla sedia sin
dall'inizio. Il regista è stato veramente grande nel far riuscire così bene un
film ambientato quasi tutto in una vecchia e tetra casa di campagna, servendosi
solo di una manciata di attori. La suspense è costruita abilmente con l'uso di
luci e ombre, rumori inquietanti (oggi col digitale non riescono a farli così
sinistri), movimenti di macchia, inquadrature particolari. Gli attori lo
coadiuvano al meglio, ciascuno incarnando un tipo umano diverso: lo scienziato
razionalista, la donna complessata e oppressa dalla famiglia d'origine, lo
sbruffone scettico, e la moretta molto, molto ambigua…
…Wise mette in serie le varie sequenze de “Gli invasati”
utilizzando un montaggio connotativo, in cui i primi piani di Eleanor (e degli
altri personaggi) si alternano con dettagli dell’arredo e dell’architettura di
Hill House per rafforzare il conflitto interiore della protagonista, dando un
senso specifico al travaglio interiore del personaggio. Le dissolvenze
incrociate hanno poi una doppia funzione: se nell’incipit mostrano il fluire
del tempo, nella parte centrale del film esse sono passaggi onirici, mentali,
dove Eleanor è sempre il soggetto dell’operazione.
Regista poliedrico e capace utilizzatore delle possibilità del mezzo
cinematografico, Robert Wise dirige un film in cui il dettagliato e ricco
profilmico, la messa in quadro estrema, il montaggio che fonde l’immagine e il
suono creano un’opera di grande fascinazione tout court. La
profondità scopica va di pari passo con quella psicologica e “Gli invasati”
risulta un esempio di horror di “atmosfera” tra i meglio riusciti della storia
del cinema.
In una villa in campagna sono avvenute strane morti nell'
800. A distanza di diverse dcine di anni uno studioso del paranormale, il
dottor Markway, decide di verificare se veramente questa villa sia maledetta.
Perciò, chiede ad altre tre persone di aiutarlo nei suoi studi, invitandole a
passare qualche giorno all'interno di questo luogo sinistro. Oltre all'erede e
ad una lesbica dalle apparenti dure maniere, vi è anche la fragile e strana
Eleanor. La casa la sta chiamando a sé o è frutto della sua mente fiaccata da
anni di insicurezze e repressioni? Wise gioca con l'ambiguità dall'inizio alla fine
e questo è uno dei punti di forza di The Haunting.
Un'ambuiguità insita tanto negli oggetti quanto nei soggetti. Un'ambiguità che
va di pari passo con la suspense creata ad hoc dal taglio espressionista delle
luci; dalle opprimenti scenografie barocche; dalle profonde e buie inquadrature
"wellesiane" spesso dal basso verso l'alto; dal gioco dei rumori; dai
normali particolari che si trasformano in angosciose presenze (la maniglie, le
porte che sbattono). Qui non ci sono spargimenti di sangue. La morte
rimane fuori campo. Qui tutto è giocato sul tempo dell'attesa, sul buio,
sull'intravisto, sul percepito. Un grande impianto stilistico, unito ad una
sceneggiatura impeccabile e ad interpreti (e personaggi) convincenti, fanno
di The Haunting un "piccolo" manuale del
terrore e per questo la sua potenza dirompente non viene scalfita dal passare
degli anni.
…Sofisticato e opprimente nell’impianto visivo e
scenografico gotico, fra corridoi, porte nell’incubo e scale terrorizzanti, il
film ottiene i suoi migliori effetti inquietanti, però, nel sonoro, con un
magistrale congegno di sottrazione e immissione, dove rumori, voci, effetti
sonori elettronici, sguardi di terrore, squarci in soggettiva, angoli bui,
rivelazioni e occultamenti non lasciano mai la certezza su cosa si sia visto,
udito, percepito. Infine, la sensazione, non razionale, di una casa maledetta
che s’impossessa dei suoi occupanti, è reale.
…Robert Wise ha
la capacità di sfruttare le nostre paure più semplici: il buio, un rumore nella
notte, la notte stessa con i suoi misteri, una porta socchiusa. Onirico e reale
si mescolano senza farci capire il confine tra di loro e questo ci disorienta e
ci disturba, più volte ci troviamo a riflettere se quello che vediamo accada
veramente o sia frutto della suggestione dei personaggi.
Non esistono effetti speciali
ma l’ansia e la tensione sono alimentate da
movimenti veloci della camera da presa, giochi di luce ed ombra resi ancor più
violenti dalla pellicola monocromatica, grandangoli fortemente distorcenti,
giochi di specchi, musica dissonante.
Il montaggio unisce sapientemente
momenti di dinamismo e riprese ossessive con sequenze molto più classiche. Che
dire un piccolo gioiello di cinema perfetto e curato in ogni dettaglio. Un film
di cui si parla poco ma che andrebbe riscoperto e rivalutato (non solo da chi
lo sfrutta per farne delle rivisitazioni) soprattutto oggi, dove con gli
effetti speciali si nascondono notevoli carenze, in primis di idee.
Piccole curiosità. Il regista è
stato molto abile nel trattare l’attrazione saffica tra le due protagoniste.
Nel ‘63 eravamo ancora in pieno Codice Hays e la
censura era molto severa e poco permissiva.
L’unico effetto speciale di
tutta la pellicola è, nel finale, la distorsione della porta creata
con un operatore dall’altra parte che la spingeva con quanta forza aveva.
…La
grandezza del film non risiede tanto negli effetti visivi – volutamente
limitati – quanto nell’uso del sonoro e del non detto. Rumori inspiegabili,
voci, colpi improvvisi e silenzi angoscianti sono i veri protagonisti. Wise
costruisce la tensione giocando sull’ambiguità: ciò che accade è frutto di
fenomeni paranormali o delle allucinazioni di Eleanor?
La
fotografia di David Boulton, con ombre e prospettive inquietanti, e le musiche
sperimentali di Humphrey Searle, realizzate anche con incisioni a rovescio,
rafforzano l’atmosfera perturbante. L’accenno al rapporto ambiguo tra Eleanor e
Theo aggiunge inoltre una dimensione trasgressiva e psicologica, rara per
l’epoca…
The Haunting(che brutto il titolo italiano-Gli invasati-anche
perche'di invasati non se ne vedono in questa pellicola)è il classico horror
psicologico vecchio stampo 100%fosforo e 0% effetti speciali,al contrario
dell'omonimo remake di DeBont in cui tutto era fin troppo esibito fin dalla
prima inquadratura(la casa era fantastica pero').Qui i due uomini protagonisti
fanno la parte degli scettici,le donne quella delle sensitive e Wise usa tutto l'armamentario
a sua disposizione per spaventare non mostrando assolutamente nulla e se per
due ore tiene desta l'attenzione e la suspense con solo rumori e voci fuori
campo vuol dire che è un grande regista....
nella Londra dei gangsters, non quella dei Beatles e della swinging London, due fratelli diventano i leader del crimine.
sono i due fratelli Legend, Reginald e Ronald (entrambi interpretati mirabilmente da Tom Hardy), uno innamorato, l'altro pazzo, eppure non ce n'è per nessuno, tutti capitolano.
niente di straordinario, a parte Tom Hardy, ma è un film che non annoia.
…Si parla molto in compenso in Legend, in articolati dialoghi che sfiorano il
vaniloquio, dove ogni tanto si cita la Grecia, per ragioni
enogastronomiche (si ordina del retsina al ristorante), etimologiche (ci viene
spiegato il significato del termine “utopia”) e narrative (si allude al ritorno
di Odisseo ad Itaca, anche se lo si confonde con Agamennone), ma dell’unità di
luogo tempo e azione della tragedia non vi è traccia. Né si respira il dramma
di questi personaggi, che vengono dal nulla e vanno verso un epilogo narrato in
didascalia (d’altronde, bisogna ricordarcelo, questa è una storia vera), non
hanno traumi né obiettivi (l’utopia della Nigeria non riesce a mascherare questa
assenza), non sono mai realmente in pericolo. Bisogna accontentarsi di una
rissa al pub, di un cattivo che viene ucciso con un colpo sparato in fronte, e
poi c’è anche un corpo a corpo tra gemelli che naturalmente, data la doppia
interpretazione di Hardy, è tutto in montaggio proibito…
…La vera particolarità di Legend sta
nell’avere il protagonista Tom Hardy impegnato
in entrambi i ruoli dei gemelli Kray. Negli anni, Hardy si è confermato come
uno degli attori più esplosivi e carismatici della sua generazione, e in
possesso di una carica espressiva e fisica non comune, ma, anzi, assai rara.
Basti pensare ai suoi recenti impegni in Mad Max: Fury Roade Revenant – Redivivo, per averne un esempio.
In Legend, l’attore britannico si “sdoppia” interpretando
contemporaneamente (nella pellicola) due ruoli così simili
quanto diametralmente opposti, praticamente dicotomici. Con grande impegno
e intelligenza, Hardy “entra” alla perfezione sia in Reginald che in Ronald, e
il risultato è spettacolare. E anche la sola e unica nota positiva di questo
film…
…Un mix di violenza e spettacolarità che,
dal punto di vista drammaturgico, fa sì che "Legend" possa contare da
una parte sul contrasto caratteriale dei protagonisti, uniti da un legame
indissolubile ma distanti sia sul piano della personalità (omosessuale
dichiarato, Ron era affetto da disturbi mentali) che su quello della
predisposizione mentale, con Reggie differente dal gemello per la visione
pragmatica e imprenditoriale della sue "attività"; dall'altra sul
pathos prodotto dal tormentato e romantico legame che contraddistinse l'unione
tra Reggie e la bella e fragile Frances, la donna che sarebbe diventata sua
moglie e che nel corso della loro relazione avrebbe cercato - senza successo -
di convincere il marito a non lasciarsi coinvolgere dalle tendenze
autodistruttive dell'imprevedibile fratello…
...Se il titolo suggerisce l’ambizione a un
respiro epico per la vicenda dei fratelli Kray, l’obiettivo è ben lungi
dall’essere stato raggiunto: Legend incespica al
contrario in una narrazione che, indecisa se dare risalto alla dimensione
pubblica (e mediatica) della vita dei due fratelli, o alle sue implicazioni più
intime, resta sospesa in una sorta di terra di mezzo. Problematica, seppur non
priva di motivi di interesse, è infine la doppia interpretazione di Hardy: la
sua prova nei panni dello psicopatico Ronnie, infatti, appare tanto marcata
nella resa delle idiosincrasie del personaggio, talmente smaccatamente sopra le
righe, da perdere presto in misura e credibilità. Un limite che, più che
all’ottimo interprete britannico, va imputato a una sceneggiatura che sembra
affidarsi in misura eccessiva alle sue doti attoriali.
la prima parte il film scorre tranquilla, niente di imperdibile, ma è solo la preparazione di quello che succede poi, nella seconda parte del film inizia la resa dei conti, come fosse un western impazzito, dove tutti sono contro tutti, agiscono come se non ci fosse un domani.
in una minuscola cittadina del New Mexico si svolge una contesa elettorale senza esclusione di colpi, ai tempi del covid, degli smartphone(s) e del complottismo (o dei complotti veri).
alla fine appaiono degli incappucciati, che non sono il Ku Klux Klan, e ammazzano delle vittime designate, una vera macelleria messicana.
diversi impazziscono, molti la pagano, pochi, come sempre, ne traggono profitto, altri (che appaiono in parte) se ne avvantaggiano, e tutti (o quasi) sono pedine di un gioco al massacro che non capiscono fino in fondo.
Joaquin Phoenix aggiunge al suo curriculum una prestazione straordinaria, ma tutti sono bravi, sotto l'ottima direzione di Ari Aster.
a me è piaciuto molto, i film perfetti sono pochi, ma Eddington è una grande ed inquietante opera (quarta) di Ari Aster.
fra i finanziatori manca il ministero del turismo degli Usa.
un film da non perdere, per i miei gusti.
buona (pessimistica) visione - Ismaele
ps: per concidenza pochi giorni fa ho letto un libro di Leslie Marmon Silko(qui), ambientato in New Mexico, nel film vengono citate, come nel libro, le terre rubate (agli indiani)
…Qualcuno mica a torto lo troverà pasticciato e confuso,
visto che inserisce al suo interno persino troppi spunti e tematiche non tutti
sviluppati al meglio. Però questo è anche il suo bello, e il bello del cinema
di Ari Aster in generale. Un suo film parte in un modo e poi può prendere
qualsiasi direzione, anche e soprattutto quelle più pazzesche. Il suo è un
cinema fastidioso, poco soddisfacente, perché non dà allo spettatore ciò che
vorrebbe. Gli dà qualcosa di diverso, di duro, di sgradevole, di inaspettato.
Ed è poi la cosa da apprezzare di più.
…Ari Aster ha dichiarato che dai film
precedenti vuole imparare a non sbagliare, ma di Beau ha paura corregge
solo gli estremismi che risultavano incompatibili con un pubblico più
ampio. Eddington è un esperimento altrettanto rischioso,
ugualmente libero. Prende strade impervie, si sgretola, divide. Un cinema che
non vuole piacere è un cinema che palpita scegliendo di non sopravvivere, che
supera il proprio tempo e sospende il giudizio mentre lo subisce, che mostra
più di quanto voglia mostrare. Chissà se Aster è consapevole del fatto che
questo film non parli solo dell’America trumpiana – i critici italiani
sicuramente no. Nell’universo di Eddington tutto è sfumato, specialmente le questioni più delicate: c’è la
psicosi di chi indossa la mascherina da solo in macchina o in videochiamata e
di chi utilizza la tecnologia come protesi, l’ignoranza di chi invoca la
tradizione ma è disposto a credere a qualsiasi teoria che passi in rassegna
sullo schermo del cellulare; e poi c’è l’incoerenza di chi protesta armato di
hashtag e spogliato del linguaggio – gli antifa diventano terroristi, come in
Lanthimos, le vittime sono anche carnefici e viceversa. Come nella sequenza già
di culto in cui Phoenix spara all’impazzata mentre gli manca il respiro. Ma in
questo caso e in questo Cannes, il cinema respira. E spara fortissimo.
…Il problema di Eddington è
dunque quello di rimanere in superficie e banalizzare le questioni raccontate
tramite una narrazione in cui il disordine regna sovrano. Si può giustificare
tutto questo con la difficoltà di trovare risposte soddisfacenti a questioni
sociali di complessa risoluzione? Oppure con l’obiettivo di voler rappresentare
una situazione caotica che rispecchia una società in cui diventa molto
difficile distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è? In realtà viene più
il dubbio, a conti fatti, di trovarsi di fronte più che altro ad un tradimento
delle coraggiose ambizioni di partenza, a vantaggio di una sterile osservazione
degli eventi narrati resa in maniera più o meno spettacolare ed eccessiva anche
nella sua lunghezza (due ore e mezza di film che potevano essere
tranquillamente accorciate). E questo, in un momento in cui c’è forse bisogno
più che mai se non di risposte, di spunti e di coraggio, è imperdonabile.
…Eddington non
è una grande riflessione sul nostro tempo. Non è nemmeno un film pienamente
riuscito. È piuttosto una constatazione impotente, quasi disperata, del fatto
che la frattura è ormai insanabile. Come dice una battuta di Sirat,
notevole titolo del concorso di questa Cannes: «È la fine del mondo già da
tanto tempo». Oliver Laxe, tuttavia, sa incorniciare
quella fine con poesia e chiarezza. Ari Aster, invece,
finisce per confonderla ancora di più.
Ma
forse anche questo ha un senso. Forse Eddington va
accettato per quello che è: un film spartiacque, uno dei primi a cercare di
raccontare l’America post-COVID per ciò che è, senza finzioni, senza nostalgia,
e senza alcuna illusione di salvezza. Solo caos, paura e un lungo, inevitabile
silenzio.
…El
cineasta norteamericano no propone soluciones, evita posicionarse en un cien
por ciento a favor o en contra de alguna ideología, detalle que enmascara cierto
cinismo facilista, y opta en cambio por señalar los absurdos detrás de cada
bando porque el atolladero de la actualidad es producto de la acción,
inoperancia y/ o apatía de todos, desde el ecosistema político y la lacra
chupasangre capitalista hasta los medios de comunicación y esos tibios del
montón de las patrias abúlicas de hoy en día, en este sentido la polarización
en pantalla se nos aparece como irreversible o caricaturesca o pesadillesca o
tal vez tan surrealista y confusa como la “guerra civil” del último acto entre
Joe y los francotiradores de izquierda en las sombras. El film trabaja bien el
contraste entre la vulnerabilidad del protagonista (la esposa loquita, el asma,
sus muchas inseguridades y un posible contagio de coronavirus, precisamente por
necio y no usar barbijo) y esa enorme ambición política que le despierta de
repente aunque no por vocación verdadera o doctrina concreta a defender sino
por desprecio, justo como suele ocurrir entre la fauna de derecha del nuevo
milenio (a la candidatura en sí se suma el triple asesinato, dos por venganza y
el primero para sacarse de encima el vagabundo, un pobre odioso en la tradición
de Luis Buñuel). El miedo y la verdad fragmentada se mezclan con una angustia
de larga data y una tecnofilia de celulares consagrados al narcisismo, el morbo
o una denuncia crónica banal que deriva en sadismo…
incursione in Italia di Isabel Coixet, portandosi dietro Francesco Carril (protagonista, con IriadelRío, di Dieci Capodanni, di Rodrigo Sorogoyen) dalla Spagna.
ispirato a un libro di Michela Murgia, Tre ciotole racconta la storia di Marta, una professoressa di educazione fisica e Antonio, cuoco e ristoratore.
noi li conosciamo quando già si stanno lasciando, Antonio lascia Marta, che non riesce a fare quello che non vuole, non sa fingere mai, un po' inadatta nel mondo, la sincerità è un difetto.
entrambi soffrono di non essere più insieme, ma non sanno come fare per ritrovarsi.
entrambi si dedicano molto al lavoro, e non riescono a parlarsi e a capirsi davvero.
le loro strade sono ormai divergenti, Marta intanto scopre di essersi ammalata seriamente... e il resto del film guardatevelo da soli.
i due protagonisti sono bravi, come pure tutti gli altri interpreti.
c'è tanta tristezza, nel film, ma anche sorrisi che illuminano la storia.
certo non è un capolavoro, ma si vede bene.
buona (sconsolata) visione - Ismaele
…Tre ciotole suona, scena dopo scena, di un grave e
insostenibile «non sappiamo cosa scrivere…», supplendo ad esso ora con la
tecnica, ora con ardimenti gestuali e vocali, ora con luoghi comuni e più o
meno centrate riflessioni poetiche sullo sfondo di una Roma come raccontata da
un turista dopo averla visitata appena qualche giorno. Dalla Murgia Coixet trae
un sogno più o meno lucido, come la fantasia speranzosa e arrabbiata di chi,
lasciato, si sente vittima di ogni ingiustizia e si augura quella finale, per
godere della pena e del senso di colpa negli occhi di colui che ha lasciato.
Per fortuna però Marta non cerca la pena di nessuno, in compenso i sogni sono
sogni e, quando poi ci svegliamo, non siamo mai arrivati al punto. Ugualmente
va la storia di Marta, e identico è l’esito di Tre
ciotole.
…Dal punto di vista drammaturgico
“tradisce” Murgia, prende questo rischio calcolato consapevole che è l’unico
modo per restarle fedele lì dove conta: dal punto di vista etico e
sentimentale. Nel suo terzo atto, Tre
ciotole (il film)
è il compimento del messaggio che Murgia ha voluto lanciare non solo con Tre ciotole (il libro) ma anche con la sua malattia. Nel modo in cui Marta
“accoglie” il tumore risuonano le parole che Murgia pronunciò in
quella intervista che colpì tanti così tanto: «Parole
come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può
crescere per anni senza farsene accorgere». E ancora: «Il cancro non è una cosa
che ho; è una cosa che sono». Se si volesse ridurre questo film a un merito soltanto,
sarebbe dunque quello di chiarire definitivamente un equivoco che va avanti da
quanto il libro Treciotole è
uscito e da quando Murgia rivelò la sua diagnosi: sì, in questa storia, in
queste storie, si parla di malattia ma no, non di morte. Quasi per niente di
morte. Semmai il contrario.
…È, probabilmente, una mera coincidenza, eppure sembra
fatta apposta la scelta di Francesco Carril come interprete del professore di
filosofia con cui Marta scambia, forse, il suo ultimo bacio – "mi puoi
baciare" gli chiede Marta a là Otello. L'attore spagnolo
porta alla mente l'apprezzatissima serie tv diretta da Rodrigo Sorogoyen
"Dieci Capodanni" di cui è protagonista, a cui, forse, "Tre
ciotole" farebbe pensare ugualmente. Sì, perché anche i dieci episodi di
"Los años nuevos" (il titolo originale spagnolo) mostrano
inequivocabilmente quanto inizio e fine si assomigliano (anche se ripetuti per
dieci volte consecutive per dieci anni diversi). In "Tre ciotole"
questo duetto, che è quello classicissimo tra eros e thanatos,
porta con sé anche l'altra grande meta di Sorogoyen, ovvero il suggerimento
proustiano (soprattutto nel primo libro della "Recherche",
"Dalla parte di Swan") secondo cui l'amore muore quando perde la sua
componente adolescenziale…
…Tre
ciotole è un film
che, seppur profondamente distante dallo stile scabro e diretto di Michela
Murgia, gli è affine per approccio e capacità empatica. La scelta di
accantonare la coralità del breve romanzo originale - dodici piccoli racconti
su diversi personaggi - per concentrarsi esclusivamente sui due protagonisti
permette alla regista spagnola e al co-sceneggiatore Enrico Audenino di
imbastire un racconto che tratta una doppia perdita: quella del sentimento
d'amore e quella della salute. Come se la sofferenza emotiva fosse anticamera
di quella ben più esiziale del corpo, Sonia sperimenta in breve due sconfitte
da cui una donna leggermente anaffettiva come lei difficilmente sarebbe potuta
uscire fuori. E invece la riscoperta della perduta umanità, purtroppo
esemplificata dalla scelta registica di far riapparire come lampi i ricordi
felici in grana simil 8mm, la porta fuori dalla “comfort zone” di cui l’aveva
accusata il compagno in quel diverbio domestico prima della rottura
permettendole di accorgersi, tra l’altro, degli atti autolesionistici delle due
allieve Giulia e Flaminia. Coixet è bravissima quando si prende il tempo di
personalizzare la poesia capitolina di una città che sembra rispondere alle
sollecitazioni di una delle sue cittadine più sfortunate attraverso sprazzi
visivi inusitati e delicati (le inflazionate Trastevere e Pigneto sono
connotate con lo stupore di chi non ci vive); è meno originale, invece, quando
deve portare in scena il dramma della sua protagonista, irrelata in un
immobilismo supponente e rigidamente borghese (l’antipatia verso la sorella più
borderline, i mancati rapporti umani dettati da un’indisponente mancanza di
curiosità). Così Tre ciotole finisce per dare eccessivo spazio
alla separazione affettiva della poco simpatica Sonia piuttosto che alla sua
malattia, perdendo il cuore di una storia che annoierebbe anche al vernissage
cui partecipa chissà per quale motivo o alla cena post-mortem in cui si riunisce
il clan familiare e amicale della protagonista, in un evidente tributo – ma
poco riuscito - alla vera vicenda occorsa a Michela Murgia.
…Isabel Coixet rispetta il mondo
che ha circondato, protetto e amato Michela Murgia. Roma diventa la vera
coprotagonista di questa complessa storia d’amore e la racconta trasformando le
pagine di Tre Ciotole in un film che ha tantissimi echi morettiani.
Il giro in scooter per conoscere i quartieri della Capitale locali
per locali che ricordano molto Caro Diario, una citazione esplicita con il
primo piano del Nuovo Sacher e anche la stessa struttura narrativa del film
ricorda molto il tanto criticato Tre Piani.
Da un certo punto di vista il punto di forza del film, ossia
l’interpretazione di Alba Rohrwacher con Elio Germano a supporto, rischia di
diventare anche il punto di debolezza. La grandezza dei loro personaggi rischia
di oscurare l’interpretazione e il ruolo dei ruoli secondari che rischiano di
rimanere ai margini come il collega sottone innamorato che già al terzo Miss
Marta si meriterebbe la “FriendZone” o Elisa la sorella di Marta che
meriterebbe un focus tutto suo vista la bravura di Silvia D’Amico.
Peccati veniali che comunque non inficiano più di tanto il valore
finale dell’opera che rimane per me una piacevole sorpresa.
Sono stato
un po’ in giro nel Sud Italia. Piacevolissima esperienza. Se me la tirassi lo
chiamerei tour promozionale. In realtà, ho incontrato un sacco di studenti, ma
proprio un sacco, tra Campania e Molise (di cui,
a questo punto, posso testimoniare la reale esistenza), obbligati dai loro
insegnanti a sentir parlare di Storia e cinema. C’è da dire che sono stati al
gioco e hanno abbozzato benissimo, talmente bene che al termine di uno di
questi incontri, in cui per tutto il tempo avevo insistito sulla necessità di
“dimostrare” ciò che accade, altrimenti, vivendo in questa cultura della mostrazione,
nessuno sarebbe disposto a credere a nulla, si sono timidamente
avvicinati due studenti e mi hanno lasciato un foglio con alcune loro
riflessioni da sottopormi. Stupendo. Ma fantastico davvero il fatto
che qualcuno pensi di riflettere sulle tue parole. Lasciate perdere la
questione che se qualcuno si avvicina timidamente e addirittura ragiona su ciò
che hai detto ha una considerazione totalmente alterata di te che corrisponde
poco alla paraculica realtà, ma è stato bello lo stesso illudersi, in quel
momento.
La
riflessione partiva dal film di Rithy Panh L’immagine mancante,
ovvero dalla strenua e ossessiva ricerca di documenti filmati o perlomeno
fotografati che potessero in qualche modo sostanziare il dramma del popolo
cambogiano oppresso dal regime dei Khmer rossi di Pol Pot (dei quali, devo
ammetterlo, ho sempre trovato irresistibile la sciarpetta, la krama). E in
effetti, quella dei due studenti, un ragazzo e una ragazza,
era una riflessione molto matura, che forse avrete capito se avete visto il
film: la tragedia della Cambogia possiede infatti questo buco paradossale, a
causa del quale, senza le immagini che si sedimentano in memoria (di un intero
popolo) quella stessa memoria diventa lacunosa, perfino discutibile,
quando non addirittura, nei casi più estremi, negabile. Pensate se non ci
fossero state le immagini dai campi di sterminio, una volta aperti e liberati.
Pensate se qualcuno non riuscisse a documentare Gaza, malgrado gli sforzi
grotteschi, se il risvolto non fosse assolutamente tragico, da parte di
influencer prezzolati dagli israeliani per dimostrare quanto si stessero ingozzando i palestinesi,
altro che ridotti alla fame. Quasi un video promozionale dell’ente del turismo.
L’immagine
mancante (il
singolo film, ma anche il principio più ampio) è il lavoro sullo spazio
negativo, su un fuoricampo totale che dev’essere recuperato per potersi
ancorare a una liturgia del ricordo che eviti pericolose rimozioni. È
il succo della Storiadel Novecento. È quello che fa in pratica
il cinema dalla fine dell’Ottocento (nel catalogo Lumiére, quando smettevano di
riprendere treni e annaffiatori annaffiati, c’erano un sacco di film su visite
di regnanti ed eventi storici, magari ricreati appositamente). È l’idea
all’origine del testo presentato
nel corso degli incontri di cui sopra. È quello che ho ripetuto come un disco
rotto in questi giorni agli studenti così cortesi da ascoltarmi (ringrazio
pubblicamente).
D’altronde,
se un albero cade nel fitto di un bosco senza che nessuno lo veda, è caduto
veramente?, si chiedeva George Berkeley fin dal ‘700, anche se io l’ho letto la
prima volta in un libro di Joyce Maynard.
C’è una data
precisa in cui ogni accadimento è diventato quasi esclusivamente un problema di
percezione: 16 gennaio 1991. Inizio ufficiale della Guerra del Golfo. È stato il primo evento
globale a entrare nelle case di ogni famiglia, consentendo di vivere in tempo
pressoché reale le operazioni belliche. Chiedo ai più attempati: ve le
ricordate le immagini delle esplosioni e dei raggi verdognoli che solcavano i
cieli scuri proposti dagli schermi televisivi mentre Emilio Fede orgasmava?
Quelle, esatto.
Quello è
stato il momento in cui la Storia ha avuto un suo sviluppo totalmente
complementare fatto di immagini in diretta e da lì in avanti non è
stato più possibile pensare agli eventi, di qualsiasi natura, senza che ci fosse
un’immagine a dimostrarne la veridicità. Poi ci siamo deformati
completamente. Come umanità, intendo. Perché sono arrivati gli smartphone e
tutti si sono sentiti Kubrick. Ma con un’etica differente, soprattutto quando
si riprendono, immobili, un incidente stradale o una rissa come se si fosse un
corpo estraneo e non si sentisse affatto l’esigenza di dover intervenire per
tentare di salvare il salvabile (è la natura umana, bellezza. Ce lo aveva detto
già 74 anni fa Billy Wilder in quel capolavoro che è L’asso nella
manica).
Ma
indignarsi sgrava solo le coscienze e invece lo smartphone ha anche dei
risvolti positivi, perché l’altro grande evento, quello che segna il
punto di reale non ritorno e dopo il quale nessuno — NESSUNO — è stato più lo
stesso di prima è l’11 settembre, ossia, guardandolo in una certa
prospettiva, il momento nel quale la Storia è stata catturata in
diretta da chiunque avesse uno strumento per la registrazione a portata di mano:
ossia tutti (ed è la grande differenza rispetto al video in 8 mm di Abraham Zapruder che
nel ’63 a Dallas riprese l’assassinio di Kennedy). Non solo percezione
in diretta, come nella Guerra del Golfo, ma partecipazione direttaa
un trauma vissuto nell’istante in cui il secondo aereo si è schiantato sulla
torre sud ed è stato ripreso da centinaia di telefoni che hanno contribuito a
creare un immaginario collettivo del disastro. L’osservare che diventa
l’esserci: l’esistenza trasformata in essenza compartecipe dell’evento.
Una
proliferazione mai vista di immagini. Da tutte le distanze, da ogni
angolazione, con qualunque grana, con le singola urla di raccapriccio a
emergere nitide sullo sfondo sonoro (comunque gli «Oh, my God!» si attestarono
almeno al 90%). Talmente proliferante che per il cinema americano divenne irrapresentabile:
tutt’altro che una rimozione, quanto ilriconoscimento che
l’eventuale ricostruzione drammatica era già stata superata dalla Storia
vissuta in prima persona attraverso le immagini di ognuno. La
rappresentazione resa inutile dall’essenza. E il cinema si diede direttamente
all’elaborazione del lutto, dando per scontato il trauma per manifesta
inflazione oppure cancellandolo come immagine, riconoscendo di aver perso
l’impari lotta. Come fecero due grandi nomi, non due sfigati qualunque,
come Alejandro González Iñárritu e Kathyrin Bigelow,
i quali si limitarono a mostrare uno schermo completamente nero animato dai
lanci telegiornalistici e da brevissimi flash drammatici sui corpi in caduta
dalle torri (Iñárritu, nel suo episodio del film collettivo 11
settembre 2001) oppure dalle voci disperate delle vittime al telefono,
con tutta l’angoscia consapevole di un destino segnato (la Bigelow, come
preambolo della caccia a Bin Laden raccontata in Zero Dark Thirty,
ben 11 anni dopo).
Ma queste
sono scelte personali e artistiche meditate. Dovute alla chiara coscienza di
un’evoluzione rappresentativa e percettiva. Altre decisioni invece sono
imposte e la conseguente mancanza delle immagini mostra l’arroganza e,
indirettamente, la stupidità del potere che si premura di censurare
ciò che è avvertito come scomodo, imbarazzante. Quindi pericoloso, perché
genera dissenso, discussione, messa in dubbio. Si tratta anche, ma fingono di
non accorgersene, dell’ammissione involontaria di un’ottusità di fondo, perché
nella contemporaneità in cui tutto diventa velocemente noto grazie al
tambureggiamento ecoico dei social sortisce l’effetto contrario. Ossia un
boomerang. Non sono più i tempi in cui un film (bellissimo) come Il
leone del deserto, kolossal realizzato da Moustapha Akkad e
prodotto dagli americani anche con i soldi di Gheddafi, con un cast fantastico
(Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger nei consueti panni di Mussolini) e
l’intento di denunciare la violenta repressione del generale Rodolfo
Graziani, plenipotenziario militare del Duce in Libia, veniva vietato da
Andreotti per vilipendio delle forze armate (fasciste, occorre ricordarlo). Un
film cancellato perché sfatava l’ormai sfiatato mito degli “italiani brava
gente”, impossibile da vedere almeno fino al 2009, quando Sky lo trasmise; 29
anni dopo la sua uscita, però. Non sono più i tempi perché,
pur essendo ancora indisponibile in Italia in qualunque formato casalingo (DVD
o Blu-Ray) e pur avendo ottenuto il visto della censura solo lo scorso anno, 44
anni dopo l’essere stato ultimato, l’invisibilità ormai si può aggirare in
molti modi che ben conoscete (non ve li devo certo suggerire io). Con buona
pace di una censura démodé.
Eppure il
potere non demorde. Qua sopra abbiamo parlato più volte dell’essenzialità di un
film come No Other Land, che non dovrebbe essere solo un
film di nicchia, tanto più che è riuscito a vincere un Oscar all’interno di
un’enclave americana, quella dei produttori di Hollywood, che proprio così
distante dalle simpatie israeliane non è (mi sono tenuto larghissimo).
Ebbene, No Other Land, inizialmente programmato per il 7 ottobre su
Raitre in prima serata, è stato cancellato dal palinsesto da una misteriosa
telefonata giunta in viale Mazzini da qualcuno molto vicino al Governo. Il
problema è che ora come ora un tentativo di cancellazione rivelato da
stampa e social (più social che stampa, a essere onesti) concentra
l’attenzione sull’atto in sé, riuscendo nell’intento di attirare anche
alcuni di coloro che non erano ancora informati circa la messa in onda. Un’immagine
cancellata che lavora con gli stessi meccanismi psicoanalitici del feticcio:
attirare l’attenzione sulla mancanza spostandola su qualcos’altro che ne
rifletta l’effettiva esistenza. In questo caso, la possibilità di vederlo
ugualmente con mezzi più o meno leciti. Perché questa possibilità c’è.
Praticamente sempre (era nel palinsesto di Mubi, ma anche lì è durato poco).
Consapevoli di questo, dopo un primo, iniziale, momento di smarrimento, il film
è stato riprogrammato per la sera del 21 ottobre. Staremo a vedere: è pur
sempre un film filopalestinese, d’altronde. E la Palestina sarà riconosciuta
quando sarà il caso, dicono ogni paio di giorni dal Governo.
Tutto questo
solo per dire che l’immagine non può più risultare mancante e
il mondo non può diventare una nuova Cambogia. Perché se lo diventa, pur con
tutti i vincoli sociali e politici, a qualunque latitudine, Cina e Iran
compresi, la mancanza è solo la nostra e la colpa è quella di non essere stati
i soggetti attivi e partecipativi che questo periodo storico permette che
ognuno di noi sia.