lunedì 3 febbraio 2025

Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab” - Vincenzo Scalia

 

Alla fine degli anni Settanta, in Inghilterra, prese piede la teoria criminologica del left realism (realismo di sinistra), che muoveva dalla necessità di prendere sul serio la questione criminale, per non lasciarla nelle mani delle destre. I left realists, tra i cui maggiori esponenti ricordiamo Jock Young e Roger Matthews, proponevano uno schema quadrangolare di lettura dei fenomeni criminali. I vertici del quadrato sono costituiti dai rei, dalle vittime, dal pubblico e dalle agenzie di controllo sociale formali, ovvero la polizia, la magistratura e i servizi sociali, in quanto articolazione dei poteri statali. La lettura dei fenomeni criminali, per il realismo di sinistra, sarebbe la risultante dell’interazione di questi quattro fattori.

Lo schema analitico del realismo di sinistra ci torna in mente in relazione alla produzione di serie tv che riguardano fatti di criminalità prodotti dalla piattaforma Netflix. Da Sanpa, su San Patrignano, ad ACAB, che propone in versione televisiva anche i fatti relativi alla protesta No-Tav, passando per Mare Fuori, sulla criminalità minorile, la piattaforma televisiva si accredita come un attore sproporzionatamente rilevante in merito alla lettura dei fatti criminali. Ne scaturiscono la formazione dell’opinione pubblica e una produzione di panico morale che ispirano molto spesso, specialmente negli ultimi anni, le politiche governative. In particolare, colpisce come Netflix si collochi sempre simmetricamente a chi evoca ed avoca l’implementazione di misure maggiormente repressive per risolvere questioni sociali stridenti. Partendo dalla buona fede di chi ha prodotto e realizzato le serie, non si possono non riscontrare i limiti insiti in ogni spettacolarizzazione dei fenomeni sociali, quantomeno di quelle prodotte in anni recenti. In altre parole, il canovaccio viene adeguato ai parametri richiesti dal format di successo, per cui bisogna proporre sempre la dicotomia tra figure positive e negative, con la vittoria ovvia dei primi, e la resa mediatica consiste nell’accentuazione caricaturale di queste caratteristiche.

Con riferimento, in particolare ad ACAB e alla questione del Tav, le caratteristiche negative si attribuiscono ovviamente ai protestatari, un po’ affetti da fanatismo ideologico e un altro po’ composti da una popolazione anziana, nostalgica del passato, non criminalizzabile per questioni di anagrafe, ma sicuramente preda del fanatismo. Ai No-Tav viene reso l’onore delle armi all’interno di un’epica degli scontri che, oltre ad essere figlia del politicamente corretto odierno, marcia in parallelo con quell’estetica della violenza che fa la fortuna dei prodotti mediatici ispirati all’azione. Last but not leastla scelta di identificare i buoni tra le schiere delle forze dell’ordine, è figlia del vento che soffia dalla caduta del muro di Berlino in poi, per cui chi ricopre un ruolo istituzionale si colloca sempre dalla parte giusta. Un’impostazione che sorvola sugli abusi compiuti dalle forze di polizia, in particolare quelli sui dimostranti, come da Genova 2001 a Pisa nella scorsa primavera, abbiamo avuto modo di constatare. E che strizza pericolosamente l’occhio all’assunto della premier per cui “criticare i poliziotti è pericoloso”, tanto da ispirare il disegno di legge 1660, lo scudo penale per le forze dell’ordine, la modifica (cioè l’abolizione de facto) del reato di tortura. Le ragioni della protesta rimangono fuori, eppure avrebbero potuto interessare il pubblico. Dallo scempio del territorio alla distruzione di intere comunità, per non dire dello sperpero di ingenti quantitativi di risorse pubbliche, oltre all’inutilità dell’opera, asserita anche Oltralpe, argomenti con cui attirare l’attenzione del pubblico ce ne sarebbero stati molti. Altri importanti aspetti, come la criminalizzazione dei No Tav operata dalla magistratura torinese, l’uso discutibile degli arresti e delle carcerazioni preventive, le accuse di terrorismo, la carcerazione di una donna in età avanzata come Nicoletta Dosio, avrebbero meritato ben altra sorte dell’essere omessi o considerati implicitamente come normali conseguenze.

Non è la prima volta, si diceva, che Netflix propone questo tipo di interventi sull’attualità. Basti pensare a Mare Fuori, dove i minori protagonisti cadono fatalmente nel loro destino lombrosiano di criminali, rifuggendo l’aiuto degli angeli istituzionali e le opportunità fornite all’interno della struttura detentiva. Una rappresentazione fuorviante del sistema penale minorile italiano, considerato uno dei migliori d’Europa, con l’utenza penale ridotta ai minimi termini e i detenuti prevalentemente di origine migrante o rom che scontano la loro marginalità sociale, oltre alla mancanza di risorse, agli squilibri territoriali in termini di servizi e all’habitus talvolta familista degli operatori del sistema minorile. Eppure, Mare Fuori, ha plasmato l’immaginario collettivo rispetto alla devianza minorile, producendo la proliferazione di articoli e discussioni sulle presunte baby gang culminate col decreto Caivano e con l’aumento esponenziale dei minori detenuti.

Il rapporto tra le serie televisive e il pubblico ci permette di tornare allo schema proposto dai realisti di sinistra. Quando Young e Matthews proposero il loro schema interpretativo, in uno dei vertici del quadrato del crimine, ovvero, quello del pubblico, circolavano letture contrapposte dei fenomeni criminali. I filtri robusti delle organizzazioni di massa, della partecipazione diffusa, del confronto, che gravitavano attorno alle strutture della classe operaia, consentivano di proporre valutazioni ed elaborazioni più articolate dei fenomeni sociali, che avevano la loro ricaduta sia sull’operato degli apparati statali sia sulla capacità di analizzare i contesti all’interno dei quali i reati avevano luogo. Soprattutto, la prospettiva, condivisa da tutti, era quella dell’inclusione, del reinserimento. Fu proprio in questo contesto che cominciarono a svilupparsi le politiche di riduzione del danno. Quanto al pubblico, nel caso italiano, oltre alla stampa democratica e di sinistra, potevamo contare su un apparato di produzione mediatica di livello. Si pensi al neorealismo, a registi come Pasolini, Lizzani e Montaldo, ad attori come Gian Maria Volonté, a film come Sciuscià o a lavori documentali come quello sulla strage di piazza Fontana. Prodotti mediatici che proponevano un ribaltamento del senso comune, tentavano di egemonizzare il discorso pubblico, perché rispecchiavano una prospettiva di trasformazione sociale radicale.

La ristrutturazione socio-economica neo-liberista, sfaldando le organizzazioni di massa, evaporando la prospettiva di un cambiamento, comporta la subordinazione delle opere di divulgazione alla necessità di attrarre audience per realizzare profitti. Ne consegue un detrimento della qualità dei prodotti e la circolazione di un senso comune securitario che tracima in una sfera politica sempre più orientata alla sopravvivenza spiccia. Davvero, ridateci il neorealismo.

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domenica 2 febbraio 2025

Sono ancora qui - Walter Salles

una famiglia brasiliana molto felice e unita, che abita a pochi metri dalla spiaggia di Copacabana, padre (Rubens Paiva), madre (Eunice), cinque figli e tantissimi amici, fino a quando i militari golpisti iniziano a far sparire le persone, migliaia e migliaia.

Rubens viene preso dai militari, e mai più tornerà a casa.

la moglie e figli aspettano, inutilmente, e rischiano anche loro di essere inghiottiti nel buco nero delle prigioni segrete, subendo tutte le torture possibili. 

Eunice (interpretata da una bravissima Fernanda Torres, candidata per l'Oscar) tiene insieme la famiglia, anche sorridendo.

il film è ispirato da un libro di Marcelo Rubens Paiva, quel bambino amico del regista, che a 20 anni, per una caduta assassina divenne tetraplegico.

il film è molto interessante e non lascia indifferenti.

è in più di cento sale, il cinema vi aspetta, nessuno se ne pentirà.

buona (resistente) visione - Ismaele

 

ps: qualche anno fa Fernando Trueba ha girato un bel 

film, tratto da un libro del figlio di Héctor Abad Gómez, ammazzato dai militari, in Colombia.

 

 

 

Salles si serve della sua brava inteprete principale e di tutta la squadra attoriale per evitare a tutti i costi il melodramma: donna Eunice non cede, non crolla, non urla, piuttosto sorride. Ne esce un film teso e composto, che mira alla testa più che alla pancia.

Ricordare questa vicenda e mettere pubblicamente al bando certe pratiche è necessario perché non continuinino a esistere. Ma Ainda estou aqui (Sono ancora qui) non è solo una storia di denuncia o di memoria: è anche un racconto di trasformazione. Giovane e agiata nella Rio della bossa nova e dell'architettura modernista, nella prima parte del film Eunice è una donna che ha tutto: soldi, amore, futuro.
La tragedia che la colpisce ribalta ogni cosa e la costringe a reinventarsi, con una nuova consapevolezza. È qui, in questo terzo atto raccontato più rapidamente e senza sottolineature, il messaggio politico del film, e la ragione per cui prosegue oltre quella che potrebbe apparire la conclusione ideale. Non è solo completezza biografica. Anche se accompagnare il personaggio in età avanzata offre al regista la possibilità di affidare il ruolo a Fernanda Montenegro, ultranovantenne, protagonista di 
Central do Brasil e dell'inizio del viaggio cinematografico di Salles.

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Io sono ancora qui riflette proprio sulla permanenza dell’assenza, del dolore, ma anche sull’ostinazione con cui chi rimane, in questo caso una madre con cinque figli, vuole rimanere in vita e progredire nonostante tutto. Il ritratto di Eunice Paiva è di grande dignità e grazia, soprattutto Salles lo costruisce in modo tale da inglobare all’interno dello stesso involucro l’universalità del trauma nazionale, insieme alla specificità del dramma privato con una comunicazione continua tra l’uno e l’altro.

Io sono ancora qui è un racconto delicato e coraggioso, che per tematiche e geografia ricorda quello splendido Argentina 1985 che passò in Concorso a Venezia 79. Qui il tono è maggiormente declinato verso il dramma familiare, senza l’ironia che contraddistingue il film di Santiago Mitre, tuttavia presenta la stessa dignità nei personaggi, la stessa tenacia e voglia di trovare giustizia, non solo per sé ama per tutta la collettività.

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Dire che Fernanda Torres si è calata nel ruolo di Eunice Paiva, che ha trascorso buona parte della sua vita cercando di chiedere conto della scomparsa del marito, sarebbe un eufemismo. Questo film è una vetrina per lei tanto quanto un dramma basato su una storia vera, anche se rispetta sia l’enormità che il peso emotivo dell’esperienza della vera Eunice. Ma è il tipo di ruolo che permette a una persona del suo calibro di fare la differenza, e dà a Torres la possibilità di onorare una figura pubblica che è stata anche una combattente della resistenza (la scomparsa di Rubens ha fatto notizia a livello internazionale); che è stata una madre che si è presa cura dei suoi figli e ha fatto del suo meglio per proteggerli dalla perdita personale e dalla tempesta più grande; che viene messa alla prova quando anche lei e sua figlia Eliana (Luiza Kosovski) vengono prelevate per un interrogatorio, ed Eunice viene trattenuta per quasi una settimana; che sacrifica tutto in nome della famiglia e della scoperta di ciò che è successo dopo il saluto del marito.

E più tardi, nel primo dei due flashforward, Torres mostra cosa succede quando la chiusura cercata per decenni arriva finalmente, inevitabilmente. Ciò che è notevole è il fatto che non esagera mai, né si lascia andare a facili istrionismi e strappi di vesti, anche quando il film stesso diventa molto pesante nella seconda metà. Si tratta di un’interpretazione straordinariamente ricca di sfumature, e non è importante se questo assicurerà a Torres una nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista o meno. Certo, assicurerà un maggior numero di occhi su quello che avrebbe potuto essere un film che, pur avendo avuto un enorme successo in Brasile, sarebbe potuto svanire nel rumore bianco di fondo che caratterizza la mania della corsa all’oro di questi primi mesi invernali. Ma Io sono ancora qui è una testimonianza di Torres a prescindere. In patria ha già conquistato l’attenzione dei connazionali grazie all’incredibile lavoro che svolge in questa commovente, emozionante ode alla vita durante la dittatura. Ora merita il plauso di tutto il mondo.

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sabato 1 febbraio 2025

French connection (La French) – Cédric Jimenez

Marsiglia è stata la capitale della droga, fornendo il mercato degli Stati Uniti, il film racconta la lotta di un giudice e della polizia contro i boss della droga (sostituiti prontamente dalla mafia siciliana).

il ritmo del film è davvero implacabile, ti tiene attaccato allo schermo, si parte piano, poi è un crescendo di azione e di emozioni.

i due protagonisti, il boss e il giudice, (che un fisicamente po' si assomigliano) sono bravissimi, nelle mani di un regista che sta diventando sempre più bravo.

alla sceneggiatura il regista e la moglie Audrey Diwan (anche lei regista).

un film da non perdere, non te ne pentirai.

buona (marsigliese) visione - Ismaele

 



 

Avanza elegante questo gioiello del cinema francese: il dispiegarsi della narrazione è pura classe.

Strizza l’occhio alla (propria) tradizione polar, senza mai abbracciarne veramente l’estetica e gli schemi.

Ci troviamo infatti ad un incrocio tra Scorsese e il poliziesco all’italiana (e non certo tra Friedkin e Melville, come alcuni hanno sostenuto), il tutto però condito con quel particolare charme e quella delicatezza espositiva esclusivamente propri della tradizione cinematografica francofona…

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…Degli Scorsese, dei De Palma, dei Coppola, degli Hendricks stessi, il regista Cédric Jimenez prende il minimo indispensabile e scansa le agiografie di ciascun lato della barricata: il racconto si regala una confezione irrequieta e analogica, esita su una colonna sonora dai connotati fin troppo "greatest hits", ma si rafforza su una fotografia vintage che è tutto fuorché imposta. Anzi, quest'occhio un po' fumoso è il coltello che taglia dentro ogni inquadratura, dalle verdognole torture in magazzini sconosciuti, agli inseguimenti senza fiato nei campi, agli assassinii alle fermate dei semafori, in pieno sole, in pieno sfregio.

Certo, quello di Jimenez non è un tentativo di segnare un territorio nuovo o una cima inconquistabile, ma sottolinea lo stato di salute di una cinematografia, come quella francese, vitale perché sempre più varia e credibile. E con tutte le carte in regola per riportare in Europa la gloria del cinema di genere.

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Misurato il fascino guascone, Dujardin è il giudice Pierre Michel sotto il sole di Marsiglia e dentro la confidenziale eleganza del cinema polar. A lui spetta il compito di arrestare l'ascesa vertiginosa del villain di Gilles Lellouche, doppio somatico e versione brutale che incide sul film come la luce del Mediterraneo sulla costa marsigliese. Boss potente, che agli inizi degli anni Ottanta andrà incontro allo scacco inevitabile di chi si trova nella condizione del 'sopravvissuto', a disagio in un clima che non riconosce più, il padrino di Lellouche esercita un controllo quasi assoluto sulla città, a cui si oppongono le interiorizzazioni noir del giudice di Dujardin e gli assalti gangsteristici di Benoît Magimel, mai così libero e fisicamente dirompente.
L'ingente budget, profuso nella ricostruzione meticolosa di una Marsiglia 'dopata' tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta e per l'accoppiata divistica, non colma l'assenza della dimensione politica e storica nel film, che si sviluppa tutto sulla superficie senza mai infilare il sociologico o magari il tragico o ancora l'epica. La simmetria gangster charmant e flic incorrompibile, rinnovata dalla coppia Dujardin - Lellouche, che propongono due personaggi taciturni e sfuggenti in cui la durezza degli atteggiamenti si mescola a un senso di fragilità, resta comunque una gran bella ragione per andare al cinema e prendersi un'infatuazione.

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Storia di Pierre Michel, giudice inviato da Metz a Marsiglia nel 1975 per smantellare il traffico di eroina della French Connection guidata dal boss Tany Zampa. Storia vera, anni di piombo. Storia privata, intima, personale di due uomini dalla personalità ingombrante, dai molti nemici, la cui linea di demarcazione è tutta in un dialogo in cima a una collina, unico momento di contatto visivo tra gli immensi Dujardin e Lellouche. È nei loro personaggi, eredi legittimi di decine di volti deloniani e belmondiani, che si consuma un’e(ste)tica polar a tinte crepuscolari fatta di ambiguità morali, contraddizioni comportamentali, dissidi interiori e un’idea di legalità piuttosto malleabile da entrambi gli schieramenti. Se in interni Jimenez si rivolge alla tradizione di genere francese, è in esterni (scenografici e drammaturgici, nella messa in relazione dei protagonisti con il mondo istituzional-malavitoso) che French Connection alza lo sguardo per cercare Scorsese e Friedkin. La vicenda privata diventa così grande narrazione, equivalente transalpino del nostrano Romanzo criminale, con il quale condivide afflato corale, istinti pulp nella definizione dei personaggi e grammatiche realiste nell’abbondante uso di camera a spalla. Nella messa in scena filologica della Marsiglia che fu si riaprono ferite mai sanate: la giustizia, da quelle parti, è ancora lontana. E Michel diventa paradigma del presente.

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venerdì 31 gennaio 2025

Rowan Atkinson on free speech

 

Un día sin mexicanos (Un giorno senza messicani) - Sergio Arau

 (riprendo il post dell'otto 8 febbraio 2017)


in questi tempi trumpiani qualcuno potrebbe proiettare questo piccolo grande film, inizia come un giallo fantascientifico, poi diventa cronaca possibile (come lo era La guerra dei mondi, di H.G Wells, interpretato da Orson Wellestrasmessa il 30 ottobre 1938).
sarebbe bello che si facesse un film così in Italia, magari trasmesso in tv in prima serata, e a scuola; intanto accontentiamoci di questo, del 2004, un film che fa pensare e diverte insieme, cosa volere di più?
i sottotitoli del film (completo) sono in spagnolo, buona visione - Ismaele



…Se avete un'ora e mezza da impiegare, date un'occhiata a Un giorno senza messicani, forse lo troverete sconclusionato, forse lo troverete folle e povero di mezzi, ma sono sicuro che se saprete apprezzarne le intenzioni allora non solo vi divertirete ma addirittura riuscirete a perdonargli limiti e difetti. In mezzo alle innumerevoli trovate affastellate dal regista si staglia un uomo, un barbone, un pazzo che borbotta in modo incomprensibile una frase: "loro (i messicani) erano gli unici che ancora credevano al sogno americano, gli unici che speravano di poter ancora cambiare la propria vita venendo a vivere in un posto migliore...." Fa riflettere.
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…Immaginate un giorno che tutte le persone di un’etnia diversa dalla vostra o diversa dalle etnie "approvate" spariscano. Un giorno solo. Quelle persone di cui tutti si lamentano (sono ladri, vengono a prendersi il nostro lavoro), un giorno spariscono come misteriosamente inghiottiti da una nebbia che circonda l’Italia.
Solo che nel documentario la terra e’ la California, e l’etnia di cui tutti si lamentano (sono ladri, rubano, portano droga, violenza, e ci rubano il lavoro) e’ quella messicana. Il documentario, molto intelligentemente, fa notare che nella parola messicano sono racchiuse tutte le popolazioni di lingua spagnola. Un po’ come se hai gli occhi a mandorla sei cinese (e non coreano, giapponese eccetera).
Una strana nebbia circonda la California, isolandola da tutti i contatti con gli altri stati americani. E tutti i "messicani" quel giorno spariscono nel nulla. Spariscono quelli che sono li’ legalmente, e colo che sono li’ illegalmente. Non c’e’ differenza. Spariscono giornalisti famosi, attori famosi, ma anche persone che si guadagnano da vivere raccogliendo pomodori. Ovviamente quel giorno nessuno raccogliera’ pomodori, nessuno pulira’ le strade, nessuno lavera’ i piatti nei ristoranti. E i proprietari delle compagnie non si mettono a fare il lavoro che questi "messicani" sono venuti a rubare…
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La peculiarità di Sergio Arau è dunque quella di affidarsi a una sola situazione drammatica, che è davvero basica, per parlare della questione degli immigrati negli Usa, dei pregiudizi comuni, in particolare sui messicani e sugli ispanici in California…
…Ce n’è abbastanza di carne al fuoco per il poliedrico Arau, finora attivo per alcuni videoclip, ma anche come musicista, pittore e cartoonist, oltre ad aver collaborato con Jodorowski, e nell’insieme la satira, seppur con lievi eccessi didascalici, risulta intelligente e moderatamente divertente, sia per l’argomento trattato, sia per il come, che per l’appunto sfrutta il surreale per analizzare meglio il quotidiano. L’unica cosa che è mancata a questo film, tra l’altro presente in molti festival, è stata una buona distribuzione in sala (in Italia). D’altronde, grazie alla 01, si può sì recuperare il dvd, ma con un ritardo di ben cinque anni dalla sua uscita, e senza l’abbinamento di contenuti extra, che non avrebbero guastato visto anche l’interessante tema trattato. Tema che è ancora attualissimo, specie per noi e di questi tempi; e sarebbe certo curioso pensare a “un giorno senza rumeni” immaginando un disperato Berlusconi che chiede a gran voce il loro ritorno, e insieme a lui le famiglie senza badanti, per non parlare poi dell’edilizia.
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…Sergio Arau, figlio del più famoso Alfonso, colpisce al centro con questo divertente e intelligente film a tesi che si svolge in California ma potrebbe essere ambientato ovunque esista un’immigrazione rilevante.
Grazie a una nebbia carpenteriana che isola lo Stato Arau costruisce un film in cui la scomparsa dei messicani fa emergere tutte le contraddizioni di una società che ha ormai un bisogno ineludibile degli immigrati anche se poi, in alcune sue manifestazioni, li ritiene solo presenze dannose e parassitarie.
Lo stile adottato riporta alla memoria il caustico La seconda guerra civile americana, di Joe Dante, con una particolare attenzione alla ‘narrazione’ televisiva. Arau costruisce un saggio per immagini assolutamente godibile su come sia ormai il piccolo schermo a gestire l'immaginario collettivo indirizzandone l'attenzione e ri-costruendo gli accadimenti. Un gran numero di situazioni (così come le didascalie che vengono spesso sovrapposte alle immagini) spesso amaramente divertenti potrebbero essere trasferite, con le debite ma non sostanziali varianti, alle nostre latitudini. Il pregiudizio non ha confini.
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ricordo di Marianne Faithfull

 

mercoledì 29 gennaio 2025

Un giorno in pretura, a Nuoro

Mi è capitato di trovare su Raiplay, in Un giorno in pretura, il processo che si è celebrato nella Corte d’Assise in Nuoro.

Ricordavo i fatti, a Orune (in provincia di Nuoro), l’8 maggio 2015, di mattina, un ragazzo, Gianluca Monni, insieme a molte altre persone, aspettava il pullman per Nuoro, dove frequentavano alle scuole superiori.

Ma quel ragazzo non sarebbe mai partito, da un’automobile partirono i colpi di arma da fuoco che l’avrebbero ucciso, davanti a tutti.

Grazie alle tante testimonianze delle ragazze e dei ragazzi che erano con lui, le forze dell’ordine individuarono l’assassino e i suoi scagnozzi.

Le cose sono molto complicate, l’auto (rubata) apparteneva a un ragazzo che la sera prima non era tornato a casa, e del quale, ancora, dopo 10 anni, non si è trovato il corpo.

La trasmissione, in due parti, dura complessivamente un paio d’ore, dopo aver iniziato non sono riuscito a smettere di guardare e ascoltare, per una delle visioni più sconvolgenti degli ultimi tempi, altro che film dell’orrore (che sono finti).

La nota positiva è la forza e il coraggio delle ragazze e di alcune donne adulte, già solo per questo il tempo dedicato alla visione non sarà sprecato.

 

Ecco dove vederlo:

qui la prima parte:

 

qui la seconda parte.

 

 

i giorni successivi mi sono ricordato di un libro, di Nicola Lagioia, che mi aveva lasciato una grande inquietudine.

 

scrive Italo Calvino:

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."


 

ecco cosa avevo scritto di quel libro:

 

La città dei vivi – Nicola Lagioia

Marco e Manuel ammazzano Luca, in modi orribili.

Nicola Lagioia ricostruisce tutte le vicende che ruotano intorno al fatto, dati causa e pretesto, in una Roma che diventa sfondo e protagonista della storia.

quello che sconvolge nella lettura (e nella scrittura) del romanzo è che non ci sono ruoli definiti per l'eternità, ma vittime e carnefici potremmo essere ciascuno di noi, in una sadica e casuale lotteria della vita e della morte.

Nicola Lagioia inizia a seguire la storia dopo un po' dal momento dei fatti, e però non lascia niente d'intentato per riuscire a ricostruire l'indicibile.

ps: il libro ricorda a tratti A sangue freddo (di Truman Capote).

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martedì 28 gennaio 2025

Ça ira, il fiume della rivolta - Tinto Brass

Tinto Brass, quando non filmava solo culi e tette, girava film memorabili.

Ça ira, il fiume della rivolta è uno dei primi film, con filmati di repertorio, montati dal bravissimo Franco (Kim) Arcalli, già montatore di alcune grandi pellicole italiane.

Ça ira è il titolo di una bellissima canzone di Edith Piaf, che accompagna tutto il film.

è un film ottimistico, quando si pensava in un futuro roseo, dopo la sconfitta dei nazisti da parte dell'Unione Sovietica (e qualcun altro) e la impetuosa decolonizzazione.

il ritmo è coinvolgente e sicuramente è un film che continua a dire molto.

buona visione - Ismaele

 

 

 

Tinto Brass nella sua fase di sperimentatore si dimostra un piccolo mago del montaggio di repertorio (complice nientemeno che Kim Arcalli) e dirige un film che mostra l'ottimismo con il quale si vedeva il futuro negli anni del terzomondismo e della decolonizzazione. Un documento prezioso su come le guerre di liberazione avrebbero potuto cambiare il mondo. Purtroppo non è andata così.

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Le vicende che nel corso del Novecento hanno condotto il Mondo sul fronte della Guerra: La Rivoluzione Russa, la Rivoluzione Messicana, la 1° Guerra Mondiale, il Nazismo, il Fascismo, la 2° Guerra Mondiale, i nuovi conflitti e le divisioni del Dopoguerra, etc...Tinto Brass segue la moda del momento e si getta in un Mondo Movies che vuole riflettere sulle rivolte mondiali e la cattiveria umana. Anche se si tratta di scene d'archivio (per lo più di cinegiornali) l'autore le monta in una maniera che vuole indurre al pacifismo sorretto da retorica. Uno dei momenti più belli è appunto fornito dalle immagini di un convegno dove ci sono molti capi di stato alla fine della 2° Guerra Mondiale che ridono e discutono inframmezzate a quelle di cadaveri, bombardamenti, etc... il tutto commentato da una bellissima canzone in lingua francese (ma sottotitolata) che parla di una lettera spedita ad essi dove gli si chiede di non fare più guerre e, se proprio le dovranno fare, che vadano loro a combattere. Davvero commovente. E tutto il film è montato così. Basta già questo a definirlo un "quasi" capolavoro!!!

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domenica 26 gennaio 2025

Il mio giardino persiano - Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha

due solitudini s'incontrano, bastano poche ore, Mahin e Faramarz sono contenti come adolescenti innamorati.

Mahin è un'infermiera in pensione, Faramarz a settant'anni deve ancora lavorare come tassista per sopravvivere.

che un regime oppressivo delle libertà di ascoltare musica, e che ci sia un polizia "morale" per controllare come le donne indossano  l'hijab in modo "corretto" sono condizioni di vita che tolgono il respiro, ma i due innamorandi vivono le loro ore felici.

è un film di gioia e bellezza contro tutto e tutti, nella prima parte, poi succede qualcosa di inatteso, ma sarebbe pura cattiveria anticiparlo qui.

un film da non perdere, promesso, purtroppo è solo in 37 sale in tutta Italia.

buona visione - Ismaele

 

 

...Al secondo lungometraggio dopo Ballad of a White Cow (presentato anche quello in concorso alla Berlinale nel 2021), i due cineasti iraniani costruiscono un altro dolente e intenso ritratto al femminile dopo quello di Mina del film precedente. C’è solo la differenza che Mahin sembra una donna più libera e battagliera e si vede nella scena con cui difende una ragazza dagli agenti nel parco e le impedisce di essere arrestata. Il tono sembra apparentemente più leggero, soprattutto in quell’incontro di notte tra i due protagonisti in una improvvisa notte di sognatori. Così l’efficace della rappresentazione della solitudine (la scena della telefonata di Mahin con la figlia continuamente interrotta e poi improvvisamente troncata) lascia poi spazio in quel gioco seduttivo culminata nella scena in cui i due si fanno la doccia vestiti, probabilmente ennesima beffa nei confronti del proprio paese. Tutto però accade dentro quella casa e si avverte la presenza delle ombre ammonitrici degli interni del cinema di Panahi, come nel taxi di Taxi Teheran e la villa sul mare di Closed Curtain che vedeva tra gli attori anche Maryam Moghaddam. Come in quel film, non ci devono essere rumori sospetti e tutto deve avvenire nell’oscurità, finale compreso. Proprio per questo, proprio alla luce della condizione dei due cineasti, Il mio giardino persiano diventa un gesto politico ribelle nascosto dietro l’amara ironia dei frequenti cambi di tono del film che sono gestiti con un grande equilibrio e con una solidità di scrittura dove il tono da favola è solo una fuggevole illusione.

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...Poco prima di metà film, Il mio giardino persiano si trasferisce completamente in un interno sera/notte – l’appartamento della protagonista – dove Mahin e Faramarz chiacchierano, bevono del proibitissimo vino da un bottiglione, mangiano frutta e dolci, siedono nel giardino tra menta, cedri e gelsomini, ascoltano musica e ballano come ragazzini in barba alla pericolosa vicina spiona…

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Mahin (Lily Farhadpour) è una donna, sola e di una certa età. Una combinazione di fattori che nella Repubblica Islamica dell’Iran difficilmente porta a qualcosa di buono. Mahin parla con la figlia all’estero solo su Face Time, perché non le è più concesso di espatriare, data l’età. Le amiche la vengono a trovare a Teheran di quando in quando e vorrebbero che si risposasse. L’assurdità della situazione, che Il mio giardino persiano cattura con sottile ironia e sentita partecipazione, è che superficialmente Mahin e il mondo di fuori concordano: è arrivato il momento che si trovi qualcuno. Ma se, nel soffocante dettato patriarcale della società iraniana, la solitudine della donna è una mortificazione della morale che solo il matrimonio può sanare – con una chiara definizione dei ruoli e delle gerarchie – Mahin immagina le cose in maniera diametralmente opposta. L’uomo è piacere, è una boccata d’ossigeno, è uno schiaffo agli anni che passano, è libertà.

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martedì 21 gennaio 2025

Il medico della mutua - Luigi Zampa

fino a pochi anni fa il film era di attualità, ora è pura fantascienza, i medici mancano, i medici di famiglia sopratutto.

Alberto Sordi è bravissimo a interpretare un medico avido (figlio di mamma, d'altronde).

la classe medica nel film fa una pessima figura, interessati ai soldi e marginalmente ai pazienti, se non come fonte di reddito.

un film da non perdere, promesso. 

buona (malata) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Una delle commedie all'italiana di maggior incasso, una riuscita satira non troppo corrosiva sulla sanita' statale e sul mondo dei medici (dipinti tutti come arrivisti senza scrupoli e assolutamente disinteressati ai pazienti visti solo come numeri in grado di muovere denaro).Il gruppo di attori è eccellente a partire da Sordi che stavolta è assai misurato(come non gli accade nei film in cui è protagonista)per non parlare della Valeri che dipinge un personaggio memorabile. Ottime le musiche, sempre molto presenti e un finale che puo' essere visto come un'azzeccata premonizione per il futuro.....

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chi meglio del nostro Albertone nazionale poteva interpretare questo mostro partorito da una società improntata al consumismo?!? Una società in cui si lucra anche sulla salute dei cittadini.

Guido Tersilli rappresenta proprio l’italiano medio per antonomasia in quanto risulta essere mammone, donnaiolo, cinico e qualunquista. La grandezza di Alberto Sordi, che grazie a questo ruolo ottenne il David di Donatello e il Globo d’oro come miglior attore protagonista, stava nel riuscire a fare amare al pubblico personaggi che nel quotidiano avrebbe disprezzato.

Il medico della mutua, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe D’Agata (che curò anche il soggetto del film), possiamo tranquillamente definirla come una commedia satirica che, uscita nelle sale italiane nel 1968, sbancò letteralmente i botteghini italiani (il film è stato il secondo maggior incasso della stagione cinematografica italiana 1968-69 con £3.032.637.000), tanto che l’anno successivo il regista Luciano Salce realizzò il sequel dal titolo Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue.

Al grande successo di questa opera, sceneggiata da Luigi Zampa, dal talentuoso Sergio Amidei e dallo stesso Sordi, contribuì anche la colonna sonora di Piero Piccioni con l’indimenticabile Samba fortuna, rimasta nell’immaginario collettivo di milioni di spettatori.

Pertinente con il lungometraggio in questione risulta essere il seguente aforisma sarcastico dell’indimenticato artista Groucho Marx: “L’ultima volta che sono andato dal dottore mi ha dato tante medicine che, una volta guarito, sono stato male per un mese intero.”

In definitiva non si può proprio dire che il dott. Guido Tersilli abbia tenuto fede al giuramento di Ippocrate, possiamo invece affermare con convinzione che ha rispettato piuttosto lo spergiuramento di Ippocrate. Vi auguro buona visione constatando che bisogna essere prudenti nello scegliere il medico della mutua.

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Senza dubbio tra le migliori commedie italiane degli anni Sessanta, e tra i più memorabili personaggi di Sordi. Zampa gira con stile fluido e moderno (i titoli con la soggettiva dalla sirena dell'ambulanza sembrano anticipare uno stilema da poliziottesco), il cast folto e trans-generazionale infila personaggi (o mere comparsate) uno più cult dell'altro. Dalle visite a domicilio al grande ambulatorio, la sceneggiatura è un vortice senza buchi, nonostante la durata -specie per l'epoca- superiore alla media. Indimenticabile lo score di Piccioni.

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Commedie del genere hanno sempre un sapore dolceamaro perché, se da una parte riescono a intrattenere con brillantezza e senza particolari intoppi, dall’altra evidenziano il malcostume che si cela nei palazzi del sistema sanitario nazionale. Il carisma di Sordi maschera bene il cinismo del ruolo, rendendo un personaggio negativo quasi accettabile. Viene da chiedersi se sia cambiato qualcosa nel tempo o se sia rimasto tutto uguale. La forza dell’opera risiede anche nell’universalità dei temi affrontati.

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Ricordo quanto mi piacesse questo film da piccola. Quando ancora il cinema era un'incredibile scoperta capace di procurarmi stupore e meraviglia (ma ci riesce spesso anche oggi, vi assicuro) mi divertivo sempre a guardare Alberto Sordi nei panni del dottor Guido Tersilli, giovane medico rampante oppresso da una madre arpia ed arrivista, andare a caccia dei cosiddetti mutuati. Non sapevo neppure cosa fosse un mutuato ma capivo lo stesso che il cinismo col quale li sfruttava Sordi nel film non doveva essere né cosa buona né giusta. 
A rivedere adesso questo film di Zampa resto colpita dalla cura con cui al tempo si riusciva a far ridere e, nello stesso momento, si cercava di dire qualcosa, di lanciare un messaggio. Il cosiddetto cinema di evasione che conosciamo adesso (volgare, becero, insolente e grossolano) è ben diverso da quello che era allora. Allora si scrivevano sceneggiature, si sapeva dirigere e recitare adesso tutto questo non è più necessario.

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Uno dei più famosi film di Sordi ed uno dei più celebri film italiani di sempre. E' un bellissimo esempio di commedia all'italiana, perfettamente riuscita, che tratta di sanità, di mutua, ma in special modo dell'italiano di allora che, sopraffatto dal mito del benessere e della ricchezza, è disposto a tutto pur di portare a casa qualche lira in più, anche, come il medico di questa pellicola, a sedurre un'orrenda vedova per avere più mutuati, a lavorare giorno e notte fino ad avere un collasso, a perdere la fidanzata di una vita ed a fottere tutti i colleghi.

Tutto ciò ce lo spiega con raffinata e sottile intelligenza, utilizzando la chiave della comicità (poiché spesso è attraverso le gag che passano i messaggi più crudi) Luigi Zampa che, con una regia spiritosa e spietatamente cattiva e disillusa, realizza un film di culto ancora attualissimo (nonostante la mutua non esista più) e probabilmente immortale. Il suo protagonista è un Alberto Sordi in assoluto stato di grazia che rispolvera il suo repertorio comico degli esordi per strappare una risata che morda e faccia pensare.

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lunedì 20 gennaio 2025

Oh, Canada - I tradimenti - Paul Schrader

tratto da un romanzo di Russell Banks (I tradimenti), il film è una confessione di Leonard Fife (Richard Gere), allapresenza della moglie (Uma Thurman), davanti alla macchina da presa, in un documentario di due ex allievi.

Fife, stimato e acclamato regista, sente il bisogno, in punto di morte, di fare i conti con se stesso e di dare l'interpretazione autentica della sua vita, delle sue fughe, della sua vigliaccheria, della sua ansia di lebertà e di sopravvivenza, in Canada, per evitare di farsi distruggere dalla guera del Vietnam.

lo vediamo da giovane (interpretato da Jacob Elordi) indeciso, insicuro, in fuga dalle proprie responsabilità, abbandonare la moglie e il figlio, che trent'anni dopo dirà, con una faccia tosta degna di migliori cause, di non conoscere.

la sua storia va avanti e indietro, e, come nel film di Pedro Almodovar (qui), la Morte è una protagonista, silenziosa e implacabile.

non c'è molto da ridere, nella storia di un moribondo, malato e confuso, che cerca di raccontare, come può, le sue verità.

inquietante, alla fine, la mini telecamera per spioni.

buona (confusa) visione - Ismaele


 

 

 

Schrader fa un’operazione che ha, quasi, il sapore di un saluto con un film dentro il film e tutto ciò che ne deriva. Anche perché tutto inizia proprio con la preparazione della location e della videocamera che andrà a immortalare l’ultima intervista del regista. Tutto in maniera pulita, con ogni gesto accompagnato dalla musica e dai titoli di testa fino al primo potente primo piano del protagonista, come a volerlo incorniciare al centro della scena, a prescindere da tutto e da tutti. È di lui che si parlerà, è lui che parlerà, è lui che sarà il filo conduttore della narrazione, sia essa a colori o in bianco e nero. È lui che dovrà mettersi a nudo davanti allo schermo, raccontando e raccontandosi.

Se anche Leonard, come tanti personaggi del regista sceneggiatore, nasconde malessere e contraddizioni, il suo corrispettivo diventa il film stesso, Oh, Canada, che gli permette di dimostrare, ancora una volta, come il cinema sia in realtà uno strumento ambiguo, soggettivo e spesso privo di una verità assoluta e universale.

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…Oh Canada offre una complessa tessitura di elementi narrativi, tra cui la voce narrante di Leonard anziano, il racconto del figlio adulto Cornel, e una vasta gamma di fonti visive, ciascuna presentata con una distintiva esecuzione formale. Schrader compone i ricordi in filmati widescreen in bianco e nero, alcune scene del presente in formato academy e episodi del passato in un formato 2:35:1 a colori.

 

Il modo in cui tali sequenze vengono presentate non segue tuttavia una logica formale rigorosa, a differenza della precedente trilogia composta da First Reformed, Il collezionista di carte e Il maestro giardiniere, creando in tal modo un'accattivante ambiguità nell'uso di flashback oggettivi, narrazioni alterate e impianti estetici.

 

Dove risiede la verità? Ma soprattutto, è possibile trovarla? Esiste davvero? L'impossibilità di giungere a una soluzione emerge come il nodo cruciale del film. Fife, richiamando la psicoanalisi freudiana, suggerisce che la verità si svela attraverso l'interazione con l'altro, piuttosto che tramite una mera affermazione. Il senso stesso della vita è generato dall'ascolto della parola e nello sguardo dell'altro.

 

In questo contesto, l'altro non è soltanto la moglie di Fife, né il personaggio di Malcolm, ma anche il dispositivo di ripresa che filtra la confessione di Fife, costruita su un groviglio di immagini e ricordi che, talvolta, si muovono fluidamente, altre volte, grazie a ingegnosi espedienti di montaggio, generano fratture nel racconto. In entrambi i casi, lo spettatore diviene un testimone di questo profondo scavo interiore, che procede con un ritmo che riflette la mente del protagonista, oscillando tra attimi di apparente lucidità e momenti di intensa confusione, un viaggio nella memoria disturbato dalla malattia, dai farmaci e dai vuoti.

 

Il film si configura, principalmente, come uno dei saggi sul dispositivo cinematografico più belli e commoventi degli ultimi anni: esplora la sua forza affabulatoria e ingannatrice, la sua persuasività e la sua capacità di generare immaginari (la mente di Fife, legandosi alle varie traduzioni visive del dispositivo, ne produce diversi)…

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Questa volta però, a differenza di capolavori della prim'ora come Taxi Driver e Toro scatenato (dei quali Schrader ha firmato la sceneggiatura) o della sua seconda primavera, come Il collezionista di carte e Il maestro giardiniere (di cui ha curato anche la regia), Tradimenti è confuso e poco a fuoco: il che ha anche un senso drammaturgico, considerato che il suo protagonista è imbottito di antidolorifici che ne alterano il discernimento e racconta la sua vita mescolando fatti e invenzioni. Ma per lo spettatore è difficile venire a capo di una storia che sembra raccontata frettolosamente, dimenticando per strada elementi importanti che probabilmente erano più comprensibili nel romanzo di Banks.
Il che avrebbe ancora una volta un senso rispetto alla vita di Schrader, che negli ultimi anni ha sofferto di una grave malattia respiratoria, ha attraversato un episodio pesante di Covid e visto la sua consorte affrontare l'Alzheimer. Si ha dunque la sensazione che lo sceneggiatore-regista abbia confezionato Tradimenti con la paura di non riuscire a completarlo in tempo, e il risultato finale purtroppo ne soffre. Ci sono molte invenzioni narrative, come il passaggio dal bianco e nero al colore (tendenza frequente nel cinema contemporaneo), il cambio di quattro formati diversi e la scelta di far interpretare Leonard a due attori fisicamente molto dissimili come Jacob Elordi e Richard Gere (inserendo anche in alcune scene del passato un Richard Gere in versione 50enne), o di far incarnare due ruoli, che forse sono in realtà uno solo, alla stessa attrice (Uma Thurman): una struttura drammaturgica che ricorda Io non sono qui di Todd Haynes. Ma l'esito è eccessivamente straniante, al di là dell'intenzione di riprodurre nello spettatore lo smarrimento in cui vive il protagonista…

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Oh Canada – I Tradimenti è un grandissimo film, l’ennesimo, firmato da Paul Schrader, tratto dal (quasi) omonimo libro di Russell Banks, a cui viene dedicato. Un film carico di ritorni, dal biopic per il regista (memorabile il suo Mishima) alla direzione di Richard Gere ben oltre quarant’anni dopo American Gigolo. Un film che riflette sulla potenza delle immagini e della loro reale finzione, di come tutto possa essere veicolato e reso immortale, creando un universo dentro un universo. Un gioco di macro e micro cosmi dentro ai quali si generano domande e ricerche.

Intenso e commovente, bellissimo fino all’ultimo secondo, Paul Schrader ci accompagna in un viaggio che sembra quasi coincidere con il più classico dei film testamento, dove si guarda indietro per mettere un punto definitivo sul presente. Il passato diventa quindi strumento per conciliarsi con sé stessi, per levarsi qualche sassolino dalle scarpe e lavarsi quindi la coscienza dai peccati commessi. Un viaggio verso la redenzione prima del trapasso, mostrato dai repentini cambi d’attore nella stessa sequenza, espediente registico tanto perfetto quanto straniante…

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Da calvinista e da regista, Schrader non può credere all’autorità e al potere espiativo del “sacramento” della confessione. Sa che tra le pagine dei racconti e i quaderni dei diari, l’inchiostro scolora e bisogna far i conti con le omissioni e i fraintendimenti. Per questo nella versione di Fife, tra la nebbia dei ricordi, della malattia e dei farmaci, le traiettorie della storia si confondono. Il percorso diventa un labirinto di frammenti esplosi nell’avanti e indietro nel tempo, che faticano a ricomporsi in un’unità coerente. Le cose si ripetono, i volti si duplicano (perché Emma e Gloria hanno lo stesso volto di Uma Thurman? È un cortocircuito della memoria di un vecchio malato o una connessione tracciata nelle interpretazioni dei segni?). I riflessi deformano la realtà, aprono altre dimensioni dello spazio-tempo. Come in quella straordinaria scena in cui, nel bel mezzo di un flashback, il giovane Jacob Elordi cede il posto all’anziano Richard Gere, ma continua ad apparire nello specchio alle spalle del personaggio. L’occhio inganna e quello che sembra un dato acquisito lascia il posto al dubbio. Il viaggio a Cuba, la diserzione… altro momento fondamentale è quello della visita di leva, che sembra omaggiare Un mercoledì da leoni di Milius.

Ma soprattutto Oh, Canada. I tradimenti è un film in cui la teoria alimenta, in ogni istante, la vita della materia. In cui la fede nelle immagini non è qualcosa che ha fare con la loro evidenza, con la loro capacità di restituire corpi, volti, gesti, azioni, dettagli. Né con il funzionamento della macchina. Il dispositivo resta un’illusione e neanche la microcamera nascosta, quella mosca sul muro con cui Malcolm crede di poter catturare l’istante finale, può cogliere il dettaglio essenziale. Quelle labbra che si muovono e che pronunciano le parole segrete. No, la fede nelle immagini è qualcosa che ha a che fare con l’empatia, come Schrader ha tenuto più volte a ricordarci. È questione di umanità, di sensibilità, di intuizione. E, proprio per questo, Oh, Canada. I tradimenti è un film impietoso e tenerissimo sulla vecchiaia, la morte temuta e vista, sullo spettro della malattia. Sui pentimenti e sugli errori fatti, seppur necessari. Sul bisogno d’amore e l’insopprimibile richiamo della libertà.

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…Purtroppo però Oh, Canada zoppica e convince davvero poco, e si rivela ahimè forse il primo film davvero deludente del grande regista e sceneggiatore Schrader.

Non lo aiuta granché né un Richard Gere che, seppur fisicamente coerente col ruolo del dolente e malato protagonista, si contraddistingue per una performance completamente inerte, apatica, risultando la sua prova davvero poco espressiva e convincente. Non molto diversa la resa dello spilungone Jacob Elordi, divetto in crescita che già fisicamente non convince come un giovane Gere, e che continua a non brillare come attore, nonostante il richiamo che lo annovera tra i divi nascenti più promettenti.

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