giovedì 4 dicembre 2025

Adolescence - Philip Barantini

il regista, Philip Barantini, è lo stesso di Boiling point, e si vede.

la storia di Adolescence si svolge in quattro atti, quattro visioni, coinvolgimenti, approcci allo stesso fatto, un omicidio terribile commesso da un ragazzino, Jamie, di 13 anni.

nessuno capisce perchè è successo, né la scuola, né la polizia, nè la psicologa, neanche i genitori, solo Jamie potrebbe spiegarlo, ma gli mancano le parole, quello che è successo è troppo reale rispetto a quello che immaginava.

i ragazzini e le ragazzine sono un mondo a parte, sconosciuto agli adulti, le incomprensioni e ignoranze fra adulti e ragazzini/e fanno sembrare i loro mondi antropologicamente diversi, inconciliabili.

un film da non perdere, vedrete.

buona (sofferta) visione - Ismaele

 

 

 

Seppur il piano sequenza sia il segno autoriale del regista - ne è un esempio il film Boiling Point (2021), girato interamente in un’unica ripresa - in Adolescence, il piano sequenza raggiunge la sua acme espressiva. Il suo uso si allontana dall’essere semplice manifesto di virtuosismo tecnico, di maestria registica, è un legame viscerale che si intreccia alle pieghe emotive dei personaggi, alla tensione della storia, e si annoda – stretto – alla percezione di chi guarda. 

La polizia a cui è assegnata l’indagine, l’ispettore capo e il sergente capo, gli insegnati, gli studenti, la famiglia, la psicologa, le guardie carcerarie, Jamie Miller e noi, con loro, siamo incatenati da un filo che non guida, ma trattiene, e affonda nel subconscio collettivo, trascinati in una storia senza stacchi, senza montaggio: una storia vera.

E il “vero” riporta agli anni '20, in Russia. Da un lato Dziga Vertov che, con il suo “cine-occhio”, voleva catturare la vita colta sul fatto, ma non si accontentava di registrarla. La smontava, la scomponeva, la rimontava: la riscriveva al montaggio per rivelarne il senso più profondo, quello invisibile agli occhi. Il montaggio era il suo modo per gridare la verità attraverso l’illusione. Eppure, quella verità era pur sempre una costruzione. Una selezione. Una presa di posizione. 

Dall’altro lato, Alexander Dovzhenko, più vicino a Barantini, che nella sua ricerca della verità rifiuta il montaggio come strumento che frammenta e manipola la realtà. Cattura la verità nella sua interezza, senza distorsioni, per immergere lo spettatore nelle emozioni pure e incontaminate che essa suscita…

…E mentre Jamie si muove nel silenzio della sua rabbia, immerso nell’abisso del mondo digitale, gli adulti – l’ispettore Luke Bascombe (Ashley Walters), il sergente Misha Frank (Faye Marsay), la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty), i docenti, la sua stessa famiglia – restano fermi, aggrappati a un tempo che non esiste più. Proiettati nel passato, in coordinate culturali che hanno perso ogni validità, vengono travolti da una realtà che non riescono più a decifrare.

 

Tutti noi adulti restiamo indietro, colpevoli non solo di ignorare, ma di non saper leggere. Incapaci di cogliere i segnali del disagio, il nuovo linguaggio del dolore, l’urgenza muta che cresce tra i banchi di scuola e dietro gli schermi, dove i bambini vedono violenza, respirano solitudine e si raccontano solo attraverso simboli, like, status. Crescere in questo tempo significa smettere troppo presto di essere piccoli, perché il mondo non aspetta, non protegge, non ascolta.

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Prendete il terzo episodio, il più struggente, il più chiarificatore, il più insostenibile. Quello in cui si fronteggiano Jamie, il ragazzo accusato dell’omicidio (Owen Cooper, scelto tra 400 partecipanti al provino, esordiente, impressionante, bravissimo, clap clap clap) e la psicologa che tenta di capire il perché di tutte le cose. Un lungo dialogo intorno a un tavolino (lei per quasi tutta la durata seduta, lui che si alza seguendo il flusso sinusoidale del suo sconnesso discorso), con le videocamere che si muovono senza sosta, andando spesso ben oltre il bisogno di sottolineatura. Come se fosse una marcatura continua e non una messa in evidenza. E allora, viene da sé, non è una sottolineatura, è un’intenzione ben definita: prendere lo spettatore televisivo e immergerlo nella materia trattata, fare in modo che ne sia pervaso dovunque, senza possibilità di distrazione, sballottandolo avanti e indietro, intorno e in tondo, giocando sul ritmo e sul flusso, più che evidenziando i singoli aspetti drammatici. Che pur ci sono, ma che entrano in una relazione più ampia all’interno di una tensione data dall’ipertrofia dell’azione, non dall’accentuazione dei particolari…

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In molti hanno criticato la scelta degli autori di non rappresentare il cosiddetto lato della vittima (che si chiama Katie e non viene mai mostrata, così come la sua famiglia), ma la mancanza di Adolescence è più ampia: è l’incapacità di chi scrive di svestirsi di uno sguardo giudicante nei confronti di tutti i personaggi che il titolo nomina direttamente.

Che siano vittime, carnefici o comparse. 

La foga nella ricerca di una verità (chi è stato? perché?) si risolve nella rappresentazione approssimativa di una categoria umana di impossible kids troppo compatta, priva di ambiguità, di contraddizioni e di tutti quei retroscena personali che dovrebbero infondere nei personaggi il soffio vitale. 

Tutto quello che gli adolescenti (maschi) sembrano saper fare nella serie è trasgredire su vari livelli: uccidendo, scappando dalla polizia, mentendo con grande cognizione di causa, taggando le fiancate dei furgoni, sfottendo i professori, ridendo in faccia ai poliziotti che, di fronte alla classe, annunciano l’omicidio di Katie.

Tutto quello che le adolescenti (femmine) sembrano saper fare nella serie è prima subire la mascolinità aggressiva dei compagni e poi reagire con rabbia, cattiveria o rassegnazione. 

Il risultato è una messinscena di brutture presentate come normalità, smorzate da fugaci momenti di apertura, di fragilità e di tenerezza che risultano essere fin troppo suggeriti e didascalici per essere credibili.

Emblematica in tal senso è la scena in cui il figlio adolescente di Bascombe spiega al padre - per spiegare allo spettatore - il significato segreto delle emoji nei commenti di Instagram, comportandosi di fatto come il boomer che non è. 

Intendiamoci: Adolescence è una serie che si fa guardare. 

Barantini sceglie di girare le quattro puntate interamente in piano sequenza, con la macchina da presa che segue i personaggi fra i corridoi della centrale di polizia, della scuola e di casa, concedendosi anche di prendere il volo in dronate pirotecniche che servono assist facili ai video di making of.  

Gli attori, grandi e piccini, regalano splendide performance: Stephen Graham si conferma un mostro di bravura, al pari di un giovanissimo Owen Cooper, di cui credo si sentirà molto parlare.

Resta però il fatto che la sceneggiatura e la regia di Adolescence ingabbiano i personaggi con una messinscena che si distingue più per quel che ignora, che per quel che mostra.

Nasce così un’opera che tratta lo spettatore con i guanti, che sceglie troppe angolazioni per potersi permettere di entrare davvero nel vivo, che suona forte l’allarme senza prendersi la responsabilità di dar voce ai veri protagonisti della tragedia. E di ascoltarli…

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La natura inevitabilmente true crime della serie, da questo punto di vista, non rinuncia nel lasciare un grande spazio a un’indagine che a modo suo possiede anche un’anima sentimentale, come nell’esplorazione del rapporto tra il detective Bascombe e suo figlio, o nel soffermarsi esplicitamente sui disagi, sui sensi di colpa e sul futuro della famiglia Miller. In tal senso, Adolescence gioca con la messa in scena evitando le trappole tipiche del genere di riferimento. Lo fa perseguendo strade inaspettate, come il vagare errante delle forze dell’ordine nel secondo episodio, incapaci di comprendere fino in fondo i drammi giovanili, e anche nel suo proiettarsi verso una conclusione che non ambisce ad alcun climax edificante, se non la speranza di una ricomposizione famigliare che comprenda il dolore e la sofferenza…

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Adolescence è un capolavoro di scrittura, regia e recitazione, capace di restituire dignità alla narrazione seriale sfruttando una costruzione in quattro episodi autonomi, tutti diversi ma estremamente coerenti, per porre domande aperte sull’inconoscibilità dell’essere umano. I teenagaer, sospesi tra la vulnerabilità dei bambini e il bisogno di conferme degli adulti, rappresentano una cartina da tornasole efficacissima per raccontare il senso di confusione dell’umanità in un mondo privo riferimenti etici, nel quale i social network offrono solo conferme apparenti o rifugi estremamente soffocanti. La serie di Jack Thorne e Stephen Graham evita tuttavia soluzioni sbrigative e tesi preconfezionate, scegliendo una cifra autorale in cui il ricorso al piano sequenza evoca magnificamente la solitudine dei personaggi, l’assenza di un controcampo nelle relazioni, il filo sottile che lega l’esperienza individuale col resto della comunità, l’incapacità d’imboccare la strada giusta dentro un labirinto di scelte. Una visione straziante, indimenticabile e doverosa, per comprendere meglio dove ci troviamo. 

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martedì 2 dicembre 2025

Armand - Halfdan Ullmann Tøndel

un problema scolastico come tanti, diventa nel corso del film uno psicodramma.

una cosetta da bambini si trasforma in una bomba che esplode nei rapporti fra i genitori, e con la scuola.

una povera maestra cerca di chiudere il problema con i genitori, ma non è così facile.

i bambini non appaiono, meno male, non sono loro il problema.

i bambini sono cugini, cioè le madri sono cognate, e hanno conti da risolvere.

il racconto della madre offesa viene "taroccato" per destabilizzare la cognata.

le attrici e gli attori sono bravi, esprimono bene la tensione della riunione, e il peso della responsabilità genitoriale.

non sarà un capolavoro, ma si vede bene.

buona (scolastica) visione - Ismaele 

 

 

 

 

un film che scava nelle dinamiche che intercorrono tra la scuola e le famiglie, tra le famiglie stesse e all'interno di ognuna di esse. Tøndel, che tra i suoi modelli di riferimento mette al primo posto Buñuel, si concede due sequenze che si staccano dallo stretto realismo ma riesce (grazie anche a un cast perfetto e, in particolare, a una straordinaria Renate Rensve nel ruolo della madre di Armand) ad offrire allo spettatore situazioni in cui il sorriso si mescola alla tensione creata da una situazione insolita ma possibile. È molto positivo poi che i due bambini non vengano coinvolti nella disputa, neppure in flashback. Sono le interpretazioni degli adulti che stanno al centro della scena, con le proiezioni che emergono dal loro vissuto relazionale che vengono sottoposte alla valutazione dello spettatore chiamato, come i personaggi sullo schermo, a cercare di capire dove stia la verità. Chi tra gli spettatori ha fatto parte del corpo docente avrà in più l'occasione di confrontarsi con quanto direttore ed insegnante cercano di porre in atto per arrivare a un risultato condiviso e chiedersi come avrebbe agito in una situazione analoga. Fino ad arrivare ad un epilogo forse atteso. O forse no.

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Armand si configura ben presto come una Via Crucis in cui le colpe sono stazioni di un Calvario da espiare, in cui i fardelli che ogni umano si porta addosso sono le armi non convenzionali di una continua sfida. Ha ragione Federico Gironi, nella sua recensione da Cannes, a sottolineare l’anima urticante del film. Tutti i personaggi sono caricati di una tensione “nera” che sa renderli insopportabili, in qualche modo colpevoli a priori. In Armand si scontrano – coalizzandosi e poi abbandonandosi per coalizzarsi ancora – anime contrapposte. La presunta cristallina purezza di una classe docente che per amor di trasparenza cerca l’insabbiamento; una coppia apparentemente lucida che si perde in respiri di vendetta; una mater dolorosa (Renate Reinsve, al solito magnifica) che, oberata dai sensi di colpa, punta a un’impossibile redenzione.

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Un non-luogo mentale, una sorta di inconscio collettivo in cui segreti e bugie si ramificano e le verità nascoste man mano emergono, ma mai in modo diretto, bensì negli sguardi ambigui, nel non detto o nel sottaciuto, dirottate da improvvise esplosioni di psicodramma, o da coreografie di teatrodanza (straordinario il balletto disarticolato da “bambola meccanica” di Renate Reinsve). Alquanto ambizioso, dunque, l’intento di Halfdan Ullmann Tøndel, fin troppo dimostrativo, da primo della classe, nel momento in cui l’ordito di questo simbolismo urlato si pone troppo in rilievo rispetto alla narrazione, finendo col soffocare le emozioni…

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I dialoghi non paiono mai decollare al di sopra di un canovaccio di illazioni e tic psicolinguistici, che fanno da anticamera all’utilizzo, che in "Armand" diventa quasi un abuso, di scene madri. Come l’attacco di "ridarella" di svariati minuti accorso a Elizabeth, preludio a una crisi di nervi, che Renate Reinsve prova a rendere credibile ma, pur riuscendoci, il palese intento di provocare fastidio allo spettatore non fa altro che ribadire la sua forzata intenzionalità. Oppure il balletto con cui la stessa Elizabeth si accompagna a un inserviente della scuola, i corpi che si accavallano in un’orgia superficiale, le mani che si protendono verso la protagonista superando persino l’allucinazione collettiva. Proprio in queste sequenze possiamo riscontrare alcuni riferimenti: a parere di chi scrive, non al cinema scandinavo pare guardare Halfdan Ullmann Tøndel, bensì ad alcuni episodi perturbanti di un certo cinema autoriale…

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Un quadro reso instabile dal progressivo emergere delle nevrosi dei protagonisti, risate nervose ed incontrollate, scatti d’ira, imbarazzi. E che si trasforma in un dibattimento processuale dove sotto accusa è la madre, per il suo stile di vita emancipato ed un comportamento giudicato da una società ancora bigotta. Un esordio con ampi margini di miglioramento, ma già un ottimo biglietto da visita. Da Renate Reinsve arriva invece una conferma, in un ruolo meno basato sul coinvolgimento fisico,  con maggiore gestualità ed espressività del volto. Lascia invece perplessi il finale, allusivo, metaforico, ed anche superfluo nel mettere il punto a quanto già mostrato in precedenza.

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Nonostante non sia sempre a fuoco nei suoi percorsi ondivaghi, Armand rimane un’operazione coinvolgente, in particolar modo grazie alle interpretazioni impeccabili del cast. Reinsve si riconferma una delle attrici più talentuose del panorama cinematografico nordico, navigando con abilità tra i registri emotivi di un personaggio complesso e insondabile, ma anche le interpretazioni di Ellen Dorrit Petersen e di Endre Hellestveit – nei panni dei genitori dell’altro bambino coinvolto – offrono una controparte emotiva altrettanto valida, arricchendo il film di sfumature sottili e di conflitti inespressi.

Con il suo debutto, Halfdan Ullmann Tøndel dimostra un’indubbia maestria tecnica e un coraggio creativo. Tøndel rivela un talento istintivo nel manipolare il linguaggio visivo per esplorare i confini tra realtà e immaginazione, non offrendo mai risposte chiare o sicure, bensì insinuando nella mente dello spettatore le sue immagini incerte (pensiamo, tra le tante, al giubbotto rosso di un bambino, appeso nel corridoio della scuola), le quali si impongono come sparuti frammenti di senso caratterizzati da una forza insolita, dall’aura misterica, simbolica, liminale.

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lunedì 1 dicembre 2025

Lo schiaffo - Frédéric Hambalek

per un caso fortuito Marielle, 11 anni, da un certo momento in poi, riesce a sentire tutto quello che dicono i genitori, e capisce quanto i genitori siano dei bugiardi patologici, quello che succede davvero è ben altra cosa rispetto a quanto i genitori raccontano a tavola.

i bambini guardano (e ascoltano) i genitori e i genitori non possono più dire bugie impunemente, neanche fra loro.

il film segue la linea di una commedia con tocchi di umorismo nero, niente di straordinario, ma si vede bene.

buona (bugiarda) visione - Ismaele


 

Dietro l'apparenza di una vita perfetta, Julia e Tobias nascondono tensioni e segreti che la loro figlia Marielle è destinata a scoprire. Quando, dopo aver ricevuto uno schiaffo, la bambina sviluppa misteriosi poteri telepatici, nessuna menzogna può più essere taciuta: ogni pensiero, ogni gesto, ogni bugia viene smascherata.
Mentre la verità invade la loro quotidianità, la coppia si ritrova in un gioco di manipolazioni e recriminazioni sempre più assurdo e ironico, che mette a nudo la fragilità dei rapporti familiari e il bisogno, spesso contraddittorio, di sincerità e finzione…

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Alla fine, tutto si congela; tutto è un respiro cinematografico. Quel colpo permane, fragile e potente, come una fiaba che oscilla tra tenebra e luce, un gesto minuscolo che alza l’attenzione sui tratti narrativi più nascosti. In esso risuona l’eco profonda della poesia di Rainer Maria Rilke, dove il silenzio diventa voce più eloquente di un’intonazione qualsiasi. È un cinema che trasforma il quotidiano in lirica, il silenzio in melodia, il gesto in enigma. Un racconto che avvolge senza spiegare, che sussurra anziché gridare, capace di rendere universale il frammento più piccolo, e di mutare la vita in un incanto visivo e sensoriale.

No. Lo Schiaffo diretto da Hambalek è – al presente – una violenza subita, agitazione animalesca, infida e disumana nelle allitterazioni sensibili di una fanciulla. Sono due occhi neri talmente profondi da non accorgersi di quanto ci abbia fatto male la reazione improvvisa e veloce. Il colpo è stato un colpo eppure è sembrato un soffio, un fastidio, un fascio di luce, una mano trasparente che ci ha segnato, ammazzato, che ha stonato, che ha diretto curiosità in verticali e fin troppo laboriose per ciò che dovrebbe essere: amore.

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In un’opera che affida alle piccole verità del quotidiano la propria sostanza, è il lavoro degli attori a determinarne la riuscita, e Lo schiaffo la conquista grazie a un cast che sceglie la via della sottrazione. L’ensemble opta per un registro estremamente naturalistico, in perfetta sintonia con la scrittura secca e arguta di Hambalek: insieme, riescono a creare un ambiente domestico credibile fino al disagio, per quanto attraversato da un’idea soprannaturale. Julia Jentsch e Felix Kramer, nei panni di due genitori doppiogiochisti, maldestri e dolorosamente umani, sono il cuore pulsante del film: attraverso i loro personaggi Hambalek esplora con precisione millimetrica la colpa, la costruzione di un’immagine di sé e l’autodisprezzo che si annida tra le pieghe della rispettabilità. Sono figure sgradevoli eppure, per certi versi, prossime: si ride di loro, ma non senza avvertire il disagio di una vicinanza, come se ogni loro goffo tentativo di salvare la faccia ci rimandasse uno specchio più opaco ma non meno fedele. La sceneggiatura è serrata, rapida, costantemente attraversata da un umorismo asciutto che convive con intuizioni più amare su come le nostre vite siano plasmate dalla performance e dalla disonestà in quasi ogni gesto. Le gag, spesso fulminanti, contengono dichiarazioni ingannevolmente limpide su quanto delle nostre azioni sia mosso da impulsi egoistici e, soprattutto, su come il nostro comportamento muti nel momento in cui sappiamo di essere osservati: non è solo la bambina a scrutare i genitori, siamo noi, di riflesso, a interrogarci su quanto ci esibiamo davanti a chi amiamo. In questo senso il film firma una brillante decostruzione della fragilità dei muri domestici: il matrimonio e la genitorialità vengono mostrati come dispositivi porosi, attraversati da segreti, omissioni, piccoli e grandi tradimenti. Lo schiaffo suggerisce che la disonestà più grande, all’interno di una famiglia, non risieda tanto in ciò che si nasconde, quanto nei ruoli che ci ostiniamo a interpretare, nelle maschere che non abbiamo il coraggio di togliere nemmeno davanti a chi dovrebbe conoscerci davvero. Il ritmo del film è nervoso, quasi irrequieto, e accompagna la crescente assurdità della situazione familiare, come se la messa in scena non riuscisse più a reggere il peso di tutte le bugie. Il montaggio di Anne Fabini calibra con precisione i tempi comici: sa quando tagliare una scena per ottenere il massimo impatto, quando lasciare respirare una battuta, quando interrompere all’improvviso un momento d’intimità per trasformarlo in qualcosa di profondamente imbarazzante…

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Lo schiaffo è girato quasi esclusivamente all’interno di case ed uffici, modelli precisi da colpire per rivelare quanto negli ambienti confortevoli, negli spazi rassicuranti ci siano luoghi ideali per creare un contrasto. Ma sono le persone che li abitano, i loro volti, le loro parole e i loro comportamenti, è insomma il cosiddetto lato attoriale a suscitare ilarità, la espressioni facciali, le smorfie, i tempi comici dei dialoghi, che un buon cast rende efficaci. Venuti i nodi al pettine nel finale il tono acquista maggiore profondità drammatica, ma è sola una chiusa necessaria a sottolineare il cambiamento, a prendere in seria considerazione i problemi, a svegliarsi da quel torpore illusorio in cui vivevano confinati. Dei personaggi viene rivelato il minimo per fornire degli agganci al progredire della storia, che ha un andamento lineare senza sbalzi temporali. Hambalek fotografa il presente, poi lo scombina. La buona riuscita degli sketch è frutto della straordinaria idea iniziale, in quel inserire qualcosa che sfugge al controllo, nel fare ricorso al magico. Un film leggero, di stile poco autoriale, considerata la totale rinuncia ad una prospettiva, ad un’estetica personale. Un film di intrattenimento che non ha sottotesti, ne diversi piani di lettura, perché si dimentica di scavare nelle solitudini, nei desideri inconfessabili. Forse troppo frettoloso a svuotare i caratteri per renderli idonei al meccanismo, ne ignora la psicologia, lasciando allo spettatore una narrazione tutta fatta per il ritmo, una costruzione più televisiva che festivaliera, per quanto poco valgano di questi tempi certe differenze.

Ci manca di capire da dove proviene davvero l’inquietudine di Marielle, ed un sospetto cade inevitabilmente sulla mancanza dei genitori durante il suo processo di crescita, sostituiti dalla nonna materna a tamponare quelle assenze che possono diventare traumatiche. E neanche le fantasie sessuali represse di Julia, risultato di poca attenzione e trascuratezza, o l’insicurezza di Tobias sul lavoro, sono chiari e sono toccati soltanto di passaggio. Uno sguardo più approfondito e meno superficiale nel buio avrebbe reso il film degno di un attenzione che non può andare oltre un semplice svago.

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Hambalek, però, non è Lanthimos, nemmeno Haneke o Seidl: se l’incipit del film, verbalmente esplicito nell’immaginazione di spericolate fantasie sessuali, lasciava presagire un’esplorazione incendiaria delle dinamiche relazionali ed esistenziali, il proseguo delle vicende non trova invece corrispondenze altrettanto marcate, traghettando il film su sponde assai meno brucianti: l’incerto, precario barcollare su cui poggia inizialmente l’opera si distende, via via, in una camminata più convenzionale e ‘anestetizzata’, le misteriose implausibilità che la tengono a galla nella prima parte sfociano, talvolta, in un’ironia goffa e tardiva. Il ‘bisogno’ di raccontare arriva a prevaricare sull’introspezione e lo scandaglio. Conseguentemente, la rimessa a fuoco della propria privacy arriva a placare le fiamme di un microcosmo umano pericolosamente autoriferito. In questo senso, Lo schiaffo, alla resa dei conti, appare più un’occasione mancata che un lungometraggio riuscito. Anche se l’ultima sequenza, prima dei titoli di coda, riaccende la scintilla di una stuzzicante ambiguità interpretativa.

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domenica 30 novembre 2025

40 secondi – Vincenzo Alfieri

il film segue, nelle ultime 24 ore, la vita di alcune persone coinvolte, in qualche modo, nella vicenda criminale, e per questo riusciamo a sapere e capire tante cose.

Willy è un bravo ragazzo, che non riesce a non intervenire in quella che sembra una rissa da discoteca come tante.

ma le cose si complicano, in 40 secondi il dramma esplode, e poi non restano che le lacrime e il dolore.

un film che andrebbe visto in tutte le scuole, ma chissà se succederà.

bravo il regista, gli sceneggiatori e tutti gli attori e le attrici.

un film da non perdere, senza dubbio.

buona (drammatica) visione - Ismaele


ps: da vedere anche:

Preghiera per Willy Monteiro, di Aurelio Picca:  QUI, (su Raiplay)

Un giorno in pretura - Willy, vittima del branco: QUI

(su Raiplay)




 

Non solo Willy si era fatto avanti per aiutare un amico, ma era fermo, immobile, senza alcun segno di attacco o prepotenza quando, dal nulla, i gemelli Gabriele e Marco Bianchi lo hanno attaccato. Nel film chiamati Lorenzo e Federico. In 40 secondi viene raccontato il giorno precedente, si parte da 24 ore prima. Se invece l’adottare la tecnica di narrare una storia da più punti di vista sia qualcosa di già visto, Vincenzo Alfieri va oltre, perché adotta sei diverse prospettive. Si vedono i gemelli, i due ragazzi che furono anche loro condannati per aver in qualche modo aizzato al pestaggio, Michelle, un’amica di Willy, motivo di gelosia tra i due gruppi coinvolti nella rissa, il poliziotto che trovò Willy senza vita e Willy stesso. Ognuna sta trascorrendo una giornata come tante, ognuno non sa che la loro vita cambierà per sempre di lì a poche ore. La tensione, nonostante si sappi cosa succede, fa fremere e palpitare, come se non si sia a conoscenza di quanto stia per accadere…

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40 secondi è un film che andrebbe proiettato nelle scuole. Perché parla di coraggio, amicizia, rispetto, scelte sbagliate e conseguenze irreversibili. Racconta come la violenza possa esplodere in pochi istanti e cambiare per sempre la vita di un’intera comunità. Fa riflettere sulla responsabilità individuale e collettiva. A seguito del caso Willy, il governo Conte introdusse il cosiddetto Daspo Willy: una misura che consente di vietare l’accesso a locali pubblici e aree di ritrovo a persone considerate socialmente pericolose, con l’obiettivo di prevenire aggressioni e violenze nei luoghi della movida.

40 Secondi è un film doloroso e importante. Un film, e una storia, che purtroppo non dimenticheremo mai. È necessario tramandarlo per far sì che incidenti del genere non capitino mai più.

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Nel processo ai fratelli Bianchi, responsabili di un pestaggio violentissimo che ha visto morire il giovane Willy Monteiro, uno dei fratelli dice, e viene citato alla fine del film con il video:

“se la violenza che dite voi fosse vera, essendo noi così esperti in materia, si vedrebbero i segni sul viso e dappertutto, non crede?” Il P.M. risponde: (e il montaggio in questo è eccezionale)” Guardi che Willy è morto!”.

In questa risposta mi sembra di rintracciare altro che non so scrivere ma ci provo: andando oltre al processo, alla difesa chiara di chi non capisce cosa ha fatto o che vuole salvarsi da una condanna che arriverà, saggiamente, con l’ergastolo per la gravità della violenza. Mi sembra di poter dire che in un mondo connesso, la comprensione dei fatti, dei gesti, dei nostri gesti, della forza, delle parole, sia fuori gioco non ci sia più; e allora un film come “40 Secondi” è così prezioso nel ricostruire un fatto brutale, e nel farlo traccia una serie di tasselli…

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Ciò che rende la pellicola così efficace è la sua struttura: quattro punti di vista differenti - Willy (interpretato da Justin De Vivo), Michelle (Beatrice Puccilli), i fratelli Lorenzo e Federico Bianchi (Luca Petrini e Giordano Giansanti), Maurizio (Francesco Gheghi) - convergono nel tragico epilogo finale. La macchina da presa sta letteralmente addosso ai suoi attori, di cui si ricordano dettagli come una linea di matita nera sugli occhi, il viola di un livido, un bacio tatuato o le gocce di sudore sulla fronte. Alfieri, che attore lo è stato, lascia che si muovano liberi nello spazio ma senza mai uscire dai rispettivi personaggi, costringendoli a respirarne gli umori e a restituirli sullo schermo. Ciascuno di loro appare nel suo habitat naturale, privo di filtri e sopraffatto dall'afa di una torrida giornata settembrina…

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…40 secondi è film bellissimo che non scade nella morbosità voyeuristica che purtroppo un dramma simile poteva portare e che Vincenzo Alfieri ha trasformato nel suo C’era una volta a Colleferro omaggiando il povero Willy Monteiro Duarte nello stesso modo con cui Quentin Tarantino omaggio Sharon Tate.

E se non è un colpo da maestro registico questo…

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sabato 29 novembre 2025

Orfeo - Virgilio Villoresi

ispirato a Poema a fumetti (di Dino Buzzati), Virgilio Villoresi gira un'opera originale e coraggiosa, un film di cinema con personaggi umani e insieme cinema d'animazione.

la storia è quella di un amore complicato, Orfeo s'innamora completamente di Berenice, ma la morte la reclama.

Orfeo, disperato, la cerca dappertutto, anche all'inferno, a suo rischio e pericolo, ma non importa, non accetta un'ingiustizia così grande.

nella sua discesa agli inferi, così terrestri e così umani, pieni d'inganni e di falsità, affronta ogni trappola, ogni trucco, lui cerca l'amore della sua vita.

una giostra di colori e di effetti speciali, tutti disegnati, accolgono e accompagnano lo spettatore di un film unico.

lo si può vedere solo in meno di venti sale, ma cercatelo, nessuno se ne pentirà.

buona (amorosa e infernale) visione - Ismaele



 

Orfeo è un esordio che colpisce per coraggio e identità. Nel suo intrecciare mito, artigianato, avanguardia visiva e un immaginario dichiaratamente personale, Virgilio Villoresi firma un’opera prima che non assomiglia a nulla nel panorama italiano contemporaneo. Un film che chiede di essere guardato con abbandono, più che interpretato, e che nella sua visione stratificata e sensoriale lascia intravedere la nascita di un autore vero: uno sguardo capace di rischiare, di costruire mondi e di credere nella potenza delle immagini.

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Orfeo è un pezzo di cinema di altissima qualità, ha il ritmo di un sogno ed è girato con tecniche artigianali e sperimentali insieme; soprattutto, ha il pregio di parlare di qualcosa che la cultura contemporanea non osa più affrontare, la morte, e lo fa parlandone come la fine di tutto, ma come di qualcosa che c’entra con la vita e con il significato delle nostre attese, paure, gioie. È nell’al di là di Poema a fumetti che i morti «con occhi vuoti» guardano «le nubi, il mare, le selve senza più misteri». Che cos’è la vita? Perché si muore? Né Poema a fumetti né Orfeo si azzardano a rispondere. Ma all’uomo che accanto alla porta del giardino misterioso dice che dall’altra parte non c’è nulla, e tutto era fantasia, Buzzati e Villoresi rispondono con una promessa sussurrata: «Un giorno ci rivedremo»

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Giochi di specchi e di illusione che producono "immagini intrappolate nel tempo" e personaggi ossessionati dall'atto del vedere: è forse per questo che negli inferi-in-interni di Villoresi la fanno da padrone le finestre pittoriche, le aperture da e verso il paesaggio, la chiamata in causa della città, lei così ignara delle profondità oniriche che si celano dietro le sue porte all'apparenza più innocue.
In quella milanesità tanto cara a Buzzati (un po' smussata e resa meno novecentesca da Villoresi) c'è una villa dove avvengono metamorfosi, proprio come nelle tavole originali qui ricalcate in inquadratura all'inizio del film. A livello di adattamento siamo davanti a una sottile opera di riconfigurazione, che sa essere insieme fedele e radicalmente diversa. Un po' meno Dalì, un po' più di quella follia cinematografica che ricorda a volte un altro genio folle come Bertrand Mandico…

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…Con il film OrfeoVirgilio Villoresi adatta Poema a fumetti di Dino Buzzati trasformandolo in un viaggio sensoriale e simbolico, che mescola cinema, animazione artigianale e illusioni ottiche. “Orfeo nasce da un immaginario che sentivo vicino,” spiega il regista a proposito del film. “Ho scelto un ritmo che seguisse la logica instabile del sogno, girando in 16mm, costruendo scenografie a mano e usando tecniche legate a effetti ottici concreti. Le animazioni sono in stop motion, mentre una sequenza di danza fonde found footage di repertorio con nuove coreografie, in un omaggio intimo a mia madre, ballerina”.

Il risultato è un’opera che attraversa mito, amore e perdita attraverso un linguaggio che unisce sperimentazione e memoria personale.

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mercoledì 26 novembre 2025

Il maestro - Andrea Di Stefano

il tennis è lo sfondo del film di Andrea Di Stefano.

grazie a Pierfrancesco Favino (Raul) e Tiziano Menichelli (Felice), in uno scambio continuo di sguardi, gesti, battute, contatti fisici (è quello scambio continuo la loro partita a tennis) vediamo un film che fa ridere, ma è anche triste.

Raul diventa per caso l'allenatore/accompagnatore di Felice, un ragazzino che il padre vede come un campione e si affida a Raul per il gran salto verso il successo sportivo.

ma la realtà non è quella che i due vorrebbero e la convivenza fra i due è quella di due perdenti che imparano a volersi bene, complici e quasi amici, a crescere.

Raul ha una storia complicata, con la quale suo malgrado fa i conti, è un uomo che è stato sempre inadeguato, nel tennis come nell'amore.

non è un capolavoro, ma una bellissima storia di perdenti, solo la loro umanità potrà, forse, salvarli.

buona (tennistica?) visione - Ismaele

 

 

Il Maestro è un film che emoziona senza artifici, capace di alternare leggerezza e dolore con grande naturalezza. Favino offre una delle sue interpretazioni più vulnerabili, restituendo a Raul la disperazione e la vitalità di un uomo a metà, mentre Tiziano Menichelli convince con una recitazione spontanea e incisiva. Alcuni personaggi secondari risultano macchiettistici, caricature forse volute ad amplificare il contrasto tra i due protagonisti. L’equilibrio evocato dal tennis – tra attacco e difesa, tra controllo e abbandono – diventa immagine della vita stessa, del bisogno costante di bilanciare desideri e limiti. È un’opera agrodolce, che fa ridere e piangere, che permette di empatizzare con due destini apparentemente lontani ma uniti dalla stessa ricerca di libertà. Un film di formazione, ma anche un film sul fallimento, sulla possibilità di rinascere e di trovare, almeno per un’estate, un maestro dall’altra parte della rete.

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E’ una storia in cui non può non riconoscersi chiunque abbia praticato in giovane età uno sport agonistico: le aspettative di madri e padri, le figure tragicomiche di questi allenatori con un grande avvenire dietro le spalle, che le occasioni mancate della vita e della carriera sportiva se le portano negli occhi. Intorno a questa struttura di viaggio, con la vecchia gloria Raul Gatti che accompagna, appunto, la giovane promessa 13enne Felice per i tornei validi per il ranking nazionale di tennis lungo l’Italia in una estate degli anni ’80, tra Cucuruccuccu Paloma e Drupi alla radio, Di Stefano e Ludovica Rampoldi costruiscono un chiaro omaggio ad un certo cinema italiano agrodolce, tra Dino Risi e Luigi Comencini a, per dire, Sergio Corbucci, senza avere vergogna di spingersi in alcuni momenti puramente grotteschi, e in parentesi visionarie come il Cristo che batte un servizio dalla croce, o la folle fuga sulle note di Cochi & Renato.
“Stiamo giocando un doppio, io e te”, si dicono ad un certo punto l’allievo e il maestro, ed è esattamente così, se da un lato in campo il film segue il percorso di emancipazione di Felice dall’ossessione del padre nei confronti del suo futuro da campione, dall’altro il viaggio tra i tornei sarà per Raul un modo per fare i conti con il proprio passato disastrato.

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Con la sua quarta regia, Andrea Di Stefano firma anche la sua opera migliore, perfettamente in equilibrio tra commedia e melodramma. Il maestro è un doppio racconto di formazione che dà voce a ogni possibile sfumatura della paternità, nucleo del film. Ambientato all'inizio degli anni Ottanta, il film manifesta un'ispirazione non comune (il sacchetto di gettoni telefonici, il Cristo che scende dalla croce, le zingarate per necessità della coppia protagonista), e un gusto preciso per i caratteri secondari, dando vita a una serie di duetti che, quando i due lasciano la racchetta, afferrano la sciabola, salvo poi ritrovarsi uniti in un abbraccio che ha tutto il sapore di un affetto perduto e finalmente ritrovato. Il maestro guarda alla commedia all'italiana e al romanzo picaresco: trasforma il road movie tennistico in un tenero elogio della sconfitta, dove solo chi perde a ripetizione impara a diventare adulto.

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martedì 25 novembre 2025

La critica cinematografica è completamente cambiata con i social, ma non necessariamente in peggio - Francesco Gerardi

Il cinema italiano sta cambiando e sta cambiando il modo in cui viene raccontato. Ovviamente sui social, da figure che non sono proprio dei critici, ma che hanno una sempre maggiore rilevanza.

(Questo articolo è tratto dal numero di Rivista Studio uscito oggi e dedicato al Nuovo cinema italiano. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online)


Lo stato di salute di un’industria cinematografica si misura dallo stato di salute della critica. È un adagio che si è dimostrato vero tutte le volte, in tutti i Paesi, in tutte le epoche. Ai cinici piace ricondurre la cosa a una questione economica, semplice semplice: se un’industria cinematografica è ricca, alla fine questa ricchezza arriva anche ai critici scivolando giù lungo il pendio immaginario della trickle down economics. Se si fanno tanti film è tanto più probabile che tra questi ce ne siano di belli, quindi è tanto più probabile che ci siano persone che andranno a vederli, e tra queste è tanto più probabile ci saranno persone che vorranno parlarne, scriverne, viverne. Il corollario qui è che se un’industria cinematografica è povera, il tasso di povertà maggiore si misurerà tra i critici: se i film sono pochi o non ci sono, di che parliamo? È un adagio che si è dimostrato vero tutte le volte ma che ha smesso di esserlo quando è iniziata internet, come tutte le cose che sono state vere un tempo, d’altronde. La questione ormai si è fatta troppo complicata per essere esaurita pure in un longform, ma la sostanza è: cosa succede a un mercato nel momento in cui a un’offerta sempre maggiore corrisponde una domanda sempre più striminzita? Che quello smette di essere un mercato e diventa un parco giochi, che quello che prima era un lavoro adesso è un hobby, e tornerà a essere un lavoro solo per quelli abbastanza bravi, abbastanza scafati da farne un’attività scalable, monetizzabile. E infatti qual è una delle frasi più rappresentative dell’età di internet? Everyone’s a critic. La frase è una generalizzazione e per questo funziona: se la usassimo per descrivere lo stato delle cose della critica cinematografica italiana, non andremmo troppo lontani dalla realtà.

Ma poi, esistono ancora i critici? Possono esistere davvero, su internet? O bisogna accettare – sarebbe anche l’ora – che certi attrezzi sono ormai scassati ed è inutile continuare a rimetterli nella cassetta? Yotobi, nome d’arte di Karim Musa, è uno dei padri fondatori di YouTube Italia ed è stato anche uno dei primi youtuber italiani a parlare stabilmente di cinema. Ma è un critico, Yotobi? O un divulgatore? O un creator? I film li spiega o li commenta o li usa soltanto come pretesto per produrre un altro contenuto per saziare l’appetito eterno dell’algoritmo? Nonostante tutti gli anni passati dalla recensione che lo fece scoprire a moltissimi (un mirabile video-sclero dedicato ad Amore 14 di Federico Moccia), le domande che ci si poneva all’epoca su Yotobi sono le domande che ci si pone oggi su tutti quelli che sono venuti dopo di lui, grazie a lui, in collaborazione o in opposizione a lui. VictorLaszlo88 (Mattia Ferrari), Matioski (Mattia Pozzoli), BarbieXanax (Marta Suvi), ViolettaRocks (Violetta Rovetto) e tutto il resto della lista, sono davvero dei critici o sono una figura nuova, dei meticci come sono meticci tutti gli animali di internet, un po’ commento, un po’ spiegazione, un po’ contenuto, un po’ pubblicità subliminale? Dare una risposta a questa domanda è quasi impossibile e quasi certamente irrilevante. Fosse anche solo per una questione di reach, come si dice nel loro campo: che siano critici veri e propri o no conta poco, nel momento in cui il discorso sul cinema italiano (e non) oggi avviene sui loro canali, si fa con la loro lingua, segue la loro programmazione.

La passione per la critica cinematografica è essa stessa cinefilia, quindi non ci si può dire cinefili oggi senza aver visto almeno un reel, letto almeno un post di ArteSettima, imprescindibile pagina Instagram. Chiaramente può spiacere, ci mancherebbe: è giusto rimpiangere Cinema nuovo di Guido Aristarco, sognare che oggi tra Instagram e TikTok i creator possano coltivare in laboratorio una rivalità tra Tecla Insolia e Benedetta Porcaroli come quella architettata tra Sophia Loren e Gina Lollobrigida nell’indisciplinatissima redazione di Titanus. Ma qui stiamo parlando dei nostri nonni, e chi di noi vorrebbe davvero assomigliare ai suoi nonni? I reel, buffi, seri, impacciati, semiprofessionali che i tre di ArteSettima hanno prodotto durante l’ultima Mostra del cinema di Venezia non hanno, non possono avere niente a che fare con i dispacci dal Lido che Goffredo Fofi inviava a Torino, alla redazione di Ombre rosse, negli anni che furono. E perché dovrebbero, come potrebbero. Anche la critica cinematografica italiana di oggi somiglia più ai suoi genitori che ai suoi nonni, come tutti, si capisce. A costo di essere sacrileghi, ma quanto si somigliano i tre di ArteSettima che se ne vanno in giro per la Mostra a fare video surreali con addosso i camici dei tecnici di laboratori di CineCittà a Enrico Ghezzi che commenta i film in jeans, T-shirt bianca e audio fuori sincro? Anche in questo caso, come per tutte le cose di internet, non si può certo dire che le cose siano iniziate la prima volta che ci siamo ritrovati online.

Che la figura del critico in Italia stesse cambiando lo sapevamo da un pezzo, ed è ovvio che di Ghezzi possono esistere solo epitomi, solo repliche in scala ridottissima, ma tant’è: pure lui si era inventato un format, anche lui si era fatto creator, iniziasse oggi probabilmente invece di fare il concorso in Rai si aprirebbe un profilo TikTok. È l’economia dell’attenzione, in un mondo in cui a nessuno importa di niente (men che meno del cinema, a giudicare dal botteghino) devi inventarti qualcosa per emergere intatto dal magma del doomscrolling. Questi nuovi critici, chiamiamoli così, alla fine hanno aggiunto qualche nuova dispensa a una lezione già vecchia. Quella di Ghezzi, appunto. Ma pure quella di Marco Giusti, l’altra faccia della moneta: non c’è un canale YouTube, un pagina Instagram, un profilo TikTok oggi che non debba qualcosa a Stracult, a quel linguaggio, a quell’estetica, a quell’approccio. Ovviamente Giusti aveva il physique du rôle, la camicia con la fantasia sfigata abbastanza, la barba incolta di chi non può perdere tempo a radersi, non con tutti i film che ci sono da vedere. Chiaramente, è più facile (pure più giusto) stare a sentire Giusti che parla della Bestia in calore di Luigi Batzella che mr. Marra, con i suoi pettorali guizzanti e le trecce da appropriazione culturale, che spiega Orphan di László Nemes nell’ultima puntata dei Criticoni, popolarissimo vodcast crossover in cui confluiscono gli abbonati ai canali di Federico Frusciante, Francesco Alò, VictorLaszlo88 e appunto mr. Marra. E ci mancherebbe, non sarò io a dire che quello che per me sono stati Giusti e Stracult, per un ragazzino di oggi potrebbero essere mr. Marra e i criticoni. Il deperimento è innegabile, è evidente, ma quei padri hanno prodotto questi figli: internet, i social alla fine hanno semplicemente accelerato un processo che è cominciato quando Ghezzi ha iniziato ad aggeggiare con l’audio o quando Giusti ha alzato il telefono per chiamare G-Max a lavorare con lui. Internet, alla fine, è semplicemente lo spazio e il tempo in cui si sono materializzate tutte le estreme conseguenze che non avremmo mai pensato di affrontare.

E bisogna anche essere onesti, per quanto di amaro sappia questa onestà. Questi nuovi critici non saranno un movimento (ma anche qui, che parola è mai questa, in un’epoca come la nostra?), non avranno la formazione né l’erudizione (chi di noi ce l’ha, rispetto a quelli che nel ‘900 facevano questi mestieri), ma godono di una rilevanza commerciale, promozionale di cui raramente la critica cinematografica ha goduto nella sua storia. Certo, si potrebbe pure dire che basta questo fatto a risolvere la questione di cui sopra: se sei buono, o torni utile, a vendere un film, un critico non sei. Ma inutile che quelli che si sono inventati empie crasi come advertorial e che ogni volta si dimenticano di marchiare con #adv i contenuti sponsorizzati esigano purezza da altri che hanno l’unica colpa di giocare meglio, e vincere, allo stesso gioco a cui loro hanno accettato di giocare. La rilevanza commerciale e promozionale, si diceva: chiunque oggi segua il cinema sa che non c’è film il cui protagonista, regista, sceneggiatore, elettricista, stagista non passi da un podcast. Che adesso non sono manco più podcast ma vodcast, perché funziona così, gli intervalli tra un pivot to e l’altro ormai si fanno sempre più brevi. Cinque anni fa scoprivamo TikTok e i podcast, e sembrava che il video brevissimo e il contenuto audio fossero gli unici formati possibili per il commento e la critica per sopravvivere. Cinque anni dopo, tutti vanno ospiti in vodcast da un’ora e mezza a puntata, a spiegare i fatti del film e pure quelli loro, perché a quanto pare i ragazzini questo guardano, il vodcaster su YouTube come fosse Fabio Fazio su Rai3, e per farti guardare (in sala, soprattutto) questo tocca fare, che tu sia Timothée Chalamet travestito da Bob Dylan o Luca Marinelli che scimmiotta Benito Mussolini. E alla fine cos’è che conta di più, in un movimento cinematografico? Chi parla di un film che tutti hanno già visto o chi convince qualcuno a vedere un film che non sarebbe andato a vedere?

Marinelli è uno che potrebbe farmi da testimone, in questa filippica tutto sommato abbastanza favorevole ai nuovi critici. Qual è la differenza tra uno che è un critico e uno che non lo è? Una risposta potrebbe essere che il critico ti chiede com’è interpretare Mussolini, il non critico invece vuole sapere com’è metter su 20 chili per interpretare Mussolini. Entrambe le domande sono state poste a Marinelli durante la campagna promozionale di M, una in una puntata di ArteSettima e una in una puntata del Bsmnt di Gianluca Gazzoli. A ognuno la scelta, chi è un critico e chi no.

E dei format precedenti e abbandonati cosa resta? Una miriade di content creator, numerosi, invisibili e indistinguibili come i pollini nell’aria, che fanno liste brevi (vanno fortissimo documentari e horror, chissà se queste persone hanno mai avuto ildocumentario.it nel feed o Nocturno tra le mani) e podcast ormai desueti perché se non ti vedo anche non ti sento nemmeno. Quando ero ragazzino, tutti i cinefili che aspiravano a diventare critici ascoltavano un podcast che si chiamava Ricciotto. Prima di mettermi a scrivere questo pezzo, sono andato a controllare la pagina per vedere di cosa avessero parlato nell’ultimo episodio. Ho scoperto che l’ultimo episodio è dell’11 ottobre del 2022. Che fine avranno fatto? Non che importi, in realtà, basterà aspettare il prossimo pivot to per vederli tornare, di nuovo davanti a tutti, pionieri che in realtà hanno continuato a fare la stessa cosa abbastanza a lungo perché tutti si scordassero di loro e li scoprissero di nuovo. Perché su internet la critica cinematografica funziona così: non solo everyone’s a critic, ma once a critic, always a critic. Basta avere pazienza e aspettare il proprio turno, ogni volta.

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lunedì 24 novembre 2025

Heaven Knows What - fratelli Safdie

una storia d'amore e tradimenti del mondo dei tossicodipendenti a New York, Harley (Arielle Holmes), con tutti i casini del mondo, è innamorata di Ilya (Caleb Landry Jones), ma la testa di Ilya è davvero poco affidabile.

il ritmo del film è nervoso, a momenti indiavolato, Harley non riesce a fare a meno di Ilya, riesce anche a convincerlo ad andare via da New York, ma...

un film che merita, i due fratelli registi sono bravi.

buona (drogata) visione - Ismaele 

 

QUI si può vedere il film con sottotitoli italiani


 

…C’è molta realtà dunque alla base di Heaven Knows What, e si vede. Trasuda da ogni immagine, che appare quasi rubata da un’esistenza urbana fatta di incontri e piccoli espedienti utili a sopravvivere e a rimediarsi una dose di eroina. La disperata storia d’amour fou non è però qui soltanto con la droga, essa si incarna anche nella passione malsana di Harley (questo è il nome del personaggio cui dà vita a Holmes) per un compagno di strada, il tenebroso Ilya (l’attore Caleb Landry Jones).
Ma questa macro-narrazione non va a inficiare l’unitarietà né lo scabroso realismo di Heaven Knows What, i due autori riescono infatti a mantenerla sullo sfondo (la coppia è insieme solo in pochi lacerti del film), e lì si posizionano anche loro, con la loro macchina da presa e un potente teleobiettivo, per catturare, senza interferirvi, ogni istante di un’esistenza frenetica, affamata di affetto oltre che di eroina, pulsante vitalità nonostante la costante esposizione alla morte.

Un desiderio smodato altrettanto addictive è quello che spinge Ben e Joshua Safdie a omaggiare con estrema discrezione nel film il loro bagaglio cinefilo e musicofilo. Sul versante audio Heaven Knows What colpisce duro tanto quanto le sue immagini, associandovi le note distorte dei synth del compositore giapponese Isao Tomita e sparandole a un volume quasi insostenibile. Si segnala poi una gustosa citazione di un musicista sufficientemente maledetto: Harley durante una sosta ad un internet point viene infatti sorpresa intenta a visionare un video di Burzum, compositore norvegese black metal, appassionato dell’occulto, nonché omicida…

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Realismo esasperato e schizzato, che si riflette nella regia energica e negli stacchi frenetici di una macchina che non molla i suoi protagonisti e li segue anche e soprattutto quando i reciproci corpi si sfiorano o si battono in duelli corpo a corpo rabbiosi e furenti. Una colonna sono adeguatamente schizzata ed elettronica di rock duro tutto percussioni e suoni allucinati riesce a rendere visivamente concreto il delirio senza fine di un labirinto dal quale uscirne risulta quasi impossibile. Non sappiamo veramente se Arielle, raccontandocelo in prima persona, ci stia assicurando che per lei l'uscita dal tunnel è avvenuta, ma il fatto di vederla percorrere i propri passi nel delirio della discesa agli inferi ci incute una certa impressione, nell'ambito di un film che disturba e dunque coglie nel segno.

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es un irritante acercamiento al subgénero de los drogadictos y la crónica urbana como protagonistas, contando una historia de amor y desamor en las calles de Nueva York que sigue todos los previsibles pasos de un manual de guionista principiante. El potencial de la idea se diluye en feísmo visual y música atronadora. Buscan impactar al espectador a cañonazos, sacudir su ánimo e implicarle en la historia para que sienta lo que Harley, alter ego de Holmes, experimenta cada jornada. Pero ese recurso no siempre funciona. En Heaven knows what, por ejemplo, lo que hace es poner de los nervios. Y un espectador frustrado no es el mejor amigo de una propuesta que ante todo quiere ser honesta. El problema es que esa honestidad tiene más cálculo que de espontaneidad, es una operación donde los elementos están muy claros, así como las intenciones y los resultados deseados. Que no son los obtenidos, ni de cerca. Ganadora del Premio a la Mejor actriz (ex-aequo) en la pasada edición del Festival de Sevilla de Cine Europeo, algo que se entiende más que nada como recompensa a Holmes por haber superado esa parte de su pasado, la película ve reducido su pretendido impacto porque dramas así han sido ficcionados muchas veces en pantalla…

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