Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
giovedì 19 dicembre 2013
martedì 17 dicembre 2013
Still life – Uberto Pasolini
all'inizio John May sembra una specie di Mr. Bean, solo più triste e più solo, senza neanche Teddy.
fa un lavoro che più triste non si può e prova a dare un ordine, a lasciare in ordine le cose.
mai si riesce a chiudere le pratiche, che vengono archiviate, con dispiacere e non senza partecipazione, però senza una soluzione del caso.
ma alla fine un caso riesce ad avere una fine positiva, e forse John May potrebbe smettere i panni soliti per qualcosa di diverso, visto che intanto gli hanno tolto il lavoro.
ma il Caso decide altrimenti.
John May è un po' perechiano (nel senso di Perec), un po' travet, un po' investigatore, un po' gogoliano (nel senso di Gogol), alla fine siamo tutti con lui.
la fine è un coup de theatre, come un omaggio del regista all'impiegato, una piccola grande consolazione proprio alla fine, anzi dopo.
è in pochissime sale, cercatelo, non vi deluderà - Ismaele
fa un lavoro che più triste non si può e prova a dare un ordine, a lasciare in ordine le cose.
mai si riesce a chiudere le pratiche, che vengono archiviate, con dispiacere e non senza partecipazione, però senza una soluzione del caso.
ma alla fine un caso riesce ad avere una fine positiva, e forse John May potrebbe smettere i panni soliti per qualcosa di diverso, visto che intanto gli hanno tolto il lavoro.
ma il Caso decide altrimenti.
John May è un po' perechiano (nel senso di Perec), un po' travet, un po' investigatore, un po' gogoliano (nel senso di Gogol), alla fine siamo tutti con lui.
la fine è un coup de theatre, come un omaggio del regista all'impiegato, una piccola grande consolazione proprio alla fine, anzi dopo.
è in pochissime sale, cercatelo, non vi deluderà - Ismaele
…La
bellezza di Still Life sta tutta nel messaggio positivo che
porta, malgrado il film sia di una tristezza indicibile. John May è una specie
di angelo senza volto che ha fatto del suo lavoro una missione, quella di
restituire dignità ai morti. In un certo senso assomiglia molto a Departures, la pellicola giapponese vincitrice
qualche anno fa dell'oscar per il miglior film straniero. Diciamo che Still Life è meno poetico e più 'neorealista', ma
alla fine la morale di fondo è la stessa: se facciamo del bene agli altri,
anche a loro insaputa, alla fine ci sentiamo più sereni e meno soli, e meglio
disposti verso noi stessi. Un concetto semplice, universale, che fa della
pellicola di Pasolini, scarna e delicata, lontana da ogni
melensaggine, un film che tutti dovrebbero vedere. Non fosse altro che per il
finale, uno dei più commoventi degli ultimi anni.
…Uberto
Pasolini, regista di Machan - La vera storia di una falsa squadra (2008),
sintetizza così le motivazioni che, con i film di Ozu quali riferimenti visivi,
lo hanno portato alla realizzazione del suo secondo lungometraggio, storia di
solitudine non priva di ironia e caratterizzata da tragici risvolti.
Un’operazione gradevole che, non distante nel look generale da determinate produzioni televisive teutoniche, si regge in maniera quasi esclusiva sull'ottima prova del protagonista Marsan, riuscendo sia a strappare qualche risata che a lasciar emergere spruzzate di poesia.
Un’operazione gradevole che, non distante nel look generale da determinate produzioni televisive teutoniche, si regge in maniera quasi esclusiva sull'ottima prova del protagonista Marsan, riuscendo sia a strappare qualche risata che a lasciar emergere spruzzate di poesia.
…"Still life" è
costruito fondamentalmente su questo personaggio con cui è facile avere una
forte empatia grazie alla straordinaria interpretazione di Eddie Marsan, ottimo
caratterista del cinema inglese, dal viso riconoscibilissimo e particolare, che
ha avuto, insieme allo stesso Pasolini alla proiezione in Sala Grande circa
dieci minuti di standing
ovation, a dimostrazione dell'ottimo lavoro effettuato e dall'emozioni che
ha saputo suscitare questo singolare personaggio…
…Il ritmo di "Still Life" è soffice, pacato,
ma perfetto per l'andamento dell'intero film, che ci regala un ritratto di un
mondo freddo, triste, rispecchiato da una fotografia di Stefano Falivene, e
musiche del premio Oscar Richard Portman altrettanto gelide e funzionali. Il
finale, senza svelarvi niente, è una delle parti più commoventi dell'intera
pellicola che tocca il cuore e che riesce a farsi strada nelle nostre emozioni,
lentamente, ma lasciando un qualcosa di sospeso dentro di noi.
…Pasolini impagina con grande rigore,
memore della lezione dei classici orientali, Ozu in testa, e con qualcosa del
suo gran connazionale Terence Davies, e con poco invece del decorativismo
britannico e nemmeno del cinema social-realista di Ken Loach e Mike Leigh.
L’impressione a momenti è che il compito sia svolta con un eccesso di
diligenza, con un certo accademismo ecco. Quell’insistenza sulla sobrietà della
casa di John, quelle nature morte (still lives!) che sono i suoi poveri pranzi
solitari, una scatoletta, una mela, un bicchiere. Si sente troppo forte, troppo
pressante l’ambizione all’autorialità, il che conferisce al film un che di
programmatico, artefatto, pretenzioso…
…Un film delicato e gradevole, in grado di lasciare un
segno, o almeno un cenno di emozione nell'animo dello spettatore che ha voglia
di minimalismo e sentimenti trattenuti, ma anche di perdersi in una storia
senza eccessi e senza clamori; una vicenda di un piccolo uomo mite, di un
timido e sensibile traghettatore di anime dimenticate verso l'eternità.
da quisabato 14 dicembre 2013
Il diavolo probabilmente... - Robert Bresson
l'ho visto due volte in due giorni, ma ce ne vuole per arrivare.
i dialoghi sono quasi meccanici, intensi, profondi, c'è una storia e delle storie laterali, che si fondono in un quadro dello stato del mondo e di una parte dell'umanità che si interroga.
sembra girato oggi, il mondo va sempre peggio, dei giovani provano ad agire, e anche a non agire, come Charles.
cambiare il mondo, la rivoluzione, cambiare se stessi, rifiutare il mondo, arrendersi, la chiesa, la politica, non ci sono risposte, non ci sono soluzioni.
mi ha ricordato "Centochiodi", di Ermanno Olmi, quel film dev'essere in parte figlio di questo film di Bresson.
di sicuro quello di Bresson non è cinema per il tempo libero, ci vuole impegno e partecipazione, bisognerà rivederlo ancora, ci sono così tante cose dentro - Ismaele
i dialoghi sono quasi meccanici, intensi, profondi, c'è una storia e delle storie laterali, che si fondono in un quadro dello stato del mondo e di una parte dell'umanità che si interroga.
sembra girato oggi, il mondo va sempre peggio, dei giovani provano ad agire, e anche a non agire, come Charles.
cambiare il mondo, la rivoluzione, cambiare se stessi, rifiutare il mondo, arrendersi, la chiesa, la politica, non ci sono risposte, non ci sono soluzioni.
mi ha ricordato "Centochiodi", di Ermanno Olmi, quel film dev'essere in parte figlio di questo film di Bresson.
di sicuro quello di Bresson non è cinema per il tempo libero, ci vuole impegno e partecipazione, bisognerà rivederlo ancora, ci sono così tante cose dentro - Ismaele
…It's probably Bresson's darkest and most difficult film, so it's
recommended for those already familiar with his work…
Un quartetto di giovani
nella Parigi di oggi. Charles è il più giovane, fragile e sensibile dei
quattro, in rivolta contro la società e il mondo. Cercherà la morte per mano di
un compagno di strada, ladruncolo drogato, cui chiede di essere ucciso a pagamento.
Bresson filma i suoi personaggi riducendo al minimo la parte superiore del
corpo e mostrandone le mani, le gambe, i piedi, gli oggetti che vedono e
toccano. Dialogo ridotto all'osso, detto con quel tono senza intonazione che è
tipico di Bresson e che il doppiaggio italiano tradisce. Discutibile prima
parte, troppo didattica. Rimane la densità dell'itinerario di un'anima verso il
suo destino, raccontata da un cineasta che crede nell'esistenza metafisica del
Male.
…A
certificare l’impotenza e l’impossibilità dell’azione, il regista spezza le
relazioni fra causa ed effetto, relegando l’una o l’altra al fuoricampo, che
sia il caso di un incidente stradale, di cui si sentono i rumori ma non si
vedono le conseguenze, o l’abbattimento di alberi, che cadono sotto il suono di
seghe elettriche mai visibili. Il fuoricampo, che nasconde una visione totale
delle cose, è forse l’aspirazione irrealizzabile di Charles. In un film dove la
forma riesce ad essere la sostanza, privato anche della disperazione, l’unica
certezza è che nessuna rivoluzione è possibile.
…Dio non
esiste, prenderne consapevolezza non è facile. La lucidità piena è follia, così
il protagonista cerca prima di affogarsi in una vasca, ma sarà l’incontro con
il tossicodipendente a segnare la via del non-ritorno. E lo psicanalista tra un
buco di droga e l’altro dell’amico non basterà a salvarlo. Difficile e
impegnato il cinema di Bresson, non adatto nel pomeriggio post.pranzo.
…Il titolo del
film fa riferimento ad uno scambio tra Charles, i suoi amici ed uno sconosciuto
che in autobus dice:“Ci sono delle forze oscure di cui è impossibile
conoscere le leggi. La verità è che qualcosa ci spinge contro
quello che siamo. Ma chi è allora che si diverte a farci perdere che ci manovra
sotto, sotto; il diavolo probabilmente.”
Dans ce film Bresson ne se départit
pas de son style austère, unique et puissant, qu'aucun autre réalisateur n'est
parvenu à égaler. Il se concentre sur les détails intimes d'une histoire, les
préparations ou le résultat des événements autant que sur l'événement lui-même.
Le
déroulement de l'histoire semble ainsi faire partie d'un plan préétabli sur
lesquels les personnages les plus lucides savent qu'ils ne possèdent qu'une
faible marge de manœuvre. Le film déploie ainsi une trame narrative importante
: il narre le cheminement vers la mort de son personnage principal, Charles,
ainsi que les tourments amoureux dont sont victimes Alberte et Edwige qui
l'aiment et Michel qui aime Alberte. Le film
dresse aussi une charge sans nuance sur la société industrielle. Pourtant,
aucun accès de colère, aucun cri, aucune dispute ne peuvent être relevés. Tous les personnages se
chargent de couper court à toute volonté de l'un ou l'autre de changer l'état
des choses. Et, lorsque les trois amis de Charles croient l'avoir sauvé en
l'envoyant chez le psychiatre, c'est là qu'il trouve la solution à son problème
en se faisant souffler l'idée d'un suicide commandé…
da quigiovedì 12 dicembre 2013
Captain Phillips - Attacco in mare aperto - Paul Greengrass
un’americanata ben fatta, regista un inglese.
in fondo è anche un western, alla fine arrivano i “nostri”.
bravo, come sempre, Tom Hanks, che per la maggior parte del
tempo è prigioniero dei banditi indigeni, anche se in acque internazionali.
la tensione è sempre viva, con punte altissime.
quasi commovente il desiderio, la stima, l’invidia, l’amore d’America,
di Muse, il capo dei pirati, che è un ragazzino ingenuo, i “nostri” lo
catturano come un pollo, e poi è l’unico che sopravvive.
la fine è già scritta, come farebbero quattro disperati a
vincere l’impero, con la sua potenza di fuoco e la sua furbizia?
comunque l’impero trema, per qualche ora, ma non ci sono
dubbi sulla vittoria, l’unico dubbio è il punteggio, se 4 a 0 o 4 a 1, e la
morale, se c’è, è sempre la stessa, è impossibile che gli indiani vincano.
è un film che merita la visione, per lo spettacolo e per la
bravura dei due comandanti, sia Phillips che Muse - Ismaele
…La scrittura non è mai stato il punto di forza dei film da
lui diretti, e i dialoghi di Captain Phillips non si segnalano per particolare smalto, ma
questa volta la dinamica narrativa è più semplice e al contempo più
sofisticata. Dalla condizione di assedio, che vede tutti contro tutti, il film
vira ad un certo punto verso un contesto più asfittico e cardiopatico: l'Iliade
si trasforma così in Odissea e Philips si ritrova a vivere una serie di
peripezie in solitaria. Per tornare a casa, dovrà ricorrere alle sue doti umane
(il rapporto tra i due capitani è lo spazio emotivo del film), all'astuzia e
alla fede in un'entità superiore (i Seals).
L'ambientazione in alto mare, il ritratto lucido della Marina statunitense nei suoi vari gradi, l'impatto visivo e metaforico della piccola scialuppa circondata dalle enormi navi da guerra sono parte integrante dello spettacolo inscenato da Greengrass. Completa il quadro la performance di Tom Hanks e il cast di non professionisti che dà sguardo e sangue ai pirati somali. Non si cerchino, però, grandi spunti etico-politici: that's entertainment.
L'ambientazione in alto mare, il ritratto lucido della Marina statunitense nei suoi vari gradi, l'impatto visivo e metaforico della piccola scialuppa circondata dalle enormi navi da guerra sono parte integrante dello spettacolo inscenato da Greengrass. Completa il quadro la performance di Tom Hanks e il cast di non professionisti che dà sguardo e sangue ai pirati somali. Non si cerchino, però, grandi spunti etico-politici: that's entertainment.
…In "Captain Phillips" Greengrass lavora
molto sul corpo (o meglio sul volto) degli attori e gioca sulla
contrapposizione chiuso/aperto (la nave, le sale di comando militari, la
scialuppa/l'oceano) mettendo in scena la limitatezza delle azioni umane, il
senso di ineluttabilità, vale a dire deve andare per forza in questo modo, non
ci sono alternative.
Oltre la messa in scena di un episodio reale e all'utilizzo personale del mezzo cinematografico da parte di Greengrass, il film non presenta grandi spunti di riflessione. Vediamo in modo palese: ancora la grandeur a stelle e strisce con la Nazione Americana che non abbandona mai un suo uomo in pericolo, costi quel che costi; i somali poveri pescatori, costretti a fare i pirati perché non è rimasto altro; Phillips che rappresenta l'icona del buon marito e padre di famiglia, che fa il proprio dovere fino in fondo ed è tutto sommato un eroe per caso; ecc... Temi un po' abusati e qui trattati con una certa superficialità. Greengrass non riesce a dire nulla di più di quello che si vede sullo schermo, la realtà - anche se romanzata - rimane cronaca che scivola dallo sguardo e non penetra nel cuore e nella mente dello spettatore…
Oltre la messa in scena di un episodio reale e all'utilizzo personale del mezzo cinematografico da parte di Greengrass, il film non presenta grandi spunti di riflessione. Vediamo in modo palese: ancora la grandeur a stelle e strisce con la Nazione Americana che non abbandona mai un suo uomo in pericolo, costi quel che costi; i somali poveri pescatori, costretti a fare i pirati perché non è rimasto altro; Phillips che rappresenta l'icona del buon marito e padre di famiglia, che fa il proprio dovere fino in fondo ed è tutto sommato un eroe per caso; ecc... Temi un po' abusati e qui trattati con una certa superficialità. Greengrass non riesce a dire nulla di più di quello che si vede sullo schermo, la realtà - anche se romanzata - rimane cronaca che scivola dallo sguardo e non penetra nel cuore e nella mente dello spettatore…
…Captain Phillips è in gran parte il suo film più maturo
ma anche, tra le altre cose, il più didattico. Una parentesi della filmografia
del regista di Bloody Sunday che
stavolta non parte da una premessa così civile come potrebbe sembrare,
traducendosi in una celebrazione dell’eroismo americano in fondo statica e
senza troppo da dire, che mal si presta a essere dibattuta in termini
controversi e ben si guarda dall’aprire squarci o imbandire tavolate intorno
alle quali consumare diatribe ideologiche. Ne deriva un intrattenimento solido
che finisce col vergare il film col suo imprimatur rendendolo
avvincente ma allo stesso tempo in gran parte prevedibile dall’inizio alla
fine, sebbene Greengrass sia come al solito molto abile nel
capitalizzare il dinamismo, nel metterlo a frutto, nel sopperire alla carenza
di memoria dell’immaginario contemporaneo che tutto frulla e rielabora nel
calderone dalle ansie postmoderne con un classicismo non tanto stilistico
quanto morale…
da
quimercoledì 11 dicembre 2013
Win Win (Mosse vincenti) – Thomas McCarthy
Thomas McCarthy di mestiere fa l'attore, ma qualche volta dirige un film, questo è il terzo.
come gli altri due, è un piccolo film, e come gli altri due parla di rapporti umani.
non ci sono buoni o cattivi, solo persone che fanno scelte sbagliate, a volte, spinti dalla convenienza o dall'egoismo, e però (come anche negli altri due film) arriva qualcuno, le persone si incontrano, cambiano, si affezionano, crescono, diventano diverse, anche migliori, chissà, di sicuro si ripensano, e agiscono, piccole cose, ma fanno qualcosa.
qui non muore nessuno, non è un thriller, ma non ci si annoia, un film lento, ma ci sono piccoli movimenti che diventano decisivi.
non è un capolavoro, ma non si dimentica (e poi c'è anche Paul Giamatti in gran forma) - Ismaele
come gli altri due, è un piccolo film, e come gli altri due parla di rapporti umani.
non ci sono buoni o cattivi, solo persone che fanno scelte sbagliate, a volte, spinti dalla convenienza o dall'egoismo, e però (come anche negli altri due film) arriva qualcuno, le persone si incontrano, cambiano, si affezionano, crescono, diventano diverse, anche migliori, chissà, di sicuro si ripensano, e agiscono, piccole cose, ma fanno qualcosa.
qui non muore nessuno, non è un thriller, ma non ci si annoia, un film lento, ma ci sono piccoli movimenti che diventano decisivi.
non è un capolavoro, ma non si dimentica (e poi c'è anche Paul Giamatti in gran forma) - Ismaele
…In questo
microcosmo di personaggi compositi e poliedrici (nessuno è tutto buono o tutto
cattivo), c’è chi spaccia il proprio desiderio per quello altrui, chi maschera
l’egoismo con la carità, chi, per necessità, non ci pensa due volte a lucrare
sugli altri per salvarsi dal baratro. Ma il marcio non prende il sopravvento.
Uomini di buon senso e buona volontà hanno la meglio. Regole e princìpi non
sono pesanti dogmi a cui sottostare, ma sani e forti gesti portatori di
sollievo e gioia. Un film dove la porta stretta è sì più faticosa, ma anche più
onesta di quella larga. Così l’arte dell’arrangiarsi e del reagire va in scena
in un inaspettato finale “con olio di gomito”, che fa sorridere col cervello
acceso. Un finale con una buona dose di buonismo che una volta tanto si fa
accettare, ci sta, ci piace.
…"Mosse vincenti" è una commedia auto-assolutoria e
usa un linguaggio spuntato, sia sul profilo verbale che cinematografico, dove
uno stile piano (per non dire piatto) porta avanti, con il didascalico impiego
di campi/controcampi e piani medi/figure intere (spezzati solo dalla dinamicità
degli incontri di lotta), una sceneggiatura dalle tempistiche calcolate a
tavolino: l'intimismo ricercato dal regista di "The visitor" è assai
scolorito e anche la fotografia di Bokelberg usa colori caldi che sembrano
ricalcati sui prodotti pseudo-indipendenti di Jason Reitman. Alla fine, l'unico
vero vincitore è la coscienza dell'uomo medio americano che, macchiatosi di una
colpa, riesce a redimersi tenendosi nonno e nipote, e liberandosi della figlia
diseredata: tutto ciò solo con un secondo lavoro da barman. Evviva la
pedagogia.
…Non c’è bisogno di sprecare tante parole per un film come questo: “Win Win” è
una commedia semplicemente deliziosa. Scritta benissimo e interpretata da un cast
di attori strepitosi la commedia di McCarthy è infatti in grado di suscitare un
po’ di tutto: sane risate, grande empatia, un pizzico di commozione e grande
partecipazione emotiva per l’intera durata del film.
Il
risultato è una pellicola fuori dal comune, divertente e mai banale che vi
consigliamo assolutamente di vedere.
…Well, OK. It's too neat. Everything clicks into
place. Life seldom has uncomplicated endings. But let it be said that Alex
Shaffer, who was cast more for his wrestling than his acting, is effortlessly
convincing. That Giamatti and Tambor are funny when they try to out-dour each
other. That Amy Ryan does what she can with the loyal-wife-who's-had-enough
role. That the ending has simple pleasures, although not those promised by the
beginning or by McCarthy's earlier films. I'm happy I saw "Win Win."
It would have been possible to be happier.
…Paul Giamatti (« Sideways
», « Le Monde de Barney ») porte une nouvelle fois cette production
indépendante sur ses épaules. Il compose ici un vrai gentil, pris au piège de
ses propres manipulations, utilisant l'argent qu'il touche, non pas pour
maintenir le grand-père à domicile, mais pour sa famille, espérant ainsi
concrétiser une certaine vision du « gagnant-gagnant » prôné par les
capitalistes. Mais il y a forcément des laissés-pour-compte dans l'affaire, car
l'envie de s'en sortir (de la drogue, de la misère...) demande souvent une
bonne dose de confiance, en soi et en les autres.
da quilunedì 9 dicembre 2013
Pat & Mat - Lubomír Beneš
mi è capitato di vedere in un piccolo cinema "Pat e Mat", proiettavano alcuni episodi, mi sono divertito molto.
si trovano comunque su youtube, provate, sono divertenti, come le comiche di quando eravamo bambini - Ismaele
ecco un episodio:
si trovano comunque su youtube, provate, sono divertenti, come le comiche di quando eravamo bambini - Ismaele
ecco un episodio:
Pat e Mat sono i personaggi della serie ceca A je to ideata da Lubomír Beneš.
La prima volta Pat e
Mat apparvero nel film d'animazione a passo uno "Kutaci" (I pensatori) nel 1976. In seguito sono
comparsi nella serie A je to (traducibile con "Ce l'abbiamo
fatta!"). In un primo momento il target cui era rivolta la serie era un pubblico adulto, ma presto i
simpatici eroi diventarono intrattenimento per tutte le generazioni.
I nomi Pat e Mat
vennero inventati nel 1989 e sono riferiti, per l'appunto, ai
protagonisti della serie A je to; trattasi di due pasticcioni che
ne combinano di tutti i colori nei loro tentativi di "fai-da-te".
Diventarono molto conosciuti nella Repubblica
Ceca, ma presto anche all'estero, soprattutto nell'Europa
dell'est.
Non sono personaggi
con un preciso contesto sociale e solitamente non parlano, ma in sostanza sono
due ottimisti che in qualsiasi situazione trovano
una soluzione.
Difatti in ogni episodio della serie solitamente qualsiasi attività da loro
intrapresa finisce col creare solamente problemi (la distruzione di un mobile, per esempio), ma
alla fine della puntata riescono a trovare un rimedio
"soddisfacente".
da qui
The station agent – Thomas McCarthy
una bellissima opera prima, tre sconosciuti diventano amici, ognuno ha i suoi problemi, ma non importa, si riesce a prendersi cura dell'altro.
Fin, Olivia e Joe sono davvero bravi ad avvicinarsi, allontanarsi, avvicinarsi, ognuno c'è quando serve e ognuno trova l'amico quando ne ha bisogno.
Fin esce da una condizione protetta, muore il suo vecchio amico e si trova nel mondo, un mondo marginale e piccolo, in una casa lasciatagli in eredità dall'amico; una situazione simile per certi versi a quella di Chance (Peter Sellers), ma Fin (un bravissimo Peter Dinklage) è più fortunato, è più giovane e capisce di più.
Thomas McCarthy fa pochi film, e davvero buoni, questo (e non solo) cercatelo - Ismaele
Fin, Olivia e Joe sono davvero bravi ad avvicinarsi, allontanarsi, avvicinarsi, ognuno c'è quando serve e ognuno trova l'amico quando ne ha bisogno.
Fin esce da una condizione protetta, muore il suo vecchio amico e si trova nel mondo, un mondo marginale e piccolo, in una casa lasciatagli in eredità dall'amico; una situazione simile per certi versi a quella di Chance (Peter Sellers), ma Fin (un bravissimo Peter Dinklage) è più fortunato, è più giovane e capisce di più.
Thomas McCarthy fa pochi film, e davvero buoni, questo (e non solo) cercatelo - Ismaele
The Station Agent è come uno scatolo in cui tirate tre dadi ed
ottenete sempre un sei per ognuno di loro, sempre il massimo. Quei tre dadi
sono i tre protagonisti. Non ha importanza come siano fatte le facce dello
scatolo, quei dadi si scontreranno e s’incontreranno l’uno con l’altro creando
un’armonia perfetta pur rimanendo dei semplicissimi dadi, oggetti senza una
grande importanza, di nessuna particolare bellezza, ed è questo che sono i tre
personaggi Finn, Olivia e Joe…
Sono due le
intelligenti e "scandalose" idee alla base di Station
Agent: la prima è quella
di regalare un ruolo da protagonista ad un uomo affetto da nanismo: un nano,
per usare un termine oggi non politicamente corretto. La seconda è quella di
essere un film dove - perlomeno in apparenza - non accade assolutamente nulla,
dove la quotidianità, nei suoi elementi più essenziali e persino banali, è alla
base dell'intero racconto e dove proprio grazie a questo il racconto si fa
profondo e coinvolgente…
…Dal forte contenuto
emotivo e la capacità di colpire lo spettatore con le cose più semplici, la
sceneggiatura di McCarthy trova
il suo punto di forza nel trio di veri amici (Peter Dinklage - Bobby
Cannavale - Patricia Clarkson) più awesome della storia del cinema
(interpretati egregiamente, come solo i grandi attori sanno fare).
It's really funny how people see me and treat me,
since I'm really just a simple, boring person. So says Finbar McBride, the hero
of "The Station Agent." Nothing in life interests him more than trains.
Model trains, real trains, books about trains. He likes trains. Finbar is a
dwarf, and nothing about him interests other people more than his height. It's
as if he's always walking in as the next topic of conversation. His response is
to live in solitude. This works splendidly as a defense mechanism, but leaves
him deeply lonely, not that he'd ever admit it…
…"The Station Agent" makes it clear that too
many people make it all the way to adulthood without manners enough to look at
a little person without making a comment. It isn't necessarily a rude comment
-- it's that any comment at all is rude. In a way, the whole movie builds up to
a scene in a bar. A scene that makes it clear why Finbar does not enjoy going
to bars. The bar contains a fair number of people so witless and cruel that
they must point and laugh, as if Finbar has somehow chosen his height in order
to invite their moronic behavior. Finally he climbs up on a table and shouts,
"Here I am! Take a look!" And that is the moment you realize there is
no good reason why Peter Dinklage could not play Braveheart.
…Descubriendo la Amistad logra esa accesibilidad por su falta de
pretensiones, nunca busca que nos compadezcamos de Olivia y su manera de vida
tan autodestructiva, ni que apoyemos a Fin cuando se da cuenta que saliendo de
su ostra también puede cazar un tren de carga. Es cierto, en su opera prima
Thomas McCarthy se vale de escenas con diálogos que a la larga no nos dicen
mucho, viñetas poco ortodoxas y personajes en pleno aburrimiento, pero lejos de
ser un defecto, esto se puede justificar tomando en cuenta que lo único que
desea es mostrar el desencanto de sus personajes. ¿Se le puede reprochar
esto?...
…Une œuvre généreuse, où les différences s'estompent face au vécu de
chacun.
da quisabato 7 dicembre 2013
Red Riding: In the Year of Our Lord 1983 - Anand Tucker
terzo episodio di una trilogia, con registi diversi, tratto da storie
scritte da David Peace.
una storia avvincente, con radici nel passato, e uno sviluppo verso la
soluzione, con un ritardo di anni.
bambini violentati e sottomessi senza arrivare al colpevole, per
trascuratezze nelle indagini che erano anche protezione di qualcuno.
bravi attori (il protagonista ha una somiglianza molto grande con Greg,
di Lillo e Greg), ritmo che ti cattura, una sceneggiatura implacabile, dello
stesso scrittore ne fanno un film che non dalude.
da non perdere - Ismaele
…All this time a mentally challenged suspect has been held as the alleged
Ripper. He has even confessed, which after police interrogation in Yorkshire is
a foregone conclusion. His guilt is convincingly challenged, which leads to a
reopening of the case, as well it might, because the murders didn't stop with
his imprisonment.
One wants to believe no police department in North America
has even been as corrupt as this one from Yorkshire. That may not be true, but
the chances of a television trilogy about it are slim. "Red Riding
Trilogy" hammers at the dark souls of its villains until they crack open,
and it is a fascinating sight. We're in so deep by the final third that there
can hardly be a character whose hidden evil comes as a surprise: Can innocence
exist in this environment?...
Anand Tucker, autore dell’ultimo episodio, scrive il senso
della trilogia Red Riding. 1983 ci
conferma alcuni dati come tratti distintivi dell’operazione, vedi le situazioni
sentimentali che si sviluppano sempre, inevitabilmente durante l’indagine:
approccio che vuole suggerire un parallelismo ideale tra morte e sentimento
(diversi personaggi, stessi scenari), sulla scia di un mistero che impedisce di
amare, finché non sarà sciolto non consentirà la realizzazione di coloro che lo
indagano…
… Anand Tucker lavora di fino nonostante il suo sia il film
meno indipendente della saga, un "Amabili resti" proletario e senza
paranormale, disgustoso ma puro di cuore proprio come alcuni dei suoi
personaggi. La giusta conclusione di una saga pessimista e disturbante in cui
ognuno, a suo modo, è carnefice di qualcun'altro. Fatta eccezione per i
bambini, loro sono l'unica metafora d'innocenza presente nell'intera opera, un
lieve raggio di luce in un buio indistricabile fatto di violenza e corruzione.
Discreto lo sviluppo narrativo, sufficientemente chiaro ed efficace nel tirare
le fila di una vicenda corale che coinvolge un intero stato. Buono il livello
di tensione e la prova del cast in cui si aggiunge Mark Addy. Fotografia e
musiche rimangono su un livello d'eccellenza e l'operazione "Red
riding" si archivia come una delle più interessanti e riuscite produzioni
televisive viste di recente. Come scritto all'inizio del viaggio: cinema per il
piccolo schermo.
da quivenerdì 6 dicembre 2013
Sanatorium pod klepsydra - Wojciech Has
un film tratto da una storia di Bruno Schulz, dentro ci sono la vita e la morte, i sogni, gli ebrei, l'amore, la comunità, la persecuzione, il padre, e la madre, e molto altro.
c'è un mondo dentro il film, che Wojciech Has dirige da fuoriclasse, e lo è senza dubbio.
uno di quei film difficili da raccontare, da vedere più di una volta per iniziare a capire qualcosa, ma lo sforzo sarà pienamente ricompensato.
certo che capire di sogni e psicoanalisi aiuta non poco, e comunque è una festa per gli occhi e per la mente.
da cercare, trovare e non perdere più, siamo ai piani alti del Cinema - Ismaele
c'è un mondo dentro il film, che Wojciech Has dirige da fuoriclasse, e lo è senza dubbio.
uno di quei film difficili da raccontare, da vedere più di una volta per iniziare a capire qualcosa, ma lo sforzo sarà pienamente ricompensato.
certo che capire di sogni e psicoanalisi aiuta non poco, e comunque è una festa per gli occhi e per la mente.
da cercare, trovare e non perdere più, siamo ai piani alti del Cinema - Ismaele
QUI
il film completo con sottotitoli in spagnolo
…Un joyau
qui s’inscrit dans l’unicité. Placé sous le signe du morbide, le film de
Wojciech Has nous renvoie à notre mortalité avec une mélancolie douloureuse et
absolument bouleversante, soulignée par une musique somptueuse, malheureusement
indisponible en CD. Les affiches cinéma polonaise et française, signées par
l’un des maîtres de l’illustration polonaise, Starowieyski, donnent un bel
aperçu de ce que ce long métrage peut offrir aux spectateurs qui ne redoutent
pas l’hermétisme. Les adeptes de Béla Tarr ou d’Andrei
Tarkovski apprécieront. On retrouve chez ces trois auteurs des
réflexions métaphysiques servies par des réalisations virtuoses où les décors
et l’esthétisme participent à la même émotion intellectuelle. Si Tarkovski est
toujours à la mode et le talent de Béla Tarr enfin reconnu, il est désolant de
constater que Wojcieh Has, qui fut peu actif après La clespydre, jusqu’à sa mort à la fin des années 90, soit aussi méconnu
du public contemporain français pourtant généreux et curieux…
…In the sanitarium, Joseph finds that Dr. Gotard is
maintaining his father's life signs by slowing down time. In fact, here time
has come to a full stop and has started to travel backward. Thus, Joseph is
able to revisit his youth in a Hasidic village. Not only are his old friends
and family there, but so are the Three Wise Men with advice on buying on
credit, as well as some samba-dancing, saber-wielding Haitian soldiers from his
boyhood fantasies.
Eventually, Joseph returns through
the corridors of time to the pedestrian present and crawls into bed with his
ailing father, who complains that his son has not visited him sooner. Childhood
memories fade as Joseph tumbles back through the Slavic looking glass to take
back the responsibility of middle age.
An exploration of immortality,
memory and the functions of psychoanalysis, "The Sandglass" pours out
its grains of wisdom in a deluge of ambiguity. Not for clock-watchers or fans
of quick pace or plot.
Our protagonist is on a train to go visit his sick
father. Apart from that very little of the plot can be known for certain. Time
is treated in a wild manner, where the past is visited and jumped through with
little more than a masked scene transition. We are inside our protagonist’s
memories, as people, moments, and historical events from his life return to
entice and haunt him. The subtext points towards the Holocaust, but there seems
to be more than that going on in this often traumatic, personal, surreal
adventure. Sexualised, voluptuous females bare their flesh with abundant and
bountiful cleavage. Nature intrudes into the buildings as vines wrap around the
walls and water drips continuously in the background. The cinematography is
atmospheric with its soft, dreamlike tracking shots and layered framing. The
soundtrack beats and shrieks, adding to the disorientation and uneasiness of
the fragmented narrative. It is almost Felliniesque in the way that characters
come and go and dreams and reality mix together whimsically.
The greatest glory of The Hour-Glass Sanatorium is the set design and use of
locations. The sets are complex, beautifully constructed and endlessly
detailed. They create an expansive, distinctive world that is rich with both
the beautiful and the decrepit. Subtle use of unnatural colour lavishes each wonderful
location. Characters have self-reflexive discussions about the nature of time
and memory, and the film has a strange obsession with birds. We are asked to
ponder just what is real and what is fake, and if it really matters in the
context of past events. There are mystical, playful scenes, such as a mannequin
tea-party, although that quickly turns eerie and frightening. There is a
strange sense of humour throughout the film, even as the tone shifts more
towards horror as danger sets in around our protagonist and his paranoia grows.
Everything is highly poetic, metaphoric and decorative. It is easy to get lost
in such an imaginative, surreal, deeply textured film, with an exceptionally
powerful, visually epic ending.
da
quimercoledì 4 dicembre 2013
La mafia uccide solo d'estate – Pierfrancesco Diliberto (Pif)
questo film è un oggetto strano, la storia di Arturo dentro una Storia più grande, che ci riguarda tutti.
le due storie insieme funzionano abbastanza bene e l'Arturo bambino è davvero bravo e spesso fa ridere, come fanno ridere i bambini quando vedono le cose con i loro occhi, non coi nostri.
il film è insieme un po' cinema civile, un po' di testimonianza (didascalica), un po' comico (amaro), non tutte le parti si fondono bene fra loro, e però il film ha una sua personalità e si vede bene.
è anche un'opera prima, non bisogna essere troppo ingenerosi, il tempo ci dirà se Pif ha stoffa davvero, o resterà un'opera unica.
è comunque un film che merita la visione, al cinema - Ismaele.
le due storie insieme funzionano abbastanza bene e l'Arturo bambino è davvero bravo e spesso fa ridere, come fanno ridere i bambini quando vedono le cose con i loro occhi, non coi nostri.
il film è insieme un po' cinema civile, un po' di testimonianza (didascalica), un po' comico (amaro), non tutte le parti si fondono bene fra loro, e però il film ha una sua personalità e si vede bene.
è anche un'opera prima, non bisogna essere troppo ingenerosi, il tempo ci dirà se Pif ha stoffa davvero, o resterà un'opera unica.
è comunque un film che merita la visione, al cinema - Ismaele.
…Perché quegli anni a Palermo in cui era quasi normalità un
morto al giorno, anche quasi sotto casa (Chinnici di fronte casa di mia nonna,
Giuliano di fronte casa della mia amica S., per non parlare del covo di Riina a
200 metri dalla mia), quegli anni in cui a scuola, nei momenti di noia,
contavamo le sirene della polizia, per non parlare di quel '92 in cui
scavalcammo i muri della cattedrale per assistere a un funerale inutilmente
blindato, li ho vissuti in pieno anch'io. E la cifra di Pif, la sua scelta di
una commedia surreale che si mescola e si trasforma continuamente in un
reportage fedele di quel periodo, mi ha conquistato. Andate a vederlo, cazzo.
…Il
film di Diliberto è un continuo crescendo di spessore e
di emozioni: comincia come una commedia sarcastica e surreale, finisce con la
macchina da presa che indugia sulle targhe che ricordano le vittime della
mafia. Non vi diciamo come mai, ma sappiate che difficilmente riuscirete a
trattenere le lacrime. Una volta si diceva che questi film erano necessari,
parola impegnativa che non abbiamo mai amato. Così come non ci sono mai
piaciuti gli insegnanti che fanno vedere i film nelle scuole (perché la cultura
non va imposta, semmai incoraggiata). Ma se per qualche titolo è doveroso fare
un'eccezione, questo è davvero uno di quelli giusti.
Mai fidarsi di quanto si dice e scrive di un film prima che
venga proiettato. Sarà un film da ridere sulla mafia, perché anche di mafia si
può ridere, che poi una risata li seppellirà tutti (i mafiosi). Questo più o
meno quanto si leggeva un po’ di qua e un po’ di là di La mafia uccide solo d’estate,
cine-esordio registico di Piefrancesco Diliberto in arte Pif (che si tiene per
sé anche il ruolo d’attore principale). Ridere e far ridere della mafia? Però,
mica robetta. Impresa che avrebbe fatto tremare anche titani come Billy Wilder
e Ernst Lubitsch. Poi, una volta visto, ti rendi conto che quello di Pif non è
il grottesco mafia-movie che ci si aspettava, o si temeva, ma una cosina
gentile e garbata, fin quasi all'evanescenza, che ha come primo obiettivo
quello di ricordare al mondo e agli spettatori, con intento
didascalico-didattico da cinema civile di una volta…
da quimartedì 3 dicembre 2013
Red Dust – Tom Hooper
opera prima di Tom Hooper, che ambienta il film in Sudafrica, nel pieno dei lavori della Truth and Reconciliation Commission.
torture, violenze, omicidi erano all'ordine del giorno nel tempo dell'apartheid, qui si racconta una storia dentro la Storia, con bravissimi e convincenti attori, inizia con la richiesta di clemenza di un aguzzino, le cose non vanno come previsto, si scoperchia un abisso e si fa verità e riconciliazione, ma sopratutto giustizia.
non mancano i colpi di scena, il film non annoia mai - Ismaele
torture, violenze, omicidi erano all'ordine del giorno nel tempo dell'apartheid, qui si racconta una storia dentro la Storia, con bravissimi e convincenti attori, inizia con la richiesta di clemenza di un aguzzino, le cose non vanno come previsto, si scoperchia un abisso e si fa verità e riconciliazione, ma sopratutto giustizia.
non mancano i colpi di scena, il film non annoia mai - Ismaele
…A
14 anni dagli eventi che sconvolsero per sempre la vita di Alex Mpondo (C.
Ejiofor), anche le sue ferite bruciano ancora e gli cagionano un dolore che
difficilmente potrà mai davvero essere lenito del tutto (men che meno con le
ricorrenti - quasi terapeutiche forse - nuotate nell’acqua ristoratrice di una
piscina). Ma dalle latebre di una prigione riaffiora un pallido “spettro”
pronto a mettere in discussione le fragili, dolorose, certezze della sua ex
vittima.
Red dust si rivela un gran bel film perché, pur senza rinunciare a fare uso della struttura narrativa (forse ostile ai più) tipica del genere “legal” (con annesso ligio rispetto dei suoi tempi e delle sue procedure) non mortifica mai il pathos evocato dalle storie narrate, ma ne esalta, anzi, i profili di convergenza verso sentimenti ben più nobili di quelli che per troppi anni sono esalati dalla rossa polvere sudafricana.
C’è sempre bisogno di film come questo; film che non cercano una plateale spettacolarizzazione della tragedia che esaminano, bensì la rielaborazione del dramma vissuto da un intero popolo, in funzione catartica; in funzione riconciliativa.
Red dust si rivela un gran bel film perché, pur senza rinunciare a fare uso della struttura narrativa (forse ostile ai più) tipica del genere “legal” (con annesso ligio rispetto dei suoi tempi e delle sue procedure) non mortifica mai il pathos evocato dalle storie narrate, ma ne esalta, anzi, i profili di convergenza verso sentimenti ben più nobili di quelli che per troppi anni sono esalati dalla rossa polvere sudafricana.
C’è sempre bisogno di film come questo; film che non cercano una plateale spettacolarizzazione della tragedia che esaminano, bensì la rielaborazione del dramma vissuto da un intero popolo, in funzione catartica; in funzione riconciliativa.
…Come
impianto è abbastanza classico,si sottolineano con enfasi le torture e i
personaggi sono abbastanza convenzionali. D'altra parte è vibrante,indignato a
volte sbanda per generosità .E'un film importante,più che bello necessario(io
ignoravo questa atroce commissione per evitare la guerra civile)…
Denso e commovente dramma giudiziario sul sud Africa
post-apartheid.
La storia è abbastanza simile al recente "In My Country" di John Boorman, ma è indubbiamente molto più riuscito. L'esordiente Hooper evita i momenti intimi tra i due protagonisti e una inutile storia d'amore e non scade nel sentimentalismo banale del film di Boorman.
In Più questo film ha dalla sua anche gli attori. Della brava Swank poteva essere approfondito meglio il suo passato e la sua storia.
Straordinario invece il protagonista, l'attore italo nigeriano che si era visto in "Piccoli affari sporchi" di Stephen Frears.
La storia è abbastanza simile al recente "In My Country" di John Boorman, ma è indubbiamente molto più riuscito. L'esordiente Hooper evita i momenti intimi tra i due protagonisti e una inutile storia d'amore e non scade nel sentimentalismo banale del film di Boorman.
In Più questo film ha dalla sua anche gli attori. Della brava Swank poteva essere approfondito meglio il suo passato e la sua storia.
Straordinario invece il protagonista, l'attore italo nigeriano che si era visto in "Piccoli affari sporchi" di Stephen Frears.
Chiwetel
Ejiofor's remarkable acting talents, not to mention his
super-sexiness, are on full display in this compelling film about a former
anti-apartheid activist and African National Congressman undergoing a Truth and
Reconciliation trial in South Africa. Ever-amazing Hilary Swank plays his attorney, and we're told that her
formative years in the grotesquely divided nation resulted in emotional scars.
But (after the undeniably powerful denouement) I found myself wishing that
director Tom
Hooper had shown us whether they were anywhere near as
profound as the physical marks Ejiofor had been forced to endure.
da qui
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