lunedì 7 aprile 2025

The Shrouds - David Cronenberg

la storia sembra semplice, un ricco vedovo, possiede, tra l'altro, un cimitero nel quale si applica una nuova tecnologia, degli avveniristici sudari (gli shrouds del titolo) che avvolgono i morti e consentono di monitorare il disfacimento dei cadaveri.

una profanazione delle tombe complica i piani e le aspettative del vedovo Karsh (interpretato da Vincent Cassel), che ancora è molto  legato alla moglie (un avatar di lei perseguita Karsh).

complotti e interventi ungheresi, islandesi, russi e cinesi rendono il film un po' dispersivo, ma Cronenberg è sempre un bel e inquietante vedere.

il film è solo in una trentina di sale.

buona (fortunosa) visione - Ismaele



 

 

 

 

The Shrouds sembra essere una summa del linguaggio plastico, della lungimiranza tecnologica, della poetica sulla trasformazione e sdoppiamento dei corpi che l’82enne regista canadese ricalibra continuamente ed ossessivamente da oltre cinquant’anni. Spassoso il cameo di Viggo Mortensen. Sublimi le parole del regista quando gli si fa notare di questo funereo espediente di un aldilà avveniristico e desacralizzato: “È molto interessante, perché spesso guardo i film per vedere persone morte. Voglio rivederle, voglio ascoltarle di nuovo. E quindi, in un certo senso, il cinema è una sorta di macchina avvolta dal sudario, una macchina post-morte. In un certo senso, il cinema è un cimitero”. Insomma quel Karsh siamo noi e non ci sono storie.

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Il lutto secondo Cronenberg è soprattutto assenza della carne e del contatto fisico, con l'elemento erotico come al solito messo in scena dal regista in modo simile a un rito catartico in cui gli individui si riconoscono al contempo al livello più basso come "sacche di carne" e a quello più alto di comunione cellulare e biologica.

Guy Pearce è come al solito perfetto nel ruolo consolidato del paranoide cospirazionista e offre la controparte caotica di Karsh: per l'uomo il lutto non è dato dalla morte o dalla fine di tutto, ma dal divorzio e dall'impossibilità di avere un corpo (quello di Terry) che vive il suo stesso mondo; per questo motivo Maury crea un suo mondo alternativo, non solo quello informatico che "abita" per lavoro ma anche quello paranoide di una cospirazione talmente intricata da far impallidire certi passaggi de Il pasto nudo.

Respingente e affascinante, avviluppato dalle partiture oniriche del fidato Howard Shore, The Shrouds conferma la volontà di Cronenberg di continuare a esplorare le infinite possibilità del reale, creando una fantascienza dell'anima che serve da specchio alla crisi dell'uomo moderno

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The Shrouds è un horror riflessivo e concettuale attraverso cui l'autore rielabora le sue principali fissazioni su mutazioni corporali, artificiali o naturali che siano, che sono da tempo assurte a presupposti più evidenti e puri, per quanto spesso ostici e sgradevoli, di un cinema di genere che ha saputo elevarsi dal mero sfruttamento commerciale a cui è destinata la quasi totalità della produzione concorrente.

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"In inglese, la parola ‘shroud’ designa il velo funerario, ma ha anche altri significati” - ha dichiarato David Cronenberg - “Può significare ‘coprire’ e ‘nascondere’.

La maggior parte dei rituali funebri riguarda proprio l’evitare la realtà della morte e ciò che accade a un corpo. Direi che, nel nostro film, questa è un'inversione della normale funzione di un sudario. Qui serve a rivelare, piuttosto che a celare.

Ho scritto questo film mentre affrontavo il dolore per la perdita di mia moglie, scomparsa sette anni fa. Per me è stata un’esplorazione, perché non si trattava solo di un esercizio tecnico, ma anche di un esercizio emotivo. In un certo senso, i sudari che il mio protagonista ha inventato sono dispositivi cinematografici. Creano un proprio cinema: un cinema post-morte, un cinema della decadenza. Prima di scrivere la sceneggiatura, ero consapevole che i sudari avessero un aspetto cinematografico, creando una sorta di strano ‘cinema della tomba’, un ‘cinema del cimitero’. In ‘The Shrouds’, si suggerisce che Karsh comprenda che nella sua creazione è coinvolta una tecnologia cinematografica, qualcosa di ricco e complesso."..

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…In questa storia Cronenberg si sofferma ancora una volta sull’importanza del corpo per raccontarci le fragilità della mente. Il desiderio di Karsh di rimanere accanto alla moglie e di poterla proteggere dalle tenebre della terra, l’immobilità della morte è apparente, perché il corpo continua comunque a trasformarsi. Via via che il tempo passa, il corpo si decompone mostrando sempre di più i segreti che vengono così allo scoperto. La profanazione delle tombe mette in luce quelle che sono le fragilità di una tecnologia che si mostra sempre meno sicura, ma che piuttosto si presta a complotti politico ambientali pericolosi.

Nel vedere il corpo decomposto della moglie, Karsh ne scopre anche le sue debolezze e riesce a prenderne il distacco per poter andare avanti con la sua vita. Il dolore iniziale per la sua perdita, il voler ostinarsi a rimanerle accanto, tanto da inventare un nuovo processo di tumulazione tecnologica, lo induce a rilassarsi sul suo stato di vedovo inconsolabile, a non cercare un contatto con l’altro sesso. Rebecca la prima moglie (un nome che non è sicuramente citato a caso) è diventata un simbolo da dover sgretolare per poter tornare a vivere, altrimenti il rischio è quello di vivere una vita falsata dai ricordi idealizzati o, peggio ancora, sognati…

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A leggere la maggioranza dei volenterosi recensori "free lance", e le pagine cartacee di questa rivista(in numero addirittura semi-monografico per il Maestro canadese), pare che "The Shrouds" debba solo ottenere consensi universali, ed essere elogiato immancabilmente come "Uno dei migliori film del 2025" da critici cinematografici delle rivista e dei siti, quelli sempre sul vento che tira, e che praticamente ti farebbero disgustare da ogni film e da tutto il cinema, anche quello-ancora poco- che realmente ti lascia qualcosa dentro. L'entusiasmo che circonda certi ex grandi registi ora bolliti come Cronenberg, prima Lynch, forse da ora in poi Nolan ecc., è solamente folle. 

"The Shrouds" è stato dichiarato da praticamente tutti di questi rivista, quelli pagati, "un autentico capolavoro", prima ancora di raggiungere il pubblico. È pericoloso quando un film raggiunge questo livello di grandezza, quando diventa troppo sacro per essere criticato…

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Impossibile non trovare qualcosa di interessante in The Shrouds. Il regista stesso e la sua filosofia, mutata e rinnovata nel corso degli anni, hanno ancora la capacità di farci riflettere attraverso qualcosa di respingente.

Se una volta i cambiamenti del corpo servivano a parlarci di una nuova vita, con questo film Cronenberg ci mostra come il cambiamento continua anche dopo la morte. Questo vale per chi non può vedere il proprio corpo sgretolarsi, ma anche per chi può ancora vedere e sceglie di farlo, per chi sceglie di assistere a quel cambiamento.

Un cronenberghiano Vincent Cassel impersona Karsh, un ricco vedovo che tenta di superare la morte della moglie defunta restandole morbosamente attaccato, sia fisicamente che emotivamente, cercandola e ritrovandola nelle donne che frequenta. The Shrouds si muove tra il concreto e l'onirico, mostrandoci la realtà attraverso gli occhi del protagonista.

È impossibile non trovare qualcosa di interessante nel film, il presupposto tiene in piedi tutto, purtroppo non per l'intera durata.
La sensazione è quella di assistere ad un trattato, ad un saggio visivo con un relatore accattivante ma egli stesso confuso. Prima viene introdotto l'argomento, poi veniamo trascinati dentro un complotto tra spie russe e intelligence cinesi, tra milionari ungheresi e santoni islandesi, che tutto fa tranne che approfondire il tema centrale...

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Ungheresi, islandesi, russi, cinesi, hacker, parenti acquisiti, donne che vissero due volte, avatar manipolatori, cieche d’oriente, tutti paiono avere qualche possibile motivazione o responsabilità. L’incedere però è purtroppo inerte e si finiscono per perdere le coordinate del racconto che scorre senza nerbo finendo irrisolto, senza che sia ben chiaro chi ha fatto cosa e perché e se ciò che si vede sia sogno, realtà o entrambe le cose. Senza però nemmeno che ciò interessi più di tanto. Chissà, forse l’idea di Cronenberg era proprio questa, accumulare ipotesi, sparigliare continuamente le carte, spiazzare senza un senso unico interpretativo, facendosi tramite del caos comunicativo contemporaneo. Il problema è che, qualunque sia la tesi, l’impasto non funziona e il film finisce per perdere per strada lo spettatore, a tratti ammaliato, ma complessivamente più annoiato che incuriosito.

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sabato 5 aprile 2025

Paghe basse, sfruttamento e censura. Che cosa c’è dietro il successo delle serie tv turche - Murat Cinar

 Le produzioni televisive della Turchia hanno superato i confini nazionali raggiungendo 146 Paesi, dall’America del Sud all’Asia e dall’Africa all’Europa, per un mercato che ha toccato il miliardo di dollari. Ma il sistema produttivo è ancora immaturo ed espone gli attori e i lavoratori a turni estenuanti, paghe basse e set pericolosi. Mentre i controlli sono inesistenti il governo cerca di influenzarne i contenuti. Il racconto della sceneggiatrice Ayfer Tunç.


Le serie televisive turche hanno ormai conquistato un pubblico vastissimo, raggiungendo 146 Paesi, dall’America del Sud all’Asia, dall’Africa all’Europa. Secondo la Bbc, nel 2023 questo mercato avrebbe raggiunto un valore pari a un miliardo di dollari. Il successo mondiale delle serie tv turche è però solo la punta di un iceberg che cela un sistema di condizioni economiche ingiuste, ritmi di lavoro insostenibili e una censura molto diffusa. 

In un articolo di approfondimento realizzato dalla critica televisiva Sina Kologlu, nel 2022 risultavano attive 45 case di produzione con circa 150 registi che operano esclusivamente nel mondo dello sviluppo delle serie tv in Turchia. 

L’aumento della produzione e l’espansione del mercato risalgono all’inizio degli anni 2000. Le produzioni trovano spazio sia nei canali statali sia in quelli privati e ultimamente soprattutto all’estero. 

Ayfer Tunç è una delle sceneggiatrici più importanti del settore. Ha iniziato la sua carriera quasi 20 anni fa con la serie “Binbir Gece” (“Le mille e una notte”), poi ha scritto 14 libri e le sceneggiature di tre film e 17 serie televisive. I suoi sceneggiati hanno conquistato centinaia di milioni di persone nel mondo. “Sono stata invitata in Cile per ricevere vari premi e ho conosciuto dei genitori che hanno chiamato i loro figli Onur o Şehrazat, ossia i protagonisti della serie ‘Binbir Gece’, per la quale ho lavorato per tre anni”, racconta ad Altreconomia

Secondo Tunç la chiave del successo delle serie turche non è una sola: “Prima di tutto, a livello ambientale, in Turchia offriamo delle produzioni molto particolari. Le nostre serie non si svolgono soltanto negli interni ma anche all’esterno, quindi chi guarda ha l’occasione di conoscere le strade, le persone, i colori e i suoni di città che non ha mai visitato”. Infatti, negli ultimi anni, anche grazie alle serie turche, è iniziata da diverse parti del mondo un’ondata di turismo televisivo verso la Turchia. Tunç fa notare che si tratta di un fenomeno per certi versi settoriale: “Le persone decidono di venire a Istanbul, per esempio, proprio per vedere quei luoghi in cui gli episodi sono stati girati”. 

Un altro punto di forza delle serie turche è la struttura drammatica delle sceneggiature. “Le emozioni vengono vissute in modo spettacolare in queste produzioni. I conflitti, gli innamoramenti o le esplosioni di rabbia, tutto è superlativo. Quindi chi guarda si sente assolutamente coinvolto, molto di più rispetto agli sceneggiati europei”, spiega Tunç, sottolineando che non tutte le serie vengono preferite dagli stessi mercati. “Proprio per via di questa particolarità, forse i mercati più difficili sono quello statunitense e quelli dell’Europa centrale e nordica. Invece, nella fascia mediterranea, in Nord Africa e in Sud America, abbiamo un riscontro straordinario”. 

Il giornale online turco Gazete Oksijen riporta che in Europa il secondo mercato più importante per le serie turche, dopo la Spagna, è proprio quello italiano. All’interno della ricerca realizzata dal giornale nel maggio 2023, solamente la serie “Bir Zamanlar Çukurova” (“Terra amara”) in Italia inchioda davanti agli schermi due milioni e 700mila persone. Si tratta di una produzione entrata nel mercato italiano nel 2022, anche se era stata prodotta in Turchia quattro anni prima. 

La sceneggiatrice della serie “Terra amara” è sempre Ayfer Tunç e sostiene che il successo turco in Italia abbia diverse ragioni: “In Turchia ogni puntata dura 150 minuti, ma in Italia viene servito un format diverso, secondo gli standard del mercato. Quindi ogni puntata si riduce a 25 o 30 minuti. Così facendo abbiamo ottenuto 667 puntate. Si tratta di una quantità decisamente elevata, quindi lo spettatore si affilia fortemente alla serie. Inoltre, in Italia, come nel resto del mondo, le nostre serie vengono apprezzate perché hanno un taglio conservatore. In quelle statunitensi c’è sempre un piccolo ‘pericolo’. Nelle serie turche il sesso è quasi inesistente e il bacio dura poco. Quindi sono adatte per le famiglie. Penso che anche per questo in Italia abbiano trovato un riscontro popolare”. 

Nonostante i numeri giganteschi e una carriera che cresce sempre di più in questi ultimi 25 anni, Tunç specifica che è difficile parlare di una vera industria quando si tratta delle serie turche: “Il settore ottiene un ricavato che si avvicina molto a quello statunitense. Tuttavia, per arrivare a quel punto, è stato adottato un sistema di produzione straordinario. Per esempio, io scrivo ogni settimana per circa 150 minuti e all’anno per 35 puntate. Ciò che scrivo io in un anno corrisponde al lavoro di 17 anni degli sceneggiatori della Bbc. Inoltre, per la vendita all’estero, spezzando le puntate, una serie da 100 puntate ‘turche’ diventa da 300 per l’estero”. Questo sistema di produzione e ricavi ottenuti da fuori dalla Turchia, secondo Tunç, soprattutto tenendo in considerazione le caratteristiche dell’economia turca, porta un notevole guadagno al settore, ma ancora non si può parlare di un sistema che funzioni in modo sano e giusto per tutti. 

Infatti negli ultimi anni con la crescita sfrenata delle produzioni sono emersi diversi problemi, tra cui gli incidenti sui set. Numerosi giornalisti hanno riportato condizioni di lavoro ai livelli di un vero e proprio sfruttamento diffuso. I salari bassi, le misure di sicurezza precarie e le ore di lavoro insostenibili hanno spinto diverse persone che lavorano nel settore a unirsi nel 2010 per intraprendere le prime lotte e nel 2011 è stato fondato il primo sindacatolOyuncular Sendikası (il sindacato degli attori). 

Il sindacato segue i lavoratori impiegati sui set, sul palco e negli studi. Tra le principali campagne che porta avanti c’è quella di creare uno standard nazionale del lavoro e la lotta contro quello minorile. Ufuk Demirbilek, regista e membro del sindacato, in un’intervista rilasciata a Euronews nel 2022 raccontava così le condizioni di lavoro durante le riprese delle serie turche: “Per una puntata da 120 minuti si lavora sul set per 17 ore, con condizioni di sicurezza molto precarie e controlli inesistenti. Spesso ci sono lavoratori senza contratto e sottopagati. Inoltre, ci sono notevoli ritardi nei pagamenti”. 

Un altro aspetto che ci aiuta a capire il funzionamento del sistema è il ruolo dei produttori. Ayfer Tunç riporta che sono principalmente i canali televisivi turchi, privati o statali, e il funzionamento del sistema si basa su una valutazione molto parziale: “I canali misurano in continuazione l’audience, ma esclusivamente in riferimento alla Turchia e non all’estero. Quindi, se una serie funziona male a casa, è probabile che il canale produttore la interrompa subito, anche se magari all’estero grazie questa serie lo stesso canale guadagna molto. Infatti sappiamo che i canali non ricavano abbastanza dalla vendita domestica, anzi le loro principali risorse provengono dall’estero. Inoltre, lo spettatore in Turchia ormai guarda meno la televisione e più la rete, e per questo i ricavi pubblicitari televisivi domestici sono sempre più bassi. È un sistema che funziona male, per questo servono regole rigide che oggi non esistono”. 

A questo punto le piattaforme online potrebbero essere una soluzione per il futuro delle serie turche, soprattutto considerando che, secondo i dati del World Population Review, l’uso della rete in Turchia raggiunge l’87% della popolazione, superando India, Nigeria, Messico, Belgio e Italia. Tuttavia, Tunç sottolinea che al momento non si può parlare delle piattaforme come di un mercato alternativo: “Prima di tutto, ci sono pochi iscritti alle piattaforme a pagamento (nel 2024 Netflix Turchia dichiara due milioni di utenti su una popolazione pari a 85 milioni). Poi le grandi piattaforme scelgono solo determinati tipi di serie. Infine, queste realtà trattengono una percentuale che, con le condizioni attuali, è insostenibile per il mercato”. 

Infine, la censura e l’autocensura. Le serie turche, nonostante il loro successo globale, non parlano di politica, non avanzano mai critiche contro il governo e spesso promuovono l’uso della violenza. Il tema ha trovato ampio spazio in una relazione parlamentare presentata nel 2019 dalla deputata Gamze Taşcıer, del partito d’opposizione Cumhuriyet halk partisi (Chp): “La pagella della violenza delle serie tv”.

Secondo la ricerca condotta da Taşcıer, in alcune serie ogni puntata presenta in media 20 minuti di violenza fisica e 41 minuti di violenza psicologica. Ayfer Tunç evidenzia che c’è una notevole limitazione della libertà di espressione nel mondo delle serie televisive: “La censura esiste, così come gli interventi politici sulle serie. Esiste l’ente RTÜK che regolamenta la censura e sanziona le trasgressioni. Noi ormai quando scriviamo non pensiamo assolutamente ai contenuti politici, altrimenti rischiamo. Tuttavia le scene con le pistole sono ben accette. Fino a qualche anno fa la critica politica era più libera, ma oggi non ci pensiamo minimamente. L’autocensura è ormai più presente della censura stessa”. 

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venerdì 4 aprile 2025

I fantasmi d’Ismael - Arnaud Desplechin

un film con un altro film all'interno, quello che ha scritto Ismael, su un atipico diplomatico francese e la sua fidanzata.

Ismael è un vedovo da anni e trova la sua anima gemella, ma riappare al sua ex moglie e le cose si complicano.

attori bravissimi, un film da non perdere, promesso.

buona (fantasmatica) visione - Ismaele

 

 

 

 

(Im)perfetto. È proprio così I fantasmi d’Ismael (Les fantômes d’Ismaël). Un film (im)perfetto.
Desplechin continua a mescolare le stesse carte, a ruotare attorno a ricorrenti centri gravitazionali: il cinema, la scrittura, l’arte, la vita, l’amore, la famiglia. La rappresentazione di quello che siamo. Un eterno ritorno, un insieme di rimandi interni alla sua filmografia. Ovvero, a se stesso, a questo cinema così personale. Vitale. Universale.
Il cinema di Desplechin cerca di catturare l’energia che ci tiene in vita, cerca di darle una forma sul grande schermo. Un senso, un barlume di ragione. Una sfida impossibile: I fantasmi d’Ismael è squilibrato, vive di sussulti, di vitalissimi strappi, di emozioni intense e di cadute e ricadute. Cinema di fantasmi e di incubi, di passioni e amori caotici. Un film di scrittura, disordinata e creativa. Ordinata e distruttiva.

È una spy story I fantasmi d’Ismael. Almeno nei primissimi minuti. Ritroviamo un (misterioso) Dédalus, in un racconto che è sfacciatamente fiction. E poi le scartoffie che vorrebbero sostituirsi alla vita e alla morte, come era già successo al Dédalus di Trois souvenirs de ma jeunesse. Ma la vita e la morte non si lasciano cristallizzare dalle parole, da un racconto, nemmeno da una sceneggiatura. Forse si possono solo evocare, come i fantasmi, come gli amori passati, come le vite che abbiamo vissuto, pensato, immaginato. I fantasmi d’Ismael non è una spy story, nonostante il Quai d’Orsay, le cimici, il Tajikistan e l’amico russo. È un film di fantasmi, di rimpianti, di incubi.

Desplechin si specchia, non teme le sabbie mobili dell’autoreferenzialità, ragiona sulla sua vita, sulla sua arte. Come i noir degli anni Quaranta/Cinquanta, I fantasmi d’Ismael è una seduta psicanalitica, è la messa in scena di processi labirintici, di meccanismi che non possono essere completamente decriptati. Desplechin scrive e prova a dare forma alla battaglia della ragione e dei sensi. È Ismaël alla prese coi fili e le prospettive, con quadri che dovrebbero restituire il tutto, il senso della vita e del cinema.
I fantasmi d’Ismael è intricato e leggiadro.
È passionale e disperato.
È spassoso e dispersivo.
Alti e bassi, con improvvise fiammate. Cinema vivissimo, che nutre e si nutre del talento e dei corpi di Mathieu Amalric, Marion Cotillard e Charlotte Gainsbourg.
Cinema che si nutre della stessa vita che insegue.

I fantasmi d’Ismael è un piccolo paradosso cinematografico. Come Ismaël, Desplechin è intrappolato, si è perso tra i mille fili che ha cercato di riordinare. I fantasmi d’Ismael è un film su questa impasse, ma è proprio la (caotica) messa in scena dell’impasse ad alimentare la vivida fiamma della vita. Quella stessa vita che ha guidato i vari personaggi, come la donna che visse due volte Carlotta, come l’uomo che sapeva troppo Ivan.
Ancora, ancora, ancora. Lo dice Ismaël, lo dice Amalric, lo dice Desplechin. Ancora è la chiave di lettura de I fantasmi d’Ismael, di questo cinema che non smette di cercare, di indagare, di insinuarsi attraverso la finzione o il documentario nelle pieghe della vita, e quindi del cinema stesso. Imperfetto, senza dubbio. Ma vivo e pulsante come gli occhi di Ismaël/Amalric, di un personaggio e del suo interprete. Finzione e realtà. Ancora fantasmi, ricordi, amori che tornano e che se ne vanno. Ancora.

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…Ismael se encuentra realizando un filme sobre un personaje llamado Ivan Dedalus, que es, quizás, un espía insomne. El propio Ismael, a su vez, no puede dormir en las noches y es la hora en la cual tiene sus momentos de mayor creatividad, solo que en el momento en que nos lo encontramos, está en crisis de imaginación. Su esposa lo abandonó hace veinte años y ha mantenido una relación paterno-filial con su suegro, otro director de cine llamado Henri Bloom, quien ha sido, además, su mentor artístico. Bloom no se ha podido recuperar de la pérdida de la hija, a la cual Ismael ha tenido recientemente que declarar oficialmente muerta. Ismael comienza una relación con Sylvia, una astrofísica que conoce en una fiesta y se la lleva a su casa frente al mar para ver si esto le devuelve la creatividad. En medio de ello, reaparece Carlota, su esposa desaparecida, creando un frágil triángulo de una manera tan natural como incoherente. Ismael comienza a rozar los límites de la locura, se ahoga en alcohol y confunde cada vez más su vida con la de sus personajes.

Dedalus, Bloom, los nombres invocan a Joyce y las pesadillas parece que nos van a llevar a una epifanía, que para el escritor irlandés era el propósito de la obra de arte, pero desgraciadamente, Desplechin deja correr lo que se convierte en un monólogo joyceano que resulta todo un despropósito...

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Arnaud Desplechin sait sublimer l’esthétique de certains de ses plans. Il s’amuse pour ce faire à utiliser les codes artistiques d’un vieux polar, comme dans la scène où il filme Mathieu Amalric  dans un vieux train en proie à ses cauchemars. Le film a également quelques moments insolites, surtout vers la fin lorsque le réalisateur se déride un peu de son savoir-faire classique et qu’il fait rire le spectateur…

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Procede per accumulo, Les Fantômes d’Ismaël. Somma, taglia, ricuce, svolta, ritorna. Come gli anni che passano, come una gravidanza inizialmente scambiata per menopausa, come un film da finire, come un eccesso di entusiasmo quando hai in mano una pistola. Ancora, come le donne che Pollock non ha mai avuto ritratte tutte insieme nei suoi nudi femminili, ancora, come il corpo nudo di Marion Cotillard quando lentamente scende la vestaglia, ancora, come l’amore di Charlotte Gainsbourg negli incroci di lacrimati sguardi e nella passione, nella sua voglia di capire le stelle. Les Fantômes d’Ismaël è un film di scrittura e di messa in scena, fatto di lente aperture a iride quando partono i flashback narrati da Sylvia, fatto di scavalcamenti di campo che genialmente si rivelano uno specchio, fatto di musiche incalzanti, di slabbrature, di ellissi, di finestrini dei treni che si rivelano altri schermi, materia, riflessi, proiezioni. Sono confessioni alla macchina da presa, (psic)analisi, bidimensionalità e fisicità del set, delle diapositive, dei quadri, delle inquadrature, delle tecniche cinematografiche, dei sentimenti. Fino alla fuga dall’industria, dal set, dalla vita, quando le ragioni del cuore (straziato) superano quelle della mente. Il nuovo lavoro di Desplechin è un film in cui non è necessario che torni tutto – anche se, su questo punto, pesa il dubbio sulla doppia versione del lungometraggio, presentato a Cannes in una durata di 114′ mentre si vocifera che in sala uscirà direttamente il Director’s cut da circa due ore e un quarto –, quello che conta è interrogarsi sulle mille tematiche affrontate, è perdersi nei suoi cambi di registro e di stile, è tastare le emozioni di chi ha perso una moglie, di chi ha perso una figlia, di chi ha perso la ragione, nei rapporti di coppia, nei doppi, nel cinema. E poco importa, nella meta-messinscena, che nella Praga sovietica una tangente venga pagata in Euro, poco importa che non tutte le fila narrative e concettuali trovino assoluta compiutezza, poco importa se non tutto ciò che il film semina viene raccolto: non è più la compattezza di Trois souvenirs de ma jeunesse il punto, quello che conta qui è la suggestione, il mistero, l’emozione, perché la vita non è perfetta e l’atto stesso del cinema non può che compiersi nell’imperfezione. E diventa quindi necessario l’overacting del produttore, perché non conta la credibilità assoluta, e forse neanche le dinamiche personali: quello che conta è la vitalità di una realtà/cinema che inesorabilmente fa il suo corso, fra i dialoghi in comune nelle varie storie parallele e le variazioni sui temi autobiografici. Les Fantômes d’Ismaël è un film inclassificabile, sfilacciato, complesso: un frullato di generi e abbracci dal quale traspare una fisica umana incontenibile. Come la danza di Marion Cotillard sul Bob Dylan di It ain’t me Babe, come le destinazioni esotiche di Dedalus e le microspie, come il ritrovarsi, il perdersi ancora, come morire con la propria figlia a fianco. Come un’ecografia e un’attesa spasmodica. Come fare cinema, o fare l’amore. Ancora, ancora, ancora.

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La macchina fluida e pudica – c’è sempre una distanza di rispetto con i personaggi – manovrata da Desplechin coglie ogni sfumatura, tutto è credibile, dubbi, angosce, tormenti tremiti e fremiti, e grazie a Dio dialoghi belli e di massima naturalezza anche in una materia perigliosa e a rischio costante di kitsch come questa. Con un continuo retrogusto pirandelliano su chi sia davvero la Donna Riapparsa (siamo un po’ dalle parti dell’Ignota di Come tu mi vuoi, e questi pirandellismi Desplechin li sa maneggiare assai meglio del Derek Cianfrance di La luce sugli oceani). Hitchock abbonda in un nugolo di citazioni, e se le paure di Sylvie di fronte a Colei-che-è-tornata sono puro Rebecca la prima moglie, la doppia vita di Carlotta non può che ricordarci Vertigo. Si gioca ancora tra realtà e rappresentazione nella storia di Ivan che si fa film, confondendo volutamente, soprattutto all’inizio, vita e set. Con un Desplechin che si avventura, nel raccontare le giravolte esistenzial-professionali di Ivan, in una spy story che però resta aperta, e non saldata al resto del film, che non trova una conclusione e non dà risposte, frustrando lo spettatore. Ma in questo strambo, sghembo film c’è troppo di bello perché lo si liquidi – con la solita supponenza da festival – come una bufala. Film complicato perché volutamente, e voluttuosamente, anarchico e irregolare. Mathieu Amalric è da tempo l’attore feticcio di Desplechin, e non poteva che essere lui Ismaël, quasi un alter ego del regista. Il suo, se certi paragoni son leciti, Antoine Doisnel. Riferimenti alle appartenenze religiose dei personaggi, come spesso in Desplechin, attento a tracciare le sue geografie umane tenendone conto, ed è tra i pochissini con una tale sensibilità. E se Sylvie, il personaggio di Charlotte Gainsbourg, si dichiara protestante, Carlotta si dice ebrea ‘rinnegata’ (e portava al collo una stella di Davide la Emmanuelle Devos di Racconto di Natale).

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mercoledì 2 aprile 2025

El autor (Il movente) - Manuel Martín Cuenca

il film sembra comico, ma solo in parte, la realtà è tragicomica.

Javier Gutiérrez (già protagonista di Non ci resta che vincere e La isla minima, fra l'altro) è il bravissimo Alvaro, autore che scrive osservando quello che succede intorno a lui, all'inizio, e poi quello che lui fa succedere.

una sceneggiatura senza pause non fa annoiare un minuto e Alvaro scrive, scrive, come una droga.

un film da non perdere, promesso.

buona (letteraria) visione - Ismaele

 

 

 

Il protagonista di El autor è quindi un tipo invidioso, ambizioso e in crisi: professionale, esistenziale e di coppia. Un personaggio con tutti gli ingredienti per far piangere il pubblico, e che invece, con l’umorismo nero che distilla il film di Martín Cuenca, lo fa ridere: non solo si ride della sua goffaggine, della sua meschinità e delle sue manipolazioni, ma anche perché è facile riconoscervi la bassezza di ciascuno di noi. Siamo tutti Álvaro: sognatori, stupidi, audaci e ossessivi. Perché… chi non ha mai sognato di superare il prossimo, a qualsiasi prezzo?...

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Dentro c’è un po’ di tutto da Manhattan di Allen a Delitti e segreti di Soderbergh, da Il ladro di orchidee di Jonze a Vero come la finzione di Forster. Il tutto condito con una spruzzata di Polanski che non fa mai male. C’è inoltre un vago rimando metacinematografico a Le vite degli altri, ilm del 2006 di Florian Henckel von Donnersmarck di cui Manuel Martín Cuenca attinge nella fisicità del suo protagonista, uno straordinario Gutiérrez (già visto ne Crimen perfecto e La Isla Minima) che allude e non poco al compianto Ulrich Mühe nel celebre film tedesco.

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Film dalla trama metaletteraria alquanto originale presa in prestito da un romanzo di Cercas, che quando si tratta di giocare con le pagine bianche ancora da scrivere non è secondo a nessuno. Il piccolo Alvaro si affanna per cercare di acchiappare l'essenza dell'essere scrittore "de verdad", tanto che finirà per mischiare pericolosamente realtà e finzione. Regia senza fronzoli, buona prova di Gutiérrez. Se non fosse per il ritmo un po' troppo blando e perché si letteralmente sprecata la location sivigliana si potrebbe anche dare una mezza palla in più.

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El Autor es una película excepcional, uno de los mejores títulos españoles en lo que llevamos de año que te atrapa de principio a fin y no te suelta. La película consigue a través de unos giros sorprendentes hipnotizarte como hacia tiempo que no sentíamos y según avanza el film la intriga consigue meterse en el cuerpo creando una sensación de malestar hasta llegar a agobiar. La mediocridad es parte principal del film donde todos los personajes rebosan  imperfección  y conocedores de ello intentan sacar el máximo provecho manipulando al que tienen al lado. Todo ser es despreciable, unos más que otros, y se fuerza al máximo para que los hechos ocurran como algo natural  pero con un único propósito.

Manuel Martín Cuenca es un director de actores y quedó demostrado en Caníbal pero aquí en El Autor es todavía mas evidente con un Javier Gutiérrez que simplemente está soberbio y es el máximo candidato desde ya a llevarse todos los premios gordos del cine español. El actor asturiano es el alma del film esos no hay lugar a dudas sin el la película no seria la misma pero seria injusto no resaltar a los actores que acompañan la película como son Antonio De La Torre y sobre todo la revelación de la obra como es Adelfa Calvo.

En El Autor todo es maravilloso gracias a ese personaje ruin y malvado que a pesar de todo a veces empatizas y solo unos giros finales hacen que no estemos ante un guion y montaje perfecto.

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El filme tiene detalles sencillos pero ingeniosos, como tener de oído el baño de Álvaro que da a la cocina de una pareja de inmigrantes mexicanos, interpretados por Tenoch Huerta y Adriana Paz. En la pared observamos las conversaciones de la pareja, siluetas, sombras, a punto de convertirse en personajes de la obra magna de Álvaro. A medida que sabe más de sus vecinos y lo transcribe empieza a ser felicitado por éste demonio instigador que es el profesor de literatura, que valga la curiosidad tiene cenas opíparas que suelen acompañar éstas tertulias…

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lunedì 31 marzo 2025

Nonostante – Valerio Mastandrea

siamo nel limbo prima della morte definitiva.

nell'ospedale, dove quasi tutto il film è girato, convivono i malati, compresi quelli in coma, che sono i più vicini alla morte.

le anime dei malati in coma vagano, si conoscono, addirittura provano sentimenti che confinano con l'amore.

il film è questo, anime in volo, senza peso, come i personaggi dei quadri di Chagall, in attesa di uno sviluppo, quasi sempre tragico.

non c'è molto da ridere, solo da soffrire e sperare insieme ai personaggi.

un film da non perdere, con meno copie di Biancaneve e Follemente, ma un ottantina di cinema lo programmano, per fortuna.

buona (chagalliana) visione - Ismaele

 

 

 

 

È un film su cui aleggia lo spettro della morte, certo, la linea verticale della malattia. E soprattutto il terrore della perdita definitiva, quello della memoria che trascolora nell’indistinzione dell’oblio. È l’affanno del protagonista, che vuole lasciare una traccia impossibile nel suo nuovo amore e che rivede in questa condanna alla dimenticanza il riflesso di suo padre in riva al mare. Ed è significativo che Mastandrea dedichi il film al padre Alberto, scomparso nel 2014, a riprova di come questi argomenti non siano delle semplici tesi astratte. Eppure, nonostante questo, non si tratta di un film lugubre, funerario. Tutt’altro. Sin dalla scena iniziale, in cui Mastandrea attraversa gli spazi dell’ospedale in un movimento continuo che sembra suggerire le traiettorie di un musical, il film è animato da uno slancio, da un’urgenza di vita irriducibile. Quando nell’ultima scena, il medium involontario Giorgio Montanini chiede “Da dove comincio?”, Dolores Fonzi, da poco risvegliatasi dalla sua bolla, risponde: “Conviene sempre dalla fine”. Perché l’epilogo è fondamentale, sì, ma poi occorre risalire nella storia, ritrovare tutto un flusso infinito di cose, di sensazioni ed emozioni, di sentimenti accolti o fuggiti. È chiaro che in questo flusso si possono perdere le coordinate, gli equilibri, il baricentro. Ma è così che va la vita, forse. Va oltre la possibilità e la volontà di un controllo, oltre le difese e le abitudini. Chiede ogni tanto, l’assunzione di un rischio, un salto in lungo che assomiglia a un salto nel vuoto. Anche con l’affanno, con la disperazione, la paura. Qualcosa da fare, anche se non si sa esattamente il motivo, solo per rispondere all’imperativo di un sentimento. Ed è esattamente il rischio che si prende Valerio Mastandrea. Il suo film può mostrare ingenuità, difetti, impasse, giri a vuoto, ma ha il coraggio e la sensibilità di liberarsi, di volare in alto. Di tornare a vivere a cuore aperto.

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…Il "Ghost" di Valerio Mastandrea è in balia del fato, di risvegli improvvisi ed indesiderati, di morti inaspettate e irragionevoli ma ciò che più mi ha colpito dell'interpretazione che il film dà dei misteri dell'esistenza è la forza con cui il sentimento irrompe nei cuori. L'amore scardina convinzioni ed abitudini e spinge a spiccare il salto anziché fermarsi per paura sulla linea bianca dello stacco, linea dietro alla quale il piede dovrebbe inarcarsi lasciando esplodere, finalmente, l'energia di un balzo. Quante volte vediamo il "Lui" di Mastrandrea provare qual gesto e poi fermarsi di fronte alla sabbia, intimorito dalla felicità dell'abbandono?

Personalmente ho apprezzato questo film sia per la delicatezza dell'autore sia per motivi personali. Diciamo pure che mi sono sentito in coma per troppi anni, incapace di scrollarmi di dosso abitudini e illusorie certezze per spiccare il salto nel vuoto. Salto che infine è arrivato, elastico ed energico, nel momento in cui un'ospite improvvisa si è impossessata della mia "stanza d'ospedale" mettendola a soqquadro. Sentire il proprio animo volare in una danza di emozioni è stato un attimo ed è ancora emozionante dopo tanti anni.

Il "Ghost" di Valerio Mastandrea ha la sua Whoopi Goldberg, un medium che lavora in ospedale e mette il mondo dei vivi in comunicazione con quello dei "non vivi". Il suo compito è fondamentale nel racconto, fondamentale come l'innamoramento, che altrettanto irrazionale ed inspiegabile congiunge gli amanti in un solo essere, senza logiche apparenti, senza spiegazioni plausibili, senza perché rasserenanti. L'amore obbliga a giocare a carte scoperte e ribaltare le regole della ragione. "Nonostante" ci prova con il linguaggio simbolico dell'uomo che muore all'apatia per risvegliarsi, si spera, all'interno della dimensione intima ed accogliente di una storia d'amore. La speranza c'è ed è per tutti. 

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…A partire da una trama non troppo originale, il film racchiude tutta la brillantezza nel modo fantasioso di rappresentare la morte. Quando gli alter ego attivi dei personaggi in coma si avvicinano a qualcuno che sta rischiando di morire vengono travolti da una bufera di vento. A quel punto devono ancorarsi saldamente a qualcosa o qualcuno, ovvero tenersi forte alla vita.

Il ricorrere delle folate di vento assomiglia agli estratti di musica classica che, in Figli, venivano fatte risuonare quando i neonati iniziavano a piangere disperatamente. La trama realistica, con questa trovata, si fa fantastica – a tratti onirica. Come direbbe Dino Buzzati, attraverso la fantasia “si intensifica il concetto” della morte e della vita. Una versione della copertina del film, non a caso, vede Mastandrea tenere salda Fonzi che fluttua in aria, imitando il quadro La passeggiata di Marc Chagall. È un’immagine vincente perché esprime la commistione tra concretezza reale e fantasia impossibile che dà la cifra più brillante e vincente a NonostanteUn approccio poetico alla narrazione della morte, che fa sorridere anche quando sta accadendo qualcosa di propriamente triste…

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Il registro espressivo si apre così a una serie di libertà che altrimenti sarebbe stato più arduo maneggiare, anche se sotto il punto di vista strettamente narrativo Mastandrea e il suo co-sceneggiatore Enrico Audenino (già al lavoro su Ride) scelgono di non allontanarsi mai dalla prassi, e soprattutto dalle regole. Ed è questo uno degli elementi che contribuiscono ad appesantire la visione di Nonostante: se la scelta della classicità permette una pulizia del racconto esemplare, spingendo lo spettatore verso un canovaccio che già conosce, e può dunque affrontare semplicemente, la pressoché totale mancanza di scarti rendono il film prevedibile, senza che la verve di un gruppo di attori affiatato sia in grado di ravvivare l’interesse per vicende che si sa già dove andranno a parare, in un modo o nell’altro. Anche l’irruzione in scena di un personaggio femminile che fa breccia nel cuore di Mastandrea, costringendolo per la prima volta a riflettere con serietà sul suo ruolo “inanimato”, appare meccanico, come se fosse indispensabile oliare gli ingranaggi di quando in quando. Lo certifica anche la necessità di ricorrere a una figura pienamente viva, un uomo (Giorgio Montanini) che chissà perché e per come riesce a percepire la presenza di queste anime in attesa, e a parlarci: deus ex machina fin troppo esibito, nonostante un ingresso in scena roboante – canta al microfono Non voglio mica la luna, portata al successo da Fiordaliso – si tramuta a sua volta in un personaggio ovvio, cui verrà riservato il compito che è poi l’interrogativo dell’intero film: cosa lasciano dietro di sé le persone che non sono ancora morte ma non possono relazionarsi con i viventi? In questa riflessione sulla morte, sulla sua (non) accettazione, e su cosa significhi “sentirsi vivi” Mastandrea non riesce a infondere la vita, se non dovendo ricorrere alle sue arcinote qualità attoriali. Si percepisce l’apprezzabile volontà di ricercare una leggiadria in aperta opposizione all’ambientazione ospedaliera, e se si fosse osato di più attraverso il grottesco forse alcuni dei passaggi a vuoto del racconto sarebbero stati compensati. Si ha l’impressione che Mastandrea possegga un proprio sguardo, o sia almeno agitato da sussulti e ossessioni non necessariamente conformi alla prassi, ma deve ancora trovare la quadra del proprio discorso espressivo, tra uno svolazzo poetico e una battuta sapida.

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domenica 30 marzo 2025

Berlino, estate '42 - Andreas Dresen

A un gruppo di giovani antinazisti che inviavano segretamente messaggi in Unione Sovietica la Gestapo diede il nome di Orchestra rossa.

Il regista segue tutti, ma sopratutto il martirio di Hilde Coppi nella sua permanenza in prigione, dove partorì un bambino, Hans.

Hilde finirà ghigliottinata come tutti gli altri, come negli stessi anni accadde al gruppo della Rosa bianca.

Film di amore, resistenza, coraggio, violenza e morte, c'è un tempo per l'amore, quello per Hans padre e Hans figlio, ed è un tempo che durerà per sempre.

E' un film necessario, per ricordare il passato e temere il futuro.

Si può trovare solo in una quarantina di sale in tutta Italia, cercatelo, non deluderà nessuno (tranne i nazisti).

Buona (resistente) visione - Ismaele


ps1: per questi tempi tristi nei quali chi dice qualche parola contro la enormemente costosa militarizzazione dei paesi europei viene tacciato (da Giorgia Meloni) di volere l'Europa come una comunità hippie (chissà se lo direbbe ancora se la figlia crepasse, fra qualche anno, non glielo auguriamo, per portare la democrazia nel mondo)

ps2: mutatis mutandis, nel nostro piccolo, mi sono venuti in mente i giovani di Ultima Generazione, spesso persone laureate in università pubbliche italiane (mica come quella ministra impresentabile e insopportabile che si compra la laurea da fuorilegge autorizzati), alle quali si cerca di rovinare la vita in tutti i modi, a partire dai fogli di via, come a tutti gli altri sotto minaccia del DDL 1660, misura abbastanza fascista (da parte di un governo impresentabile e insopportabile).


 

  

Apparentemente freddo in una ricostruzione che guarda al martirio della protagonista sul modello di Dreyer (Hilde che volge lo sguardo verso la luce chiudendo gli occhi prima di essere ghigliottinata), Berlino, Estate ’42 trova invece nei momenti più privati una coinvolgente intensità, a cominciare dal legame con il figlio appena nato fino a rapporto con la sua carceriera, Miss Kuhn, ottimamente interpretata da Lisa Wagner, che non scende mai in un inutile sentimentalismo ma nel quale si percepisce una complicità nascosta e un rispetto autentico. Evidentemente quella di Hilde Coppi è una storia che Dresen sentiva particolarmente. La voce fuori-campo oggi del figlio ottantenne sulla madre dimostra quanto queste lettere d’amore (scritte proprio dalla protagonista) hanno ancora lo stesso impatto nel corso del tempo. Potrebbe sembrare un finale di troppo, invece sottolinea ancora di più l’eredità lasciata da Hilde Coppi.

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La qualità migliore del film (presentato a Berlino) è la finezza con cui mette in scena la "normalità" della vita sotto un regime, avvicinandosi alla complessità di anni fa, portata ai massimi livelli dal primo Heimat di Reitz. Di contro, con l'avvicinarsi dell'arresto dei Coppi, la fotografia da luminosa si fa cupa, addensando le ombre e i grigi, e porta a una parte finale che mostra in maniera classica soprattutto il destino tragico di Hilde, arrestata all'ottavo mese di gravidanza, costretta a partorire in prigione e poi decapitata nel 1943. Ma quando l'attrice Liv Lisa Fries si muove con un vestito rosso fuoco nel carcere in cui è detenuta, da una semplice apparizione si percepisce la forza della sua esistenza e di conseguenza la necessità di questo film.
Berlino, estate '42 è un ritratto dolce e malinconico di un'esperienza di militanza dimenticata dalla storia ma rivivificata dal cinema. In particolare, Dresen trasforma la cronaca storica nell'elegia di una donna indomita, spaventata e per questo umanissima, confermandosi autore capace di comporre ritratti femminili di notevole impatto, dopo Una mamma contro G.W. Bush. Nell'incontro tra storia e finzione, il regista sa fare del solido cinema drammatico, trasformando un episodio minore in un monito universale sulla necessità di resistere contro un potere abnorme.

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è il fulcro della vicenda, con una narrazione che alterna in continuazione i tetri ambienti della galera al sole che benedice la voglia di vivere dei protagonisti. 

Dresen è molto bravo a rendere tutti i suoi personaggi estremamente veritieri, senza scadere nella retorica del nazista brutale e dell’antinazista puro e senza paura. 

Infatti, se da un lato mostra una Hilde intimorita e piena di paura per la sorte sua e del piccolo Hans, il bambino chiamato con lo stesso nome del padre, in cui riesce a trovare la forza per non abbandonarsi alla disperazione, dall’altro descrive i suoi carcerieri senza i cliché di genere. Riuscendo anche a donare alla secondina Anneliese Kühn (Lisa Wagner) una parvenza di umanità.

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A partire da Hilde, minuta e volitiva neomamma all’ombra del patibolo, capace di consolare tutti senza risultare patetica, che pare essere attraversata per alcuni istanti decisivi dal dolore profondo e ancestrale di una madre come una protagonista di diversi film di Ken Loach. I rari, misconosciuti e volontariamente a lungo taciuti episodi di resistenza antinazista definiti dalla Gestapo come la cosiddetta “Orchestra rossa” sono stati occultati alle masse tedesche occidentali fino agli anni settanta in quanto i resistenti erano perlopiù comunisti, orientati e in contatto con l’URSS. Il sessantenne Dresen che proviene dalla Turingia, quindi dalla ex Germania Est, ha come provato a scostare l’alone di propaganda eroica (ma più attinente al vero) che su queste ragazze e ragazzi ammazzati dai nazisti è pesata nelle rievocazioni storiche delle autorità sovietiche nel tempo. Ponendo Hilde, Hans, Harro, Libertas, ecc… sul formato del grande schermo: esistenze normali, qualunque, la cui etica, passione, giustizia sociale riprende finalmente a vivere.

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giovedì 27 marzo 2025

mercoledì 26 marzo 2025

Sinfonia per un massacro - Jacques Deray

Josè Giovanni e Claude Sautet, oltre a Jacques Deray firmano una sceneggiatura praticamente perfetta, interpreti bravissimi, Jean Rochefort primus iter pares.

un film nerissimo, senza scampo per nessuno.

da non perdere, se ci si vuol bene.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo in italiano

 

 

Avvincente e spietato. Personaggi scolpiti con secchezza e astuzia drammaturgica, montaggio senza tempi morti, dialoghi essenziali. Serrato nello svolgere una trama criminale senza concessioni redentive. La matematica delle interazioni (quella della teoria dei giochi, intendo) trova qui un esempio di come basta un niente a far quadrare o saltare tutto... Ciò che in questa pellicola non salta (ma quadra) è la qualità. Da vedere, senza distrarsi un attimo.

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Guardarsi sempre le spalle. E' questa la "morale" costante, in particolare, dei "polar" francesi. Jacques Deray, uno degli specialisti del genere, qui al suo terzo lungometraggio, è coadiuvato in sceneggiatura da José Giovanni che si ritaglia anche un ruolo nel film. La sceneggiatura è pressoché perfetta e nonostante in questo genere cinematografico sia sempre l'intimismo dei personaggi a prevalere sull'azione, lo si riesce a seguire fino alla fine. Più che buono.

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Questo noir a tinte fosche è imperdibile per gli amanti del genere. Tutto è ad alto livello la regia, la fotografia in bn algido e ripeto l’ottima ambientazione e la recitazione di alto livello. Un film anche malinconico e sottilmente ironico in modo beffardo dove estate solo IL DIO DENARO, la crusca del Diavolo, che fa diventare ingordi e famelici quelli senza valore umano e morale. Dove la fiducia è un optional ed esiste solo la dura legge del profitto e del guadagno illecito. Sono i classici “Affari sporchi”. Attori ed interpreti Jean Rochefort: Christian Jabeke Daniela Rocca: Hélène Valoti Claude Dauphin: Maurice Valoti Charles Vanel: Paoli José Giovanni: Moreau Michel Auclair: Clavet Michèle Mercier: Madeleine Clavet

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Deray ha debuttato qualche anno prima, e dimostra con questo film che la sua vena discreta è tutta dedita al noir e lo dimostrerà anche più avanti, anche se le sue possibilità spesso sono state offuscate dal divo del momento, a cui si è troppo dedicato. Qui la sceneggiatura è in mano anche a nomi come Claude Sautet e José Giovanni e ne vien fuori un film pieno di pathos coinvolgente con quell'atmosfera tipica del grande noir alla francese. Una storia intricata e particolare, dove anche la donna ha un suo ruolo importante e decisivo, cosa abbastanza insolita nel genere. Intrigo ben distribuito con dialoghi essenziali ed attori ben distribuiti nei rispettivi ruoli, compresi quelli scelti per motivi di coproduzione. La sinfonia menzionata del film è la colonna sonora scelta in maniera singolare che quindi non c'entra niente con il titolo del film.

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