Alla fine degli anni Settanta, in Inghilterra, prese piede la teoria criminologica del left realism (realismo di sinistra), che muoveva dalla necessità di prendere sul serio la questione criminale, per non lasciarla nelle mani delle destre. I left realists, tra i cui maggiori esponenti ricordiamo Jock Young e Roger Matthews, proponevano uno schema quadrangolare di lettura dei fenomeni criminali. I vertici del quadrato sono costituiti dai rei, dalle vittime, dal pubblico e dalle agenzie di controllo sociale formali, ovvero la polizia, la magistratura e i servizi sociali, in quanto articolazione dei poteri statali. La lettura dei fenomeni criminali, per il realismo di sinistra, sarebbe la risultante dell’interazione di questi quattro fattori.
Lo schema
analitico del realismo di sinistra ci torna in mente in relazione alla produzione
di serie tv che riguardano fatti di criminalità prodotti dalla piattaforma
Netflix. Da Sanpa, su
San Patrignano, ad ACAB, che propone in versione televisiva anche i
fatti relativi alla protesta No-Tav, passando per Mare Fuori, sulla
criminalità minorile, la piattaforma televisiva si accredita come un attore
sproporzionatamente rilevante in merito alla lettura dei fatti criminali. Ne
scaturiscono la formazione dell’opinione pubblica e una produzione di panico
morale che ispirano molto spesso, specialmente negli ultimi anni, le politiche
governative. In particolare, colpisce come Netflix si collochi sempre
simmetricamente a chi evoca ed avoca l’implementazione di misure maggiormente
repressive per risolvere questioni sociali stridenti. Partendo dalla buona
fede di chi ha prodotto e realizzato le serie, non si possono non riscontrare i
limiti insiti in ogni spettacolarizzazione dei fenomeni sociali, quantomeno di
quelle prodotte in anni recenti. In altre parole, il canovaccio viene adeguato
ai parametri richiesti dal format di successo, per cui bisogna proporre
sempre la dicotomia tra figure positive e negative, con la vittoria ovvia dei
primi, e la resa mediatica consiste nell’accentuazione caricaturale di
queste caratteristiche.
Con
riferimento, in particolare ad ACAB e alla questione del
Tav, le caratteristiche negative si attribuiscono ovviamente ai
protestatari, un po’
affetti da fanatismo ideologico e un altro po’ composti da una popolazione
anziana, nostalgica del passato, non criminalizzabile per questioni di
anagrafe, ma sicuramente preda del fanatismo. Ai No-Tav viene reso l’onore
delle armi all’interno di un’epica degli scontri che, oltre ad essere figlia
del politicamente corretto odierno, marcia in parallelo con quell’estetica
della violenza che fa la fortuna dei prodotti mediatici ispirati
all’azione. Last but not least, la scelta di identificare i
buoni tra le schiere delle forze dell’ordine, è figlia del vento che soffia
dalla caduta del muro di Berlino in poi, per cui chi ricopre un ruolo istituzionale
si colloca sempre dalla parte giusta. Un’impostazione che sorvola sugli
abusi compiuti dalle forze di polizia, in particolare quelli sui dimostranti,
come da Genova 2001 a Pisa nella scorsa primavera, abbiamo avuto modo di
constatare. E che strizza pericolosamente l’occhio all’assunto della premier
per cui “criticare i poliziotti è pericoloso”, tanto da ispirare il disegno di
legge 1660, lo scudo penale per le forze dell’ordine, la modifica (cioè
l’abolizione de facto) del reato di tortura. Le ragioni
della protesta rimangono fuori, eppure avrebbero potuto interessare il
pubblico. Dallo scempio del territorio alla distruzione di intere comunità, per
non dire dello sperpero di ingenti quantitativi di risorse pubbliche, oltre
all’inutilità dell’opera, asserita anche Oltralpe, argomenti con cui attirare
l’attenzione del pubblico ce ne sarebbero stati molti. Altri importanti
aspetti, come la criminalizzazione dei No Tav operata dalla
magistratura torinese, l’uso discutibile degli arresti e delle carcerazioni
preventive, le accuse di terrorismo, la carcerazione di una donna in età
avanzata come Nicoletta Dosio, avrebbero meritato ben altra sorte dell’essere
omessi o considerati implicitamente come normali conseguenze.
Non è la
prima volta, si diceva, che Netflix propone questo tipo di interventi
sull’attualità. Basti pensare a Mare Fuori, dove i
minori protagonisti cadono fatalmente nel loro destino lombrosiano di criminali,
rifuggendo l’aiuto degli angeli istituzionali e le opportunità fornite
all’interno della struttura detentiva. Una rappresentazione fuorviante del
sistema penale minorile italiano, considerato uno dei migliori d’Europa, con
l’utenza penale ridotta ai minimi termini e i detenuti prevalentemente di
origine migrante o rom che scontano la loro marginalità sociale, oltre alla
mancanza di risorse, agli squilibri territoriali in termini di servizi e all’habitus talvolta
familista degli operatori del sistema minorile. Eppure, Mare
Fuori, ha plasmato l’immaginario collettivo rispetto alla devianza minorile,
producendo la proliferazione di articoli e discussioni sulle presunte baby gang
culminate col decreto Caivano e con l’aumento esponenziale dei minori detenuti.
Il rapporto
tra le serie televisive e il pubblico ci permette di tornare allo schema
proposto dai realisti di sinistra. Quando Young e Matthews proposero il
loro schema interpretativo, in uno dei vertici del quadrato del crimine,
ovvero, quello del pubblico, circolavano letture contrapposte dei fenomeni
criminali. I filtri robusti delle organizzazioni di massa, della partecipazione
diffusa, del confronto, che gravitavano attorno alle strutture della classe
operaia, consentivano di proporre valutazioni ed elaborazioni più articolate
dei fenomeni sociali, che avevano la loro ricaduta sia sull’operato degli
apparati statali sia sulla capacità di analizzare i contesti all’interno dei
quali i reati avevano luogo. Soprattutto, la prospettiva, condivisa da
tutti, era quella dell’inclusione, del reinserimento. Fu proprio in questo
contesto che cominciarono a svilupparsi le politiche di riduzione del danno.
Quanto al pubblico, nel caso italiano, oltre alla stampa democratica e
di sinistra, potevamo contare su un apparato di produzione mediatica di livello.
Si pensi al neorealismo, a registi come Pasolini, Lizzani e Montaldo, ad attori
come Gian Maria Volonté, a film come Sciuscià o a lavori
documentali come quello sulla strage di piazza Fontana. Prodotti mediatici che
proponevano un ribaltamento del senso comune, tentavano di egemonizzare il
discorso pubblico, perché rispecchiavano una prospettiva di trasformazione
sociale radicale.
La
ristrutturazione socio-economica neo-liberista, sfaldando le organizzazioni di
massa, evaporando la prospettiva di un cambiamento, comporta la subordinazione
delle opere di divulgazione alla necessità di attrarre audience per
realizzare profitti. Ne consegue un detrimento della qualità dei
prodotti e la circolazione di un senso comune securitario che tracima in una
sfera politica sempre più orientata alla sopravvivenza spiccia. Davvero,
ridateci il neorealismo.