lunedì 14 luglio 2025

Flavia, la monaca musulmana - Gianfranco Mingozzi

ispirato a un fatto storico, Flavia è una ragazza che un padre di merda destina al convento, dove capirà lo schifo che la religione offre ai malcapitati.

quando arrivano i musulmani lei è felice dell'invasione, e sarà l'occasione per vendicarsi.

il film è davvero meritevole di essere cercato e visto, ci sono delle scene durissime, così erano quei tempi.

e Florinda Bolkan è di una bravura straordinaria.

un film da non perdere, provare per credere.

buona (non religiosa) visione - Ismaele

 

 

 

Con un'enfasi particolare sull'emancipazione femminile e sull'anti-clericalismo, il film di Mingozzi rimane tuttora un prodotto piuttosto scomodo e provocatorio. Il regista rimane pericolosamente in bilico tra film d'autore (le lunghe sequenze mute, dal notevole gusto per l'immagine e per l'allegoria) e cinemabis anni '70 (le numerose sequenze truci e sanguinose); è supportato da un cast adeguato, guidato dalla brava Bolkan e da un comparto tecnico di buon livello, specialmente riguardo a musiche e fotografia. Bizzarro, ma alquanto interessante.

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Avvertenza: darò forti spiegazioni sulla trama! Ispirato ad una figura realmente esistita (così dice qualcuno!) un film estremo ed impegnato. Mingozzi proviene dal documentario e si vede. La ricerca dei costumi medievali del luogo è impeccabile. Flavia da piccola è stata salvata da un saraceno. L'uomo poi è stato ucciso e Flavia cresce con i suoi connazionali che le spiegano che i saraceni non possono essere nostri amici. Da ragazza viene costretta (com'era uso per le primogenite) ad entrare in convento dove subisce umiliazioni a non finire finché non passa con i saraceni che la usano per invadere Otranto abbandonandola poi al suo destino dimostrando così che gli uomini sono tutti uguali nel bene ma (sopratutto!) nel male. Tra deliri gore (impalamenti, scorticazioni, etc.), deliri visivi (una donna nuda infilata nella pancia di una mucca sanguinante, un affresco della chiesa che si anima mostrando il volto del saraceno che aveva salvato Flavia e le strizza l'occhio, etc.) una allegoria su temi quali la condizione della donna nella società medioevale, il razzismo, i rapporti col Medioriente, le superstizioni, le crudeltà di potere della Chiesa nel Medioevo, etc. Un'opera cruda e coraggiosa come non se ne fanno più. Impeccabile e rigorosa nella messa in scena. Tagliatissimo nei rari passaggi televisivi (l'ultimo dei quali forse una decina d'anni fa su Odeon Tv). La versione integrale circola forse (così dicono!) solo in Olanda. Capolavoro assoluto!!!

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mingozzi non è l'ultimo arrivato, come sembra quando si parla del suo film forse più celebre. ha imparato a dririgere da fellini, è stato un grande documentarista lavorando sul tarantismo con ernesto de martino già negli anni '60.
questo film non è una commedia priuriginosa di quelle diffuse in quegli anni, è una pellicola che si prende parecchio sul serio, e forse questo è il suo limite.
è proprio l'entrata in scena delle tarantolate nella prima parte del film che ci deve dare la chiave di lettura. de martino interpreta il tarantismo come una manifestazione di ciò che oggi gli antropologi chiamano "violenza strutturale". le donne dell'italia del sud, ancora a metà '900, sono vittime di una serie di violenze che fanno parte dell'articolazione stessa della società. il tarantismo è semplicemente il meccanismo socialmente riconosciuto attraverso cui possono esprimetre il proprio disagio, assume i toni di una liberazione sociale, sessuale e religiosa. nel film, dove occupano un ruolo marginale e sono quasi introdotte a forza nella trama, forniscono la monade per l'interpretazione della figura di flavia, cercando anche un appiglio in una teoria sociale. ad uscirne con le ossa rotte è la religione come forma di dominio (sempre della donna in questo caso), il film tecnicamente è curato ma risulta parecchio pesante da digerire ed anche un po' tronfio. le immagini forti non mancano, ma con i miei gusti cinematografici sono abituato a ben peggio. molto interessante la scena onirica sul finale

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Molte qualità tecniche: fotografia, interpretazione, scenografia, musica... ma tutto ciò non basta per farne un buon film. Al di la della storia, interessante anche questa, quello che non funziona è una sorta di confusione che viene dalla regia, che non approfondisce mai nulla volendo toccare tutto, una lentezza che spezza il ritmo e l'interesse. Quello che emerge chiaramente di certo, è che le religioni, tutte, se usate per scopi non meramente spirituali, sono crudelmente uguali e la donna è da sempre la vittima. È già qualcosa.

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sabato 12 luglio 2025

Quando il cinema guarda a destra è sempre un po’ astigmatico - Giampiero Frasca

 

Diciamoci la verità. Però diciamocela francamente. Non si può dire che il cinema in Italia sia di sinistra, malgrado le intemerate di Elio Germano all’indirizzo del ministro Giuli e nonostante dall’altra parte si lamentino sempre che le conventicole dei comunisti impediscono ai talentuosi giovani attori e registi che non siano di sinistra (non dicono mai “di destra”, perché alla fine «pare brutto», come diceva mia zia Silvia) di fare la loro giusta carriera (qua Morrone. Chi è Morrone? Non lo so, dev’essere un attore italiano che non lavora per colpa dei comunisti).

Il cinema italiano è sembrato di sinistra solo in qualche fase ben definita. Pareva di sinistra durante il Neorealismo, ma solo perché qualunque cosa fosse seguita al Ventennio, anche Papa Wojtyla, sarebbe sembrato comunista (e comunque Rossellini era un cattolico, De Sica un bon vivant, Visconti un comunista con il Rolex ante-litteram; solo De Santis si poteva ascrivere alla genìa). È stato davvero di sinistra solo durante gli anni settanteschi del cinema politico, perché la maggior parte dei registi protagonisti di quel fertile periodo lo era (Petri, Rosi, Maselli. E anche Lizzani, nonostante Goffredo Fofi lo considerasse lo stesso un regista di destra). E lo erano, spesso, anche quelli che il cinema politico lo facevano sotto mentite spoglie (Pasolini. Monicelli. Scola. E anche Sergio Leone). Ma non era il cinema italiano a essere comunista: lo era un terzo della società italiana. Per cui.

Poi, si sa, e non voglio certo generalizzare, solo rammentare: quello che non era governo, era cultura; se il governo spettava secondo risultato elettorale alla Democrazia Cristiana, la cultura fu appaltata alla sinistra, mentre quelli che ancora, pervicacemente, si rifacevano a fiamme mai del tutto spente, fez e manganelli, si incaricarono di generare quella sana tensione sociale rompendo il cazzo un po’ qua e un po’ là, mettendo qualche bombetta stragista con la complicità dei servizi segreti deviati, nostalgici anche loro. Mica avevano il tempo per fare cinema. Questo è il perché, in breve. Quindi, non è che il cinema italiano sia di sinistra, è solo che molti di quelli di sinistra, storicamente, fanno cinema.

 

Un giovane figurante missino, attuale Presidente del Senato, in Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972)

Quelli di destra non sono abituati, è evidente. Le poche volte che ci hanno provato sono state sinceramente imbarazzanti. Il loro campo di competenza è palesemente altrove, anche se la giustizia poi ci mette almeno vent’anni per accertarne i meriti. Sempre che li accerti. Chi ha avuto la sventura di vedere Barbarossa di Renzo Martinelli — quello che più ostinatamente cerca di rileggere la Storia dall’altra prospettiva — ricorda lo stupendo cameo di Umberto Bossi, non il film, accozzaglia di luoghi comuni sull’indomito carattere dei Comuni del Nord già protoleghisti.

E così arriviamo ad Albatross, uscito in questi giorni. Scritto e diretto da Giulio Base, anche direttore del Torino Film Festival, che in questi giorni sta facendo parlare di sé più per l’incarico assegnato alla moglie, Tiziana Rocca (di cui ci interessa proprio il giusto), che per il suo film, spalleggiato fin dalla sera della prima da una serie di figuri di chiara appartenenza. Per raccontare la vicenda misconosciuta (perché cancellata, direbbero dall’altra parte) del triestino Almerigo Grilz, già picchiatore fascista del Fronte della Gioventù, poi fondatore di un’agenzia di reporter (l’Albatross del titolo) per documentare con sprezzo del pericolo le guerre dimenticate del mondo, fino a trovare la morte in Mozambico a soli 34 anni, Base si è autoinvestito della funzione di «partigiano della riconciliazione», come fanno tutti quelli che intendono ammannire un prodotto dichiaratamente di destra sperando di non farselo distruggere dalle critiche della parte avversa.

Albatross è un film revisionista caro all’establishment meloniano, ergo: una gran leccata di culo, inutile girarci attorno. Lo hanno scritto da ogni parte ma nessuno con la classe di Marco Giusti su Dagospia, per cui posso anche esimermi. Perché non è questo che m’interessa. M’interessa proprio il prodotto film, il modo in cui è stato raccontato, la sua eventuale qualità artistica, non perché sia ideologicamente discutibile (ancora con ‘sta ideologia?, direbbe il qualunquista ammantato di retropensieri fascistelli. Sì, ancora con ‘sta ideologia. Non esiste svolta di Fiuggi che mi farà dimenticare su quali ceneri maleodoranti è nata questa scentrata Repubblica).

 

Il problema di Albatross, ancora prima di essere un film fascista, è che è un film fiacco. Fiacco, girato con uno stile piacione, illusoriamente ggiovane, ma irrimediabilmente vecchio, come un settantenne nonostante il rinfoltimento. In pratica è una fiction RAI (che produce) su grande schermo, vivacizzata da un montaggio inutilmente convulso durante le scene di dialogo in interni, del quale non si capisce onestamente la motivazione, se non la ricerca di una vivacità posticcia. Tutto sembra artefatto, ricreato in una recita che intende più che altro situare la memoria invece di rappresentarla nella sua cruda realtà del tempo. All’inizio del film c’è una scena di conflitto fra frange comuniste e fasciste. Una scena anche fondamentale, perché spiega il legame che si instaura tra Grilz e Vito Ferrari, avversario politico salvato dalla generosità del primo e interpretato, da anziano, da uno sfibrato Giancarlo Giannini. Ma come dare credito allo scontro, se la messa in scena è così basica (l’aggettivo è indipendente dal nome del regista) da far affrontare i due sparuti gruppi vestiti di sapido cliché al grido di «Fascisti carogne tornate nelle fogne» e «Boia chi molla è il grido di battaglia» branditi come due alternati e ossessivi refrain? 😲

E il pestaggio susseguente? Non che per forza si debba sempre fare tutto come Guy Ritchie, però, che cazzo, un minimo: spintoni visti al ralenti, talmente esili e disarticolati che li avrei tanto sognati all’inizio degli anni Ottanta, quando nell’estrema periferia nord della città a vocazione industriale smarrita scendevano orde di tamarri in Vespa a riempirci di mazzate, una zuffa che manco tra bambini di prima elementare con le braccia slogate. Non è esigenza di realismo, è credibilità. Quella stessa credibilità che ambienta una parte della vicenda in una Trieste che pare avere solo due luoghi, il Molo Audace e il Monumento ai Caduti, ognuno con una sua valenza attributiva: il primo è il luogo dell’amicizia, della socialità, il secondo quello dei sentimenti e dei rimpianti.

Una scrittura un po’ rigida che certo non è aiutata dai dialoghi. Uno su tutti, il conflitto verbale tra Vito Ferrari e i camerati nella loro redazione del giornale, ai limiti dello sfottò da bar, ma magari fosse di Caracas: «È che voi neri siete brutti. Ma dico brutti brutti, eh, anche solo da vedere». «Ha parlato Alain Delon» è l’affilatissima risposta offerta a muso duro prima dell’eventualità di una rissa, doverosa almeno per la qualità delle battute, ma che, visti i risultati precedenti, non scatterà.

 

Ma il vero equivoco è l’autoattribuzione di genereAlbatross sceglie pericolosamente, molto pericolosamente, un antesignano illustre per dotarsi di una ben precisa struttura: L’uomo che uccise Liberty Valance. Non sono rincoglionito, ascoltate. Un sopravvissuto torna in età matura — in treno! — dove tutto si è originato. Il personaggio cui deve rendere omaggio non c’è più. C’è una narrazione ufficiale che punta a negare ciò che effettivamente s’è svolto (a Shinbone John Wayne se lo sono dimenticato; a Trieste negano a Grilz una targa commemorativa). Racconto à rebours per svelare ciò che è davvero accaduto. Il sopravvissuto, figura rispettabilissima grazie anche all’opera del personaggio che non c’è più, desta la memoria dello scomparso e lo riabilita pubblicamente, per poi tornare da dove è venuto. Dimenticavo: il sopravvissuto gli fotte anche la donna di cui il Nostro era innamorato. Buum. Manca la dicotomia progresso-anarchia, ma il resto c’è tutto. È una storia epica. L’epica di un eroico fotoreporter di guerra osteggiato nel riconoscimento dei giusti meriti solo per la sua ideologia. Il John Wayne di Trieste. L’equivalente missino dell’eroismo western. Diosantissimo.

Peccato che l’impianto si contraddica da solo. La frase simbolo di Liberty Valance era «When the legend becomes fact, print the legend», ossia, come tutti o quasi sanno, se la leggenda è più interessante di ciò che realmente è accaduto, fai riferimento alla leggenda. In modo tale che le narrazioni si basino su un florilegio immaginifico di fantastiche bugie. È ciò che fece John Ford, svelando l’inghippo, uccidendo l’epica western e introducendo la fase crepuscolare, critica e antieroica. Base non uccide l’epica fascista perché è una cosa che si rimpallano tra loro e «Il Secolo d’Italia» («ben girato, ben recitato, ben costruito, un piccolo miracolo di produzione» si leggeva il 30 giugno), ma quantomeno circoscrive storicamente la già isolata figura di Grilz, ammettendo implicitamente di averne raccontato la leggenda, la loro versione, parziale e agiografica, non la realtà.

Sublime autogol, anche se da quella parte parleranno di fantastica rovesciata. Ma si sa che di queste cose non ne capiscono davvero un cazzo.

https://www.dissequenze.it/quando-il-cinema-guarda-a-destra-e-sempre-un-po-astigmatico/

Chişinău - Corso Salani

nel quinto episodio ai confini d’Europa Corso Salani accompagna Raluca, giovane regista, in un viaggio dalla Romania in Moldova per fare un piccolo film.

non succedono grandi cose, ma il rapporto fra Corso (operatore di macchina che non vediamo mai, solo lo sentiamo) e Raluca è bellissimo.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo

 

 

 

Il quinto episodio ai confini d’Europa è una densa stratificazione semantica sotto un’apparente ed esibita semplicità naif. Salani pare interessato non tanto alla Moldova e alla sua capitale (che sono descritte con sguardo curioso) quanto alle problematiche che coinvolgono i media e i giovani. Non a caso è una diplomanda di regia (e pseudo-regista di questo docufilm) a fargli da guida, con una complicità intrigante che sfocia in imbeccate reciproche e discussioni alla moviola. Un film sul gusto di fare un film, sottilmente insinuante.

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Non ho mai amato il cinema del compianto Corso Salani. L'ho sempre trovato piuttosto autoreferenziale e un po' ossessivo nell'incollare la mdp addosso alla ragazza di turno (una per ogni nazione visitata, in pratica). Tuttavia, mi affascina l'opera nel suo complesso: quasi una enciclopedia dell'Europa più marginale, formata da diari di viaggio al confine fra documento di realtà quasi aliene ed umile poesia. E forse il primo passo verso una sua rivalutazione da parte mia potrebbe essere questo Chisinau, opera che ho apprezzato, tanto per la capacità di evocare uno scenario quasi surreale per mezzo di carrelli su staccionate verdi e baracche azzurre o con inquadrature ravvicinate di prodotti alimentari kitsch, quanto per la testimonianza di una realtà geo-politica paradossale: la Moldova visitata da Corso e Raduca è una repubblica ancora subalterna allo strapotere russo, eppure include al suo interno uno stato indipendente fantasma (la Transnistria), del tutto isolato dal resto del mondo. Si ha una come la sensazione che i confini geografici non abbiano più senso, perchè ce ne sono troppi, dappertutto, e che ciascuno di questi confini delimiti dei "non-luoghi", più che degli Stati. Com'è lontana l'Europa di Salani rispetto a quella degli atlanti!

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Corso Salani viene chiamato a fare da operatore per il saggio finale in regia di Raluca, studentessa alla Scuola Rumena di Cinema. Il tema scelto per l’ultimo esame è la Moldova, il paese confinante con la Romania, e suo vicino povero. Insieme, Corso e Raluca scopriranno questo stato appartato e sconosciuto. Il loro viaggio sarà anche l’occasione per andare alla ricerca delle radici di Raluca, che come molti altri rumeni ha origini moldave.

La posizione geografica del paese, stretta tra Romania e Ucraina, fa della Moldova una sorta di stato-cuscinetto tra l’Europa e la Russia post-comunista. Questa condizione è divenuta emblematica quando nel 1990 la Transnistria dichiarò l’indipendenza con l’aiuto militare di Mosca. La regione ancora opera come uno stato indipendente, ma non è riconosciuta da alcuna nazione. L’influenza politica ed economica dell’ex-Unione Sovietica resta una realtà opprimente per la Moldova. Quando Raluca intervista dei giovani giornalisti di una radio locale, questi rivelano che hanno rinunciato alla loro lingua madre a favore del russo, per migliorare il proprio status sociale.

La piccola troupe guidata da Salani, consapevole di quanto i media possano essere rivelatori dello stato di salute di una giovane democrazia, visita la radio di Stato e una Ong indipendente, attenta alla comunicazione, che cerca di fare i conti con la mediocre industria cinematografica locale. Negli studi di Promoldova TV viene intervistata una giovane presentatrice. Corso registra questi ed altri brevi incontri nelle sue note di viaggio, riflettendo su dettagli sorprendenti e sostando su interludi di luce. Sembra andare oltre, fare più di quello che la sua giovane regista gli chiede. Nel loro insieme le sue immagini disegnano il ritratto di un popolo genuino e schietto, che merita tutto il rispetto per come affronta la povertà e il flagello dell’emigrazione. Per Corso l’incontro con Raluca e con questa terra ha il sapore di un’esperienza vissuta molto intensamente ma, come spesso accade, lo accompagna anche la sensazione che le cose siano passate troppo in fretta. Il residuo di questa esperienza – come dice Raluca nella sua ultima lettera – è un senso di gioia per tutto ciò che hanno conosciuto e fatto, congiunto a un senso di tristezza per ciò che ci si è lasciati indietro.

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mercoledì 9 luglio 2025

Bassifondi - Francesco Pividori (Trash Secco)

scritto dai fratelli D'Innocenzo, il film mostra uno spicchio di vita di due senzatetto, Callisto e Romeo, in una Roma sconosciuta.

vivono sotto un ponte sul Tevere e cercano di sopravvivere, senza dimenticare la loro vita è stata (e sarà) anche altro.

faticano per mettere insieme gli spiccetti per mangiare, e quando Romeo sta male, cioè peggio, Callisto fa di tutto per curarlo.

un film su due amici, loro malgrado, che non lascia indifferenti,

da non perdere, promesso.

buona (senzatetto) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

L’asciutta ed essenziale scrittura dei fratelli D’Innocenzo riesce a costruire sapientemente, a partire dalle parole e dai gesti quotidiani e ripetitivi di una vita in convivenza, l’imperfetta sintonia che lega questi due senzatetto talmente diversi tra loro che, messi assieme, non possono non ricordare una classica coppia di comici alla Stanlio e Ollio o, meglio, alla Franco e Ciccio.

Eppure di comico nel film c’è ben poco. Viene utilizzato, a partire dalla sceneggiatura, ogni possibile strumento per impedire, il più a lungo possibile, l’immedesimazione o almeno un certo avvicinamento emotivo e patetico con i personaggi. Lo spettatore si ritrova a sentirsi quasi in colpa di provare una certa ripugnanza nei confronti di Romeo e Callisto, ma è esattamente ciò che Trash Secco ha voluto suscitare. Perché quell’istinto di distogliere lo sguardo è, in fondo, il germoglio dell’indifferenza e l’unico modo per contrastarla oggi sembra essere attraverso l’artecostringere lo spettatore a fare i conti col mondo in cui vive, risvegliarlo dal torpore indotto dalle fantasmatiche illusioni che lo circondano, sbattendogli in faccia tutto lo schifo in cui è invischiato.

Così la scenografia e la regia arrivano a dividere nettamente in due Roma, una divisione in cui, come in Parasite di Bong Joon-Ho, le differenze a livello architettonico-spaziale delle varie ambientazioni sono funzionali ad evidenziare una profonda crepa sociale.

La fotografia illumina gli ambienti, prevalentemente esterni, in cui si muovono i protagonisti di colori smortispentiacidi. Quasi come una scia tossica che, proveniente dal degrado della Roma “di sotto”, segue costantemente i due senzatetto, ovunque essi vadano.

A sua volta la scrittura è brutalmente cruda e realistica, specie nei dialoghi. Callisto in particolare utilizza un volgare vocabolario “di strada” impregnato di omofobia e misoginia che, oltre a rappresentare un’assoluta novità sul grande schermo, soprattutto oggi dove la libertà dell’artista si ritrova ingabbiata all’interno dei paletti imposti dal politicamente corretto e da una censura sempre più pressante, finisce per distanziare ancor di più lo spettatore.

Addirittura gli zoom in avanti che portano ai primissimi piani sul volto rigato dalle lacrime di Romeo, in un procedimento speculare a quello che Kubrick in Barry Lyndon ha utilizzato per rendere un certo effetto di straniamento, lasciano lo spettatore assolutamente impassibile. Perché l’occhio di quest’ultimo, pur seguendo per tutta la durata della pellicola solo ed esclusivamente i due clochard, è quello alieno e giudicante del passante.

Non c’è pathosnon c’è drammaticità. C’è solo indifferenza

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Bassifondi non consola, non propone soluzioni, non denuncia con retorica. Semplicemente guarda. E chiede di guardare. È un pugno nello stomaco, ma anche una carezza, una storia d’amore senza morale. Una parabola discendente che però ci lascia col cuore pieno. “L’unica cosa che i protagonisti possiedono sono loro due e la loro relazione morbosa”, per dirla con le parole di Trash Secco. È abbastanza. Ed è devastante.

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martedì 8 luglio 2025

Il magistrato - Luigi Zampa

il boom italiano era nell'aria, ma l'economia era ancora sottosviluppata, i lavoratori erano poco più che schiavi, i capitani d'industria erano ancora (o sono?) degli sfruttatori e degli imbbroglioni.

il magistrato inizia la sua attività con un caso d'omicidio più complesso di quello che sembra, lui vive in una camera da una famiglia complicata, con il padre che non riesce a soddisfare le attese della moglie e del mondo, un travet che non riesce a diventare un arrampicatore.

Luigi Zampa è bravissimo, il film si vede benissimo ancora oggi.

peccato che pochi conoscano il film.

buona (sorprendente) visione - Ismaele




QUI si può vedere il film completo, in italiano

 

 

Ingiustizie e ritratto di famiglia in attesa del boom economico. Due film al prezzo di uno:da una parte un giovane magistrato idealista indaga sull'omicidio di un portuale disonesto ad opera di un lavoratore a cui era stata fatta terra bruciata intorno e per questo ridotto alla fame. Dall'altra parte la storia della famiglia che affitta una stanza al suddetto magistrato per difficoltà economiche le quali si fanno via via più pressanti quando il capofamiglia perde il lavoro. Esito tragico... Un film i cui due sottotesti non compenetrano tra loro e che parla di temi molto attuali anche se ha ormai mezzo secolo di vita:oggi la disoccupazione è sulla bocca di tutti in modo drammatico,così come le difficoltà economiche che affliggono moltissime famiglie. E c'è ancora tutto quel sottobosco di faccendieri,caporali che rende il lavoro un privilegio da pagare a caro prezzo. Il problema è che Zampa non è Rosi ma infarcisce il tutto sempre di connotazioni quasi da commedia di costume e forse stavolta non era il caso. A tratti il tono si fa declamatorio anche fastidiosamente in altri frangenti si parla dei giovani di allora in termini assai generici....un occasione sprecata in sintesi...

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Giudice istruttore indaga su un omicidio commesso al porto di Genova e intanto assiste impotente alla rovina della famiglia che lo ospita. Zampa ci racconta l'altra faccia del miracolo economico e un'Italia che non c'è più, ma che alcuni problemi li ha lasciati in eredità a quella attuale. Suarez più testimone che protagonista e infatti a restare impressi sono soprattutto l'onesto ma debole Périer, l'acqua cheta Sassard, il canagliesco Serato e una Cardinale intensa in pochi attimi. Finale triste, ammorbidito da un invito alla speranza.

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…Non ravviso populismo o demagogia nella sceneggiatura di Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, nè granché didascalismi in questo film di Zampa, pienamente inserito nella sua  narrativa di realismo civile e di quegli anni, nè tantomeno affondare nel facile melodramma, ma anzi, una acuta capacità che gli era personale caratteristica stilistica, nel saper delineare con maestria e incisività già la decadenza e il distruttivo -verso tutti coloro che non sono dei rettili senza sangue caldo- marciume del lavoro e dell'economia di un mondo che la propaganda di chi a cui va tutto bene e non potrebbe essere altrimenti, vuole farci apparire tutto raggiante, senza lontanamente poterlo essere.  Un affresco familiare e una cronaca giudiziaria del lavoro nell'Italia del 1959. Che si rivolge ancora più chiaramente a quella del 2019, e in maniera netta del 2025.

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Scevro da appeal di carattere spettacolare e con praticamente nessuna divagazione di carattere evasivamente comico o sterilmente sentimentale, un film che Zampa precipita senza fronzoli nello specchio scuro degli anni del boom, raccontando con un plot di consistenza quasi "naturalista" il progressivo sfaldarsi di un sistema di valori che misura ormai la dignità con il "benessere" e il capriccio. Non meraviglia che il suo non far sconti a niente e nessuno, compresa la confezione, lo abbia relegato nel dimenticatoio. Grande Perier, travet gogoliano oppresso e sconfitto, rigido Suarez.

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Un magistrato alle prime armi arriva in una grande città e resta invischiato nelle faccende complicate della famiglia presso cui è in affitto. Scoprirà così molte cose di sé e gli aspetti più cruenti della vita. Film con un’evoluzione drammatica molto profonda, al di là delle pagine da romanzetto di provincia che potrebbe offrire. Un po’ sbrigativa in alcune soluzioni narrative, è comunque una storia che prende, fino al suo epilogo tristemente inaspettato.

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sabato 5 luglio 2025

Gli indesiderabili – Pasquale Scimeca

un piccolo film basato su un romanzo di Giancarlo Fusco, racconta le storie di un po' di mafiosi espulsi dagli Usa in Sicilia, alternando le gesta negli Usa e le miserie dopo il ritorno in Italia.

niente di speciale, ma ci sono codse interessanti.

buona (mafiosa) visione - Ismaele



 

1951: il tribunale di New York celebra un processo contro un nutrito gruppo di italo-americani accusati di appartenere alla malavita. Non riuscendone a provare la colpevolezza, la Corte attribuisce loro il marchio di "indesiderabili" e li condanna al rimpatrio in Italia. 120 finiscono su una nave diretta a Genova, dove dopo due settimane ad accoglierli c'è una folla di giornalisti, fotografi e semplici curiosi. Giancarlo Fusco è li per scrivere un pezzo per "Il Secolo XIX" e si mette ad intervistare gli "indesiderabili", tra cui riconosce Ezio Taddei, anarchico e suo ex-compagno di liceo. Il pezzo diviene un'inchiesta.
Scimeca, regista apprezzato per le sue opere precedenti, compie un passo falso. Guidato dalla buona intenzione di rivisitare un periodo della storia italiana leggendolo dalla parte dei gangster di mezza tacca realizza un film confuso e zeppo di sparatorie alla rinfusa a cui neppure un Catania e un Gallo sottotono o il cameo di Vincent Schiavelli riescono a iniettare vitalità. Due stelle di stima

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"Gli indesiderabili è un'operazione su commissione, voluta dal produttore Galliano Juso. Ero interessato a misurarmi con la pellicola di genere ma per me il cinema è altro"[...]"Gli indesiderabili è un film di transizione, un gangster movie, alla maniera di un autore italiano, dove cinema e cultura orale si contagiano". Pasquale Scimeca, con onestà, così commentò la prossima uscita del suo ultimo lavoro. Non un giudizio di valore (non si tratta di un folle suicida), ma un dato di fatto che può permettere di inquadrarlo nel corpus, non indifferente, della sua opera…

Gli Indesiderabili mostra la faccia più desolante del cinema italico, un regista come Scimeca, in balia già di una produzione stentata, di una distribuzione al limite dell'inesistenza (e di un doppiaggio, ancora una volta, da vomito), alla fine annichilito da attori che, abituati a far imputridire un teatro morto di suo, spingono nella fossa un cinema, quello nazionale, nato moribondo e santificato prematuramente. Marcello Mazzarella è l'unico ad uscirne con l'onore delle armi. Dopo esser stato icona-Proust per Ruiz, qui è il doppio di Rodolfo Valentino.

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Dopo il bel Placido Rizzotto, Scimeca prosegue la sua opera di ricostruzione di brani poco noti del passato italiano, e di ripensamento del cinema politico. Stavolta si appoggia a un affascinante reportage di Giancarlo Fusco, Gli indesiderabili (1962) recentemente ristampato da Sellerio. Vi si raccontano le vicende di vari mafiosi italoamericani rimpatriati dal governo degli USA appunto come “indesiderabili”: gangster di mezza tacca, per lo più, con un passato sanguinario e un presente di lenta decadenza. Il regista mette dunque in scena lo stesso Fusco (Catania), mentre indaga i destini di Lily Valente (Mazzarella) che vendica il padre gelataio, di Lu Grisafi (Albanese) raggiunto dai killer fino in Sicilia, e il destino che accomuna un mafioso codardo (Gallo) e il suo garante (Scaldati). Le vicende narrate sono appassionanti, e certe atmosfere di America sognata suggestive. Ma Scimeca non controlla la complessa costruzione corale a flashback, spreca un cast meraviglioso, traspone piattamente certi dialoghi del libro con effetti artificiosi. La sua naïveté non è commovente né “brechtiana”, e alcune parti risultano tirate via o posticce. Casuali, ma da pensarci su, le parentele con gli ultimi film di Paolo Benvenuti e di Ciprì e Maresco.

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venerdì 4 luglio 2025

Un sogno chiamato Florida - Sean Baker

Moonee, Scooty e Jancey sono i bambini protagonisti di un'infanzia (in)felice, ai margini del sogno americano, risucchiati dall'incubo americano, che cresce ogni giorno.

Bobby (Willem Dafoe) e la mamma di Moonie li difendono come possono, in questa vita di stenti, nella quale un gelato è la felicità.

Bobby cerca di dare attenzione a Halley (Bria Vinaite) e a Moonie, fin quando è possibile.

e poi c'è la fuga di Moonie e Jancey, e noi speriamo che ce la facciano.

un film da non perdere, se vi volete bene.

buona (correndo) visione - Ismaele

 

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

 

…Già autore dell’interessante Tangerine, visto dalle nostre parti al Torino Film Festival, Baker ambienta il suo nuovo lavoro nei dintorni di Orlando, ovvero alle porte di Disney World. È proprio qui che tra motel-condomini dai colori confetto e a forma di castelletti fiabeschi, hanno luogo le vivaci scorribande estive della piccola Moonee (Brooklynn Prince) e dei suoi sodali Scooty (Christopher Rivera) e Jancey (Valeria Cotto). A gestire il caseggiato-motel c’è poi Bobby (Willem Dafoe), paziente custode e tuttofare che deve districarsi tra le marachelle dei bambini e quelle dei genitori (che non sono da meno), ridipingere il castelletto per mantenerne vivaci i colori, gestire con invidiabile fermezza sia il topless di una matura signora nella piscina condominiale che l’incursione in zona di un pedofilo.

E così, in questo paesaggio iperreale, tra Via dei 7 nani e il motel Futureland, villette ancora in costruzione abbandonate, gelatai a forma di gelato e venditori di arance a forma di arance, l’ineludibile vitalità dei ragazzini resta l’unica forma di residua di autenticità, l’ultima ribellione possibile a un regno di simulacri. Ed è proprio questo spirito anarchico dell’infanzia che Barker mira a trasmettere, grazie alla freschezza di un ben ritrovato cinéma vérité, che ben restituisce quel flusso energetico dirompente che tutto travolge.
Girato completamente ad altezza e velocità di bambino, Un sogno chiamato Florida è anche un film politico, che va a indagare quel socialismo innato nell’infanzia – qui obbligatoriamente adottato anche dai genitori per ragioni di indigenza – che raggiunge tratti quasi commuoventi (si veda la tecnica di acquisto e condivisione del gelato) e galvanizza lo spettatore tramite un costante attacco contro le figure del potere (il povero Bobby) e del benessere (i turisti), irraggiungibile per i personaggi del film.
Un sogno chiamato Florida rievoca dunque lo spirito dicapolavori sull’infanzia come Zero in condotta di Jean Vigo e I 400 colpi di Truffaut, mentre riflette su un territorio e i suoi nonluoghi (il motel-condominio, il parco divertimenti), emblemi di un’America che ha sostituito la “terra delle opportunità” con “un regno incantato” e dove gli ultimi indigeni sono relegati in “riserve” adiacenti l’attrazione principale e che ne evocano l’aspetto, ma solo per meglio certificare la loro emarginazione.

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Caldo estivo.I turisti se la spassano a Disneyland ,ma in un motel del quartiere alcuni bambini vivono in precarieta' mendicando dai passanti un gelato ,mentre i loro genitori cercano di scovare un sistema per pagarsi l'affitto,su tutte la mamma (Vinaite) che con la figliola (Prince) non rispetta le regole della vita e dell'albergo in cui abita ,gestito da un grande Dafoe (nominato agli Oscar).Il bravo regista Sean Baker ritorna col suo sguardo curioso e empatico ,mostrandoci il lato oscuro del sogno americano.Applaudito ai vari festival che ha partecipato lo sfondo e' davvero curioso,quasi favolistico,ma emergono dall'inizio alla fine le difficolta' di vivere su condizioi sociali precarie.Se poi pensiamo che gli interpreti principali sono tutti non professionisti (eccetto Dafoe) si rimane esterefatti della spontaneita' che ci mettono gli attori.E' da tempo che non vedo una commedia cosi' bella di produzione americana,il finale di stampo drammatico e' tutto da vedere.Non lasciatevi sfuggire un film cosi'....concilia davvero con un cinema (indie) raro da trovare.

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…Esteticamente meraviglioso, questo film cattura lentamente lo spettatore prima attraverso lo sguardo e poi nel cuore, legando indissolubilmente le immagini ai personaggi in quasi due ore di pellicola, dettagliando così profondamente il personaggio della bambina da renderla reale e vicina a noi, soprattutto in alcuni primi piani lirici ed assolutamente realistici. Un piccolo capolavoro del cinema contemporaneo, che non ha bisogno di mettere in scena grandi drammi o di correre eccessivamente sul filo della narrazione, e senza voler concludere necessariamente il racconto con un finale forzato.

Tutto scorre con i giusti tempi, con calma e dovizia di dettagli, come sono le lunghe giornate estive di un bambino, che pare non finiscano mai.

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…sean baker consegna al pubblico un terrificante ritratto di un' america disperata e derelitta, che all'ombra del mito della terra delle abbondanze(i migranti di crialese sognavano di fare il bagno nel latte e di raccogliere verdure giganti, mentre monee e sua madre danzano nell'abbondanza dei buffet degli hotels di lusso, mentendo sul numero di una stanza che è la loro ma non lì)non è nemmeno sicura di poter tenere la patria potestà dei figli.

costretta a prostituirsi e a ridursi sempre peggio, raschiando un fondo sempre più difficile da raggiungere, quest'america si rimette nelle mani di assistenti sociali che imputa ad una madre la sua incapacità di essere genitore e di badare alla prole, salvo poi perdere la bambina che vorrebbero toglierle.

un'america che si accontenta di fumarsi una sigaretta in un crepuscolo di fuoco che sembra illuminato dai migliori fotografi di scena, che vive la propria infanzia nell'area pic-nic sorvegliata dall'amorevole sguardo del custode intento a ritoccare la vernice dell'edificio che si vorrebbe ancora per i turisti (ma che loro non vogliono), che li protegge da predatori non molto lontani dal terrificante tricheco che in "alice in wonderland" fa la corte alle ostrichette, salvo poi mangiarsele in un sol boccone.

un'america che vive di momenti assolutamente magici, come quando il custode sposta tre magnifici trampollieri dalla strada d'accesso del motel, o le bambine giocano all'ombra di un magnifico albero durante un acquazzone.

la finzione rincorre una realtà documentaristica girando con telecamere nascoste e con attori non professionisti, e la ricognizione da giornalisti freelance rincorre la finzione grazie agli artifizi cinematografici e ad una direzione d'attori esemplari.

in più, in un crescendo di tensione emotiva altissima, il film trova una delle chiuse più belle viste in questi ultimi anni; una fuga disperata all'interno del parco divertimenti, proprio verso il palazzo delle principesse, quello del logo disneyano che apre ogni film che sicuramente anche le nostre piccole protagoniste avranno visto in qualche occasione, rubato con un telefonino, all'insaputa della major e che cercando disperatamente di regalare un pizzico di magica speranza, lascia con un senso di inquietudine degna di shining e della strega di blair....

gran film.

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Sean Baker demolisce l’“American dream” senza possibilità di appello con questo “Florida project”, opera che costituisce una presa di consapevolezza che infrange ogni illusione di bellezza e felicità, a due passi dai parchi giochi di Orlando, mecca di ogni bambino statunitense e non solo.

Proprio lì, a due passi dal sogno, esiste una realtà parallela e squallida: i motel sorti lungo la 192 durante il boom dei parchi sono ora diventati residenza per vagabondi senza fissa dimora, per chi non può permettersi un’abitazione: famiglie senza casa che vivono alla giornata, grazie a piccoli espedienti e lavoretti di fortuna, magari derubando i turisti…

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Se non fosse per la Florida, la sua luce, Disneyland e i colori saturi. questo film potrebbe essere tranquillamente il racconto di una casa di ringhiera in una periferia inglese di Ken Loach o Mike Leigh. Invece siamo proprio nello stato americano, regno del benessere e della spensieratezza, siamo nella periferia di Disneyland, dove la vita vera, con i suoi problemi e i suoi drammi, si staglia contro uno scenario di cartone, pastellato, bello solo nelle sue fattezze naturalistiche. Baker, fresco premio Oscar, ci racconta, come sempre, dell'altra America, quella di chi di fa fatica a tirar sera, immergendoci in un complesso di piccoli appartamenti periferici, gestiti da Willem Dafoe, un buon uomo, abitati precariamente da un'umanità varia. Il regista spezza in due il racconto, mostrandocelo con gli occhi dei bambini, figli distratti e pericolanti della suddetta umanità, che vivono il luogo come fossero usciti da un racconto di Mark Twain, inventandosi avventure e nuove realtà, fiabesco, e, in parallelo, ci mostra la fatica di vivere una vita sempre al limite, eppure, in qualche modo, viva, vivissima e anche gioiosa, quando, per un po', la sfortuna se ne sta alla larga. "Un Sogno Chiamato Florida", rimane quindi un sogno e nulla più, anche se la sequenza finale, (e Baker è uno dei migliori registi nel "chiudere" i film), lascia intravedere amarezza, come sempre, ma anche una speranza di serenità, seppure artefatta. Al netto del doppiaggio dei ragazzini, davvero insopportabile, è un'opera interessante, ben strutturata, dove gli attori rendono benissimo nella coralità di un canto un po' disperato e dove, ancora una volta, l'America è lontana e l' "american dream" è bagnato fradicio, posticcio, fasullo. 

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giovedì 3 luglio 2025

Una ragione per vivere e una per morire - Tonino Valerii

un'americanata ben fatta di Tonino Valerii, nella quale ci sono i tanti temi del western, la vendetta, la missione impossibile, sparatorie senza fine, fra gli altri.

attori adatti, James Coburn, Bud Spencer e Telly Savalas sono perfetti per la parte assegnata.

non è certo un capolavoro, ma si vede benissimo, con un Bud Spencer che non picchia, ma riesce a compiere la sua missione.

buona visione - Ismaele

 


QUI si può vedere il film completo 


 

La sceneggiatura del film è semplicemente perfetta: con un inizio piuttosto convenzionale, pian piano la storia si ampia e prende ritmo, risultando agile ed incalzante, con un epilogo finale da brividi. Sebbene il soggetto ricalchi leggermente la trama di "Quella Sporca Dozzina" di Robert Aldrich, lo sviluppo di "A Reason to Live, a Reason to Die" è abbastanza diverso dal film bellico statunitense e le ambientazioni e i dialoghi asciutti tengono costantemente lo spettatore sotto una tensione crescente, che va via via a diradarsi con l'avvicinarsi dell'epilogo. Inoltre il tono della narrazione è molto serioso e convincente, il che va fortemente ad opporsi a quello più picaresco ed ironico del film di Aldrich.
Bellissima è, inoltre, la colonna sonora di un grande Riz Ortolani e suggestive e ben ricercate risultano le ambientazioni, col forte sudista situato in una posizione strategica tra le montagne del New Mexico, semplicemente inespugnabile.
Da cultore ed appassionato di questo genere, non posso che non suggerirvi la visione di questo film, purtroppo poco conosciuto, che porta la firma di Tonino Valerii, e che probabilmente, assieme a "I Giorni dell'Ira" (forse un po' eccessivo nella violenza) e a "Il Mio Nome è Nessuno", è sicuramente il miglior film di questo rinomato regista italiano di film western.

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E' uno di quei film che avevo visto da bambino , e ne ho sempre avuto un buon ricordo . Si tratta infatti di una bella pellicola di quell' ottimo artigiano dello Spaghetti Western che è stato Tonino Valerii , più volte assistente di Leone . La storia è questa ed è ambientata durante la Guerra di Secessione : il colonnello nordista Coburn viene radiato dall' esercito per aver ceduto al nemico senza combattere un munitissimo forte e , con il solo aiuto di qualche riottoso galeotto salvato dalla forca , cerca di riprenderlo al crudele maggior sudista Savalas . Anche se la trama non è proprio originalissima ( come si vede c' è il solito manipolo di disperati impegnati in un' impresa pressocchè impossibile ) e c' è qualche lungaggine di troppo , il film intriga ed avvince anche per la simpatia di un ben assortito cast , con un ottimo , tenebroso James Coburn, un Bud Spencer inaspettatamente gigione ed un Telly Savalas sempre a suo agio nei ruoli da viscido bastardo .

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Una variazione sul tema della vendetta (ricorrente nel western), cui Valerii dà personalità ambientandola nella Guerra di Secessione e concludendola con una riflessione su legge e violenza. A rendere questo film uno dei migliori western italiani degli anni ’70 contribuiscono il reduce leoniano Coburn e Telly Savalas (nella parte di un ufficiale sadico e vigliacco) ma anche Bud Spencer, convincente in un ruolo più “serio” di quelli abituali. Le musiche di Ortolani danno solennità alla vicenda.

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martedì 1 luglio 2025

Dafne - Federico Bondi

Carolina Raspanti è la protagonista principale del film, una forza della natura.

Dafne è una ragazza che lavora alla Coop, perde la madre, e la vita va avanti con padre, che è depresso.

tocca a Dafne essere il motore della famiglia, con la sua semplicità e sincerità, per fortuna del padre.

un film sorprendente, nessuno sarà deluso.

buona (Carolina) visione - Ismaele


 

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…Una trentacinquenne portatrice della sindrome di Down, esuberante e trascinatrice, sa organizzare da sola la sua vita ma vive ancora insieme ai genitori, Luigi e Maria. Quando Maria muore all'improvviso, gli equilibri familiari vanno in frantumi. Luigi sprofonda nella depressione e Dafne non è solo spinta a confrontarsi con la perdita ma deve anche sostenere il genitore. Finché un giorno accade qualcosa di inaspettato: insieme decidono di affrontare un trekking in montagna, diretti al paese natale di Maria. Lungo il cammino, scopriranno molte cose l'uno dell'altra e impareranno entrambi a superare i propri limiti.

Bondi ha avuto la capacità di intuire che Carolina/Dafne non andava 'guidata' ma accompagnata nel film perché solo così avrebbe potuto venire progressivamente in luce (e manifestarsi in tutta la sua pienezza nell'on the road finale) la complessità e al contempo la linearità di un'esistenza alla cui base sta una sincerità profonda che accomuna tutti i Down. Che sanno essere anche crudeli e ruvidi (come Dafne lo è col babbo) perché capaci di cogliere i punti deboli altrui e di portarli allo scoperto non per cattiveria ma per la costante ricerca di un rapporto che sia privo di finzioni…

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…Il personaggio di Dafne, la cui vicenda biografica – ad eccezione del lutto – coincide con quella della sua straordinaria interprete Carolina Raspanti (che non ha mai letto la sceneggiatura), è tratteggiato con maestria attraverso uno sguardo puro, intenso ma delicato, del tutto privo di paternalismo o di qualsiasi banalizzazione. La protagonista viene osservata da vicino nella sua quotidianità (dal parrucchiere, in palestra, in pausa con i colleghi) e nei momenti più intimi e raccolti (la sera in cucina, a mangiare gli ultimi avanzi dal frigo). Una giovane donna mostrata con i suoi pregi – dolcezza, forza e determinazione fuori dal comune – ma anche con tutti i suoi limiti, dovuti a un carattere spigoloso che riesce a far perdere le staffe perfino al paziente genitore. Sempre circondata da parenti, amici e colleghi che la adorano, Dafne tiene molto alla sua indipendenza ed è del tutto autonoma (anche dal punto di vista sentimentale, tanto da definirsi “single convinta”); è una lavoratrice instancabile («Per me il lavoro è sacro!») ed entusiasta, che ama in particolare “creare cose”.

Sarà proprio la forza creatrice di Dafne a farla riuscire nell’intento di trascinare il padre in un viaggio on the road, una sorta di cammino iniziatico per entrare in contatto con la memoria della moglie e della madre defunta raggiungendo a piedi il suo paese natale attraverso le foreste dell’Umbria. Il viaggio è costellato di momenti commoventi, poetici, spiazzanti ed esilaranti (le riflessioni mistiche di Dafne di fronte alla luce in mezzo al bosco, l’incontro con le guardie forestali in cui si discute di flirt amorosi), fino ad arrivare alla meta di un cammino ancora incompiuto ma ormai avviato, e forse superato nella sua parte più difficile…

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Maria (Stefania Casini) e Luigi (Antonio Piovanelli): una coppia di vivaci toscani, attempati ma ancora saldi e uniti, il cui grande amore si riflette in Dafne (Carolina Raspanti), loro unica figlia, una trentenne loquace, diretta, spiritosa, volitiva, che vive con loro e lavora alla Coop. Una tragedia improvvisa: la madre muore, proprio l’ultimo giorno delle vacanze al mare, ultimo momento di serenità.

Dafne e il padre, dopo i primi momenti di smarrimento e dolore, seppur confortati da affetto e stima di tanti parenti, amici e colleghi, riprendono la routine quotidiana. I due inevitabilmente soli nella casa dove un posto è rimasto vuoto, diventano reciprocamente l’uno ragione di vita per l’altra e si aiutano a vicenda. Quando Dafne propone al padre di raggiungere a piedi il cimitero arroccato sull’Appennino dove riposa la mamma, la passeggiata si trasforma in un viaggio di scoperta, di vicinanza, di confidenze, di sentimenti profondi e struggenti.

Dafne – Carolina è nata con la sindrome di Down. Eppure il film non parla di disabilità, nessuno pare notare la diversità di Dafne. Vi è solo un accenno in un dialogo tra il padre a una conoscente, ma è un commento tutto sommato positivo, come se nel migliore dei mondi possibili non vi fosse differenza alcuna, come se non vi fosse una normalità e il suo contrario…

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lunedì 30 giugno 2025

Cronaca di una passione - Fabrizio Cattani

il film racconta una storia triste, delle brave persone con un piccolo debito verso l'Erario (30mila o 50mila euro) sono costretti a fallire, a perdere tutto, giorno dopo giorno, anche la dignità.

la storia ha una struttura quasi documentaristica, perfettamente  verosimile.

è terribile che le istituzioni pubbliche siano incapaci di gestire situazioni del genere, d'altronde non si tratta di comprare armi, con relative tangenti, ma di salvare vite, attività commerciali, persone.*

interpreti davvero convincenti, in un film da non perdere.

buona (triste) visione - Ismaele


*la politica italiana (composta di incapaci e ladri, per la maggior parte) non riesce (o non vuole) salvaguardare la vita e la dignità dei suoi cittadini, non esistono meccanismi semplici e chiari per risolvere i problemi, sono le leggi, dicono, come se quei maledetti (sempre per la maggior parte) politici non fossero profumatamente pagati per risolvere problemi.

 

 

 

Il film racconta la storia di Giovanni e Anna, due coniugi sessantenni che hanno vissuto insieme dignitosamente gestendo con passione la loro trattoria nella cittadina di provincia in cui vivono. La crisi economica che attanaglia il Paese non risparmia la loro attività e la coppia comincia ad accumulare debiti con lo Stato a causa di una cartella esattoriale che non sa come saldare. I due si sforzano di tirare avanti fino a quando l’Agenzia di Riscossione dei Tributi dispone il pignoramento forzato della loro casa e la successiva messa all’asta. Da questo momento per Giovanni e Anna comincia un inesorabile calvario che li porta in breve tempo a perdere lavoro e casa, compromettendo inevitabilmente la loro vita più intima. Trasferiti in una casa famiglia dai servizi sociali, saranno costretti a vivere in camere separate e in condizioni di degrado. Abbandonati al loro destino e ignorati dalla società, i due coniugi non cesseranno di lottare per ricominciare a vivere, ma quando ad essere messa in gioco sarà la loro dignità, sceglieranno una soluzione estrema.

Esistenze che vanno a rotoli, corruzione e malaffare amministrativo, scartoffie e lungaggini burocratiche, intimità spezzate. Un film per denunciare e, insieme, riflettere.

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scrive il regista:

Mi sono ispirato ad alcuni fatti di cronaca per raccontare un Paese ferito in profondità dalla grave crisi economica che lo sta attanagliando da tempo e dove chi paga il prezzo più alto sono i più umili. Gli ultimi. E' la cronistoria di ciò che i protagonisti sono stati costretti a vivere in tre anni e mezzo della loro vita insieme dietro l’indifferenza di un Sistema Stato che, anche con superficialità, permette ingiustizie anziché tutelare e aiutare i propri cittadini onesti. Tra il 2012 e il 2015 in Italia, 628 persone si sono tolte la vita per cause legate direttamente al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali. Su un totale di 16,7 milioni di pensionati italiani, quasi 8 milioni percepiscono meno di mille euro mensili e oltre 2 milioni meno di 500 euro. Nello stesso periodo sono state chiuse più di 450.000 aziende di cui 57.000 per fallimento. Gli ultimi dati del rapporto Istat documentano un Paese con consumi calanti e famiglie impossibilitate a far fronte a costi di cure ed esami diagnostici, pagare le bollette e il riscaldamento, con povertà e rischio di esclusione che riguardano un quarto della popolazione, ai livelli più alti d’Europa. Il rapporto segnala che in Europa oltre alla disoccupazione cresce la precarietà, quella che sino a poco tempo fa era uso edulcorare chiamandola flessibilità.

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La coppia Viviani/Ciangottini è perfetta nella parte, l‘eterea fanciulla de La dolce vita, l’irraggiungibile miraggio di purezza di Marcello, ora è diventata una donna provata, la tenera compagna di traversie per Giovanni, uomo mite e incurvato dagli anni, sopraffatto dalla perdita di ogni ancoraggio ad una vita normale.

In un crescendo che procede a piccoli passi inesorabili, Cattani avvolge i due protagonisti in una tela di ragno sottile, i loro movimenti nella vicenda sono realtà pura, nessuna sovrastruttura romanzesca a rompere il lento fluire di giorni senza prospettive né speranze.

L’arrivo della soluzione estrema diventa così cronaca annunciata, nessun soprassalto emotivo, togliersi di mezzo quando la vita ti rinnega non può che essere l’unica via d’uscita.

Ed un mare grigio, freddo, invernale è sempre disposto ad accoglierti se sei colpevole di povertà.

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Quello di Fabrizio Cattani è uno dei film più tristi e senza speranza che si possano immaginare. Eppure, il regista toscano non si crogiola mai nel calvario dei suoi due protagonisti, non cerca la lacrima dello spettatore. Al contrario, si preoccupa di raccontare, senza acrimonia o false ideologie, lo sfondo sociale nel quale il disagio di questa coppia avanti con gli anni trova terreno: l'eccesso di burocrazia, i licenziamenti facili, la corruzione, l'incapacità di ascolto delle istituzioni, la delazione. Tutti elementi che compongono un mosaico di apprezzabile compostezza e che enfatizzano l'incredibile dignità dell'inossidabile coppia protagonista, nella quale Vittorio Viviani sembra decisamente più a suo agio di Valeria Ciangottini.

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