Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
martedì 31 gennaio 2017
lunedì 30 gennaio 2017
sabato 28 gennaio 2017
A prova d’errore (Fail Safe) – Sidney Lumet
il film è tutto giocato sulle parole, non succede niente, cioè non vediamo niente, come nella trasmissione radio del giovane Orson Welles del 30 ottobre 1938.
il potere delle parole è sufficiente per riuscire a catturarci, grandi attori, pochi ambienti, praticamente tutti al chiuso, dialoghi serrati ai quali è impossibile sfuggire.
gli automatismi impietosi della tecnologia di guerra e di annientamento non possono essere fermati dalla (buona) volontà dei presidenti, decine di milioni di morti stanno per essere sacrificati in cambio del niente.
dal 1964 sono passati tanti anni, ma non abbiamo imparato troppo.
come dice Salvatore Quasimodo, siamo ancora l'uomo della pietra e della fionda, però in modo tecnologico e irrevocabile.
piccolo film davvero potente, non perdetevelo - Ismaele
il potere delle parole è sufficiente per riuscire a catturarci, grandi attori, pochi ambienti, praticamente tutti al chiuso, dialoghi serrati ai quali è impossibile sfuggire.
gli automatismi impietosi della tecnologia di guerra e di annientamento non possono essere fermati dalla (buona) volontà dei presidenti, decine di milioni di morti stanno per essere sacrificati in cambio del niente.
dal 1964 sono passati tanti anni, ma non abbiamo imparato troppo.
come dice Salvatore Quasimodo, siamo ancora l'uomo della pietra e della fionda, però in modo tecnologico e irrevocabile.
piccolo film davvero potente, non perdetevelo - Ismaele
QUI il film completo, in
inglese
… una pellicola imprescindibile per chiunque, ennesima prova del talento di uno dei registi più sottovalutati di sempre e capace di tenere col fiato sospeso per tutta la sua durata, in un crescendo di tensione che sfocia in uno dei finali più duri e angoscianti dell’intera storia del cinema, che fece prendere alla produzione la decisione di inserire nei titoli di coda una frase rassicurante a proposito dell’improbabilità degli eventi narrati.
… A prova di errore
è comunque un buon film, fortemente sentito dall'attore Henry Fonda che nel
ruolo del presidente tratteggia, con abituale maestria, il ritratto sofferto di
un uomo che vive il peso di dover decidere del futuro dell'umanità e della sua
stessa famiglia. La regia di Lumet sottolinea il dramma inquadrando il
presidente all'interno dello spazio claustrofobico di una disadorna
"stanza dei bottoni" e preferendo al fattore spettacolare un racconto
seccamente dialogato.
da qui
da qui
… Il 1964 è un anno da ricordare perché, oltre ad A prova di errore, uscì anche
quella che potrebbe considerarsi una sua parodia per le similitudine narrative e di alcune scene, ma che non ha
niente a che vedere col film di Lumet, ovvero Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick.
Ciò è dovuto semplicemente al fatto che le due pellicole sono tratte dallo
stesso racconto di Burdick; anzi, Kubrick cercò di fare uscire il suo per primo
in modo da far intentare una causa per l’uscita di A prova di errore, fin
troppo simile alla sua opera. Ma in fondo il senso delle due pellicole è
opposto: se Kubrick dà la colpa della tragedia alla fallibilità umana, per
Lumet le cause
sono adducibili solo alle macchine e alla tecnologia.
Una delle caratteristiche di
questa pellicola è lo scarso movimento della camera. Lumet, nelle sue
inquadrature, mostra tutto il necessario alla comprensione della scena e non
c’è alcun bisogno di muoverla, a patto che non fosse richiesta una ripresa
dall’alto o dal basso. Ciononostante il
ritmo è frenetico, i dialoghi sono paragonabili alle scene di
sparatoria o a qualche inseguimento automobilistico tipici dei film
d’azione e non è da tutti rendere così adrenaliniche delle parole. È anche
per questa capacità (vedasi, a ulteriore riprova, La parola ai giurati) che Lumet
è stato un maestro assoluto del grande cinema statunitense…
…Il
film di Lumet ha un genesi piuttosto curiosa, nasce come opera indipendente a
basso budget ma esce purtroppo nel momento sbagliato, nello stesso anno infatti
Kubrick lavora a Dr. Strangelove (le somiglianze tematiche sono
evidenti), lo stesso Kubrick appoggiato dalla Columbia fa causa a Lumet e alla
produzione del film rivendicando la primogenitura del soggetto.
Legalmente
non si arriva da nessuna parte visto che di fondo c’erano comunque due romanzi
di autori diversi, ma alla fine per “risarcimento” la Columbia si prende il
film di Lumet e lo fa uscire dopo quello di Kubrick, di fatto condannandolo ad
una minore visibilità.
Le
due pellicole comunque sono profondamente diverse nell’opproccio al tema, Lumet
come è nel suo stile costruisce una scenario rigoroso e assolutamente
credibile, la tensione è tangibile fin dall’onirico incipit (il sogno del
matador) e l’obbiettivo è chiaramente quello della denuncia di un sistema ad
alto rischio assolutamente fallibile, Kubrick gioca con la satira raggiungendo
risultati grandiosi ed alla fine esalta la netta differenza tra un ottimo film
(Fail Safe) e un capolavoro (Dr. Strangelove)….
… Sidney
Lumet che si dimostra ancora una volta come un regista di talento inarrivabile,
tra i più bravi di tutti i tempi. Un film di tale potenza e limitata varietà di
luoghi girato praticamente tutto in 4-5 interni diversi, con sporadiche riprese
aeree che dovrebbero essere filmati di repertorio. Insomma un film fatto con
poco. Ma da questo poco il regista riesce a tirar fuori una suspance nei
dialoghi sempre più serrati (un paio di scene su tutte: quella del discorso su
carcerati-bibliotecari di Matthau e quella del primo congresso in presenza del
ministro della difesa sono da ANTOLOGIA del cinema assoluto), una tensione
crescente fatta di primi piani di volti imperlati sempre più frequenti che
prendono il posto delle prime scene quando la situazione è sotto controllo,
dove invece si preferiscono i campi larghi e le panoramiche selle sale. Il
finale poi è agghiacciante ed è destinati a tormentarvi per parecchie ore dopo
la visione, ed è di incredibile coraggio fare un finale del genere, in America,
in quegli anni, e probabilmente lo sarebbe ancora oggi. Da brividi.
C'è poco da fare: questo uomo è un genio e tirare fuori film di tale insopprimibile tensione con una manciata di attori e qualche location con riprese fisse: l'aveva fatto ne La parola ai giurati, lo farà ne quel pomeriggio di un giorno da cani, e lo fà in questo, e il risultato è incredibile, e questo film nel confronto col Dr. Stranamore stesso non ne esce per niente sconfitto, anche se preferire il film di Kubrick non è per nulla uno scandalo, ma parliamo di 2 gemme di film, sia ben chiaro.
Da vedere assolutamente.
C'è poco da fare: questo uomo è un genio e tirare fuori film di tale insopprimibile tensione con una manciata di attori e qualche location con riprese fisse: l'aveva fatto ne La parola ai giurati, lo farà ne quel pomeriggio di un giorno da cani, e lo fà in questo, e il risultato è incredibile, e questo film nel confronto col Dr. Stranamore stesso non ne esce per niente sconfitto, anche se preferire il film di Kubrick non è per nulla uno scandalo, ma parliamo di 2 gemme di film, sia ben chiaro.
Da vedere assolutamente.
venerdì 27 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
martedì 24 gennaio 2017
Aquarius - Kleber Mendonça Filho
Aquarius parte come un film normale, poi cresce
piano piano.
l'asso nella manica è Sonia Braga,
che interpreta Clara, una donna piena di dignità, e di forza, come antidoto
alla tristezza e alla solitudine della vecchiaia che si avvicina.
il film è tragico e comico,
politico e familiare, d'amicizia e di vendetta, di ricatti e resistenza, ce n'è
per tutti i gusti.
homo homini lupus potrebbe essere il sottotitolo del
film, e quei lupi hanno la cravatta e un master nel curriculum.
ma, per una volta, don
Quijote/Clara, pazza fra i sani, riesce a non perdere.
un film che è meglio di quello che
ti aspetti (e però non aspettarti un capolavoro) - Ismaele
…Ciò che più colpisce, in Aquarius è
la sincronicità di battito cardiaco tra il film nel suo insieme e la sua
protagonista. Clara ha vinto un cancro, è ancora giovane, ha bisogno di
sentirsi viva, ascoltando la musica ad alto volume, con il fratello e gli
amici: il film è con lei, con lei sorride, si commuove, pulsa. Clara è vedova,
ora ha un'altra routine: un bagno nell'oceano, un disco melodico, una coccola
ai lunghi capelli; e il film rallenta, si adagia, le sta accanto, per
alleviarne la solitudine non dichiarata, per ribadirne la natura testarda ma
anche spiritosa, e capace di sinceri attaccamenti. Lungo e calmo, Aquarius è
tuttavia anche teso, attraversato da una forza sotterranea, che a volte è
desiderio, a volte rabbia, a volte vita e nient'altro, la forza di Donna Clara.
Sotto un'apparente continuità di tono, varia moltissimo, assecondando ogni
sfumatura psicologica della sua abitante. Perché il cinema è la casa e il
personaggio di Clara è parte di essa, si confonde con essa e sa che non
potrebbe mai andare altrove o essere altro.
Un finale perfettamente congeniato dà ulteriore sostanza ad un film a suo modo intrigante, in cui la musica ha un ruolo di primo piano nel tratteggiare questo sfaccettato ritratto di signora.
Un finale perfettamente congeniato dà ulteriore sostanza ad un film a suo modo intrigante, in cui la musica ha un ruolo di primo piano nel tratteggiare questo sfaccettato ritratto di signora.
…il
film ha un peso specifico da romanzo ottocentesco, coniugato al nostro presente
imperfetto: vivo, pulsante e resistente, in questo Aquarius nuota
la realtà, suona la voglia di vivere appieno. Gioie, dolori, tutto appieno:
finché morte non ci separi da quella che chiamiamo casa, quella che sappiamo
vita. La nostra vita, la vita di Clara.
…La película -una
suerte de ampliación y profundización de varios conflctos trabajados en su film
anterior- se centra en lo íntimo (con la llegada de la vejez), en lo familiar
(la relación afectiva con uno de sus sobrinos, distante con su hija, que la usa
para que cuide al nieto y -otra obsesión brasileña- de fidelidad absoluta con
su empleada doméstica) y finalmente en lo social, con las diferencias de clase
y los abusos y miserias de los poderosos.
Un dato no menor del film es que Clara ha luchado durante varias décadas contra el cáncer (incluso se ve que ha perdido una mama y ha decidido no ponerse una prótesis), pero cuando todo parece servido para el golpe bajo la cuestión ayuda para un impactante, sobrecogedor desenlace (la última parte se titula, precisamente, “El cáncer de Clara”).
Un dato no menor del film es que Clara ha luchado durante varias décadas contra el cáncer (incluso se ve que ha perdido una mama y ha decidido no ponerse una prótesis), pero cuando todo parece servido para el golpe bajo la cuestión ayuda para un impactante, sobrecogedor desenlace (la última parte se titula, precisamente, “El cáncer de Clara”).
Los
140 minutos de Aquarius se justifican. Hay muy pocos momentos
superfluos o caprichosos. La narración abarca muchos conflictos y personajes,
pero nunca pierde el eje, el interés ni la cohesión. La inteligencia del
guionista/director; y la ductilidad asombrosa de Sonia Braga, vulnerable y
arrasadora a la vez, hacen de esta una de las mejores películas
latinoamericanas de los últimos tiempos.
…La grandezza del film è nella determinazione
testarda e nello stesso tempo nella chiarezza profonda di donna Clara nel
difendere il suo habitat. Sola contro lo strapotere di una immobiliare bene
ammanigliata con il potere politico.
Difendere il suo habitat significa rivendicare
la sua dignità, la sua memoria, i suoi affetti e forse anche la sua alterità estetica
e diventa anche simbolicamente una testimonianza politica , perché la
donna non si oppone soltanto alla violenza, ma investiga e scopre ciò che si
nasconde sotto l’apparenza.
Ci sono dialoghi di notevole efficacia dialettica.
Per esempio tra donna Clara e la figlia, dove la sincerità è cruda, nonostante
l’affetto; ma soprattutto con il giovane progettista, uno scontro aspro, dove
non ci sono ne’ vincitori, ne’ vinti, ma due diverse filosofie morali dentro
cui si nasconde una minaccia incombente.
Il finale è una sorpresa che piacerà, perché è
quella vittoria sempre possibile, anche se appariva improbabile, quando ci sono
intelligenza, fermezza e valori che la sostengano. E che ad essere protagonista
sia una donna è un segno dei tempi.
…una
lucha sin tregua que ha alcanzado una intensidad terrible. Pero aquí es donde
apreciaremos fielmente el verdadero yo de Clara, llegaremos a conocer quién es
realmente y cuál es esa historia que ha quedado resumida en tres momentos
anecdóticos hasta el punto de hacernos olvidar el título del filme. Una mujer
que ha luchado incansablemente durante 30 años contra el peor enemigo de la
sociedad contemporánea, no parece probable que vaya a doblegarse porque venga
un niñato de ciudad, malcriado y consentido, a lanzarle, con una rabieta
infantil, una amenaza envuelta en una declaración de guerra para que abandone
su tan preciado Aquarius….
…il
regista – qui a Cannes si dice appartenga a una potente e ricca famiglia, sarà
vero? – ha avuto la furba idea di richiamare in servizio in un film di livello
destinato anche al mercato internazionale Sonia Braga, una leggenda, che
letteralmente si impadronisce di Aquarius e lo piega
a sé. Indipendente, sarcastica, sinceramente anticonformista, figlia degli anni
Sessanta-Settanta, colta, una vera borghese di sinistra (come si dirà in
Brasile radical chic o gauche caviar?). Sembra a momenti di rivedere il cileno Gloria, di cui
l’indomita Clara sembra una replicante. Dona Clara comanda con
autorità servitù e squadre lavoratrici, riduce a docili agnelli anche i machos
più trucibaldi, beve vino, ascolta musica Sixties (è pazza di Maria Bethania,
ma se abbiamo visto bene sul piatto mette anche Roberto Carlos), si mostra nuda
alla macchina da presa con le cicatrici del suo seno asportato dopo un cancro.
Scusate la brutta domanda. Trattasi di trattamento in digitale o il seno a metà
appartiene a Sonia Braga? Quanto al sesso, Clara ne parla sboccatamente con le
amiche, e non esita a chiamare un gigolo peraltro belloccio, gentilissimo e
efficientissimo di cui resta pienamente soddisfatta. Lo scontro finale tra
l’eroina e i cattivi è tremendo, sotto il segno del peggio populismo…
…Mendonça
Filho si perde in un discorso narrativo che sembra anche affascinante ma si
dimostra con il passare dei minuti a grave rischio sterilità: l’ossessione di
Clara nel resistere alla richiesta di vendere l’appartamento apre sì il fianco
a un thriller dell’anima, ma lo fa con una stanchezza di fondo, quasi che lo
stesso regista fatichi a credere fino in fondo a ciò che sta mettendo in scena.
Indeciso se assegnare alla storia canoni kafkiani, scivolare deliberatamente
nel genere (la sequenza con Clara che immagina una figura minacciosa che entra
in casa di notte mentre lei dorme sul divano è una delle più efficaci di Aquarius)
o muoversi nel ritratto di una borghesia benestante ma di sinistra,
incapace di accettare il capitalismo sfrenato ma allo stesso tempo anche di
rinunciare al benessere cui è abituata, Mendonça Filho si muove in maniera
ondivaga, slabbrando la narrazione e sfilacciandola.
Non è certo la secchezza narrativa, infatti, a rifulgere in Aquarius, che si perde al contrario in una lunga serie di aneddoti non sempre interessanti. Anche il tema della menomazione (affettiva, visto che la donna è vedova, ma anche fisica, con quel seno asportato a causa di un tumore che allontana gli uomini) e della mancanza si disperde a tratti in un magma affabulatorio che funziona a intermittenza…
Non è certo la secchezza narrativa, infatti, a rifulgere in Aquarius, che si perde al contrario in una lunga serie di aneddoti non sempre interessanti. Anche il tema della menomazione (affettiva, visto che la donna è vedova, ma anche fisica, con quel seno asportato a causa di un tumore che allontana gli uomini) e della mancanza si disperde a tratti in un magma affabulatorio che funziona a intermittenza…
lunedì 23 gennaio 2017
Jan Svankmajer: 'Disney es el mayor corruptor de la imaginación infantil de la humanidad'
(solo per chi sa lo spagnolo, ma provaci lo stesso, sono parole straordinarie)
Jan Svankmajer no cabe en una única definición.
Encerrar el cine de este artista checo nacido en Praga hace 80 años en el
simple concepto de stop-motion se antoja tan limitado como reducir la
literatura a la lista de la compra. Escultor, marionetista, coleccionista de
rarezas, cartógrafo de sueños, filósofo, agitador de masas, demiurgo y,
finalmente, poeta. "Ten siempre presente
que la poesía es sólo una. La antítesis de la poesía es la
especialización profesional...", reza el primer artículo de su irrenunciable
decálogo. Su quehacer tiene que ver con Poe, Lewis Carrol, Kafka, Arcimboldo,
Goya, el Teatro Negro, André Breton y... con todo lo contrario. Como sus
figuras discontinuas a medio camino entre el barro y la carne, entre la
desesperación y el miedo, el propio Svankmajer se hace y deshace a cada
fotograma que pasa. Y así, toda su filmografía, desde el primer corto de 1964,
'The last trick', hasta 'Surviving life' (2010) pasando por su celebrada
adaptación de Alicia (1987), es el terreno fértil y originario en el que por
cada segundo nace un sueño. Suena extraño y, en realidad, lo es. Por diferente,
único e irresistible.
Ahora La Casa Encendida propone un diálogo entre la
obra del checo con la de otros dos creadores en el límite de la vigilia: Starewitch y los hermanos Quay.
Bajo el nombre de 'Metamorfosis', el arte de recrear la parte de atrás de la
imaginación se materializa en una exposición que se inaugura hoy con el aspecto
y el argumento de un sueño. Turbia y perfecta. Quizá una pesadilla.
Desde antes
de la Teoría del Color Goethe, el sentido que nos define es la vista. ¿Qué
programa revolucionario encierra la reivindicación del tacto?
Vivimos una
civilización audiovisual. Realmente me empecé a interesar por el tacto porque
estoy convencido de que nuestro ojo está pervertido. Recibe ataques constantes
sea de la televisión sea de la multitud de anuncios que nos asaltan. En los
años 70, en el grupo surrealista del que formo parte, empecé a hacer
experimentos. Convertí una foto que encontré en una revista en un objeto
táctil. Lo tapé con una tela e hice que los colegas, sin verlo, configuraran su
propia imagen. Sólo tocándolo. Finalmente, les eneseñé 10 imágenes y ellos
tenían que decir cuál de ellas correspondía con el original. Los resultados
fueron muy interesantes. Desde entonces, me obsesionó el tacto como una forma
de reconstruir nuestro ojo interno.
¿Y dónde
queda la revolución en este proyecto?
Fue una
forma de protesta, sin duda. Este tipo de experimentos coincidió con la censura
de siete años en la que no pude grabar ninguna película. La experimentación
táctil está al otro lado de la cultura audiovisual. Y, como tal, es una forma
de ponerla en duda.
Otro de los
conceptos que está al otro lado es el de infancia. La niñez a la que se dirigen
y de la que hablan sus trabajos está asociada a la imaginación como un terreno
fértil y ciertamente oscuro ¿Hasta qué punto nuestra cultura no ha acabado por pervertir
todo lo relacionado con el mundo de los niños?
La creación
es un proceso fundamentalmente imaginativo. Trabaja con el subconsciente yo
diría que en un 80% y sólo el 20% restante es una intervención controlada. La
infancia, los sueños y el erotismo son las tres fuentes básicas de la creación.
Si uno cierra la puerta de su infancia se condena la posibilidad de crear. De
todas formas, conviene tener en cuenta que la niñez nunca fue ese espacio
idílico que intentan vendernos. Mi mujer decía que el que sobrevive a su
infancia, sobrevive a todo. Y es verdad, lo que ocurre cuando somos niños es
básicamente un ejercicio de domesticación. Entonces, sufrimos los primeros
ataques de represión. Se nos obliga a que hagamos caca y pis en el orinal y eso
ya es una labor represiva. Nacemos dueños de nuestra libertad. La infancia es
una lucha constante por ceder, por saber hasta dónde nos dejamos robar nuestra
libertad.
Así
aprendemos a conocer...
Sin duda.
Pondré un ejemplo. De crío escuchas algo así como: "La duquesa está
sentada". Y te la imaginas sentada en la silla blanca de la cocina. Para
imaginarse un trono rococó hace falta corregir gran parte de la imaginación
original. La mente de un niño es la mente de un poeta. Y así debe de ser.
¿Y qué le
parece el mundo de Disney?
En una
ocasión escribí, y me regañaron mucho por ello, que Disney es el mayor
pervertidor de la imaginación de los niños que ha conocido la humanidad. No
niego que sus primeras películas fueron excepcionales, pero con el tiempo es el
mayor engaño que jamás ha sufrido la infancia. En general, la literatura o el
cine para niños es una gran mentira comercial. El arte para los niños existe
para obligarles a desear o querer algo que les es completamente ajeno. Los
niños son crueles y lo que más les gusta es cualquier cosa que les haga
rebelarse, pues, por naturaleza, se resisten a ser domesticados; se resisten a
la represión que necesariamente el mundo adulto ejerce sobre ellos.
¿Cómo fue su
infancia?
Yo tuve la
suerte de que cuando tuve 8 o 9 años mi padre me regaló un teatro de
marionetas. Para mí cambió el mundo. Con él, representaba las situaciones de
represión que vivía día a día, y así me liberaba. Era un niño introvertido y
muy flacucho. Digamos que no tenía ninguna autoridad entre los otros críos. Ese
teatro me salvo. Todo lo que hago aún hoy lo comparo con mi teatro de
marionetas.
En los 60,
hubo quien encontró un contenido revolucionario a la cultura de masas como la
forma de acabar con el 'establishment'. ¿Qué ha fallado en ese proyecto?
La cultura
de masas y la publicidad son los dos pilares de la civilización. Sin ellos
dejaríamos de consumir y sin el consumo, dejamos de existir. Todo está pensado
para que no pensemos; que no pensemos ni cómo estamos ni qué queremos de la
vida... La cultura popular existe para que nos entretengamos un poco en el
tiempo que pasa desde que salimos del trabajo hasta que volvemos de nuevo a él.
No hay ni ha habido ningún elemento revolucionario en la cultura de masas.
En varias
ocasiones ha repetido que no hace cine sino poesía, que su arte se alimenta de
referencias de todas las disciplinas. ¿Qué consecuencias tiene que el arte
contemporáneo haya abandonado esa concepción renacentista del arte?
Vivimos en
una sociedad que se tiende a especializar en todo. Y no vamos a acabar bien,
porque esta civilización va contra la propia naturaleza humana. Los neurólogos,
no yo, han demostrado que la mente humana es igual que en el neolítico. No
hemos cambiado apenas. Y pese a ello, hemos desterrado la imaginación de nuestra
actividad cotidiana.
Y la
incomunicación, que tanto espacio ocupa en sus películas, ¿es sólo un problema
de nuestra sociedad o de la propia condición humana?
Hice la
película 'Las posibilidades de un diálogo' que, en realidad, se debería llamar
'Las imposibilidades de un diálogo'. La incomunicación está relacionada con las
características de nuestra civilización. Tenemos cada vez más medios de
comunicación y, sin embargo, son sólo ruido. No informan, confunden. Ahora
mismo, la comunicación, lo que entendemos por ella, es una sucesión de frases
hechas sin significado alguno.
¿Qué
significa Kafka para usted?
Kafka para
mí fue una revelación. Recuerdo que los surrealistas ya empezaron a hablar de
Kafka cuando no era totalmente desconocido. Kafka se adelantó a su época.
domenica 22 gennaio 2017
cronache dal futuro prossimo
(una curiosità: un attore che si chiama Cyril Cusack appare in entrambi i film)
sabato 21 gennaio 2017
Zashchitnik Sedov (L'avvocato Sedov) - Evgeniy Tsymbal
solo 40 minuti per un film straordinario, terribile e amaro.
guardatelo e soffritene tutti - Ismaele
…Defense Counsel Sedov was made possible only because of
the inauguration of Mikhail Gorbachev's reforms, allowing for more open
discussion (glasnost) of past misdeeds undertaken by the state. The topic of
the Great Terror, which touched nearly every family in the USSR, had never been
as thoroughly broached previously in any Soviet film as it was in this film.
Here, the Great Terror is exposed for what it truly was – a time of state
sponsored mass killings of innocent people. Defense Counsel Sedov is thus one
of the triumphs of the Gorbachev period.
Not only is the film about a depressing topic and one wrapped up on a pessimistic note, the film is shot in an almost washed-out, dreary black and white. That the film is set during wintertime and that large portions of the film occur in dark, cold Siberia only further contributes to the film's bleak and depressing mood, a mood that was very common across the USSR in the 1980s as economic hardships had begun to wrack the country by this time. The film's haunting score fits perfectly.
Not only is the film about a depressing topic and one wrapped up on a pessimistic note, the film is shot in an almost washed-out, dreary black and white. That the film is set during wintertime and that large portions of the film occur in dark, cold Siberia only further contributes to the film's bleak and depressing mood, a mood that was very common across the USSR in the 1980s as economic hardships had begun to wrack the country by this time. The film's haunting score fits perfectly.
venerdì 20 gennaio 2017
Arrival – Denis Villeneuve
inizia come District 9, alcune astronavi appaiono, senza nessun preavviso.
si scatena il panico, e ci sono le due opzioni, distruggerle o cercare un contatto; miracolosamente prevale la seconda, ma non per troppo tempo, il mondo decide di fargli la guerra, ma succede qualcosa di straordinario (che non dico, naturalmente).
Denis Villeneuve sembra cadere in citazionismo (penso a Malick, tra gli altri) ma è una paura infondata, è troppo bravo e capace per fare il suo cinema.
nella storia il tempo non è quello cronologico, riesce anche ad essere circolare, come comunicano gli alieni.
l'istinto è eliminare quello che non si capisce, o che è troppo diverso da noi, che potrebbe minare le certezze acquisite nel tempo.
la storiella del canguro è proprio un aneddoto sulla comunicazione.
per quanto il film potrebbe sembrarvi strano vi piacerà, non serve capire tutto e subito, contano le sensazioni che il film lascia, e certi momenti sono emozionanti ed entusiasmanti.
per questo non perdetevi questo film, non è fantascienza (lo dico per quelli che la fantascienza la aborriscono, e neanche sanno perché), è "solo" grande cinema, e basta.
e qui finisce la recensione, solo la prima parte però.
---------------------
è che mi torna in mente la fine di Enemy.
un essere enorme copre anche i palazzi, la città intera, un ragno pare, qualcosa di opprimente.
gli "alieni" del film mi sembrano "parenti" di quell'enorme ragno, ma al contrario, non per opprimere ma per liberare.
e se quegli "alieni" non fossero altro che una creazione dell'inconscio collettivo (nel senso di Jung, credo) di milioni di persone disperate, vinte, arrese, ma non del tutto.
e se gli "alieni" fossero lo strumento per ricominciare a vivere una vita che ne valga la pena?
e se Louise fosse il tramite fra la triste realtà e la possibilità di ricominciare? - Ismaele
si scatena il panico, e ci sono le due opzioni, distruggerle o cercare un contatto; miracolosamente prevale la seconda, ma non per troppo tempo, il mondo decide di fargli la guerra, ma succede qualcosa di straordinario (che non dico, naturalmente).
Denis Villeneuve sembra cadere in citazionismo (penso a Malick, tra gli altri) ma è una paura infondata, è troppo bravo e capace per fare il suo cinema.
nella storia il tempo non è quello cronologico, riesce anche ad essere circolare, come comunicano gli alieni.
l'istinto è eliminare quello che non si capisce, o che è troppo diverso da noi, che potrebbe minare le certezze acquisite nel tempo.
la storiella del canguro è proprio un aneddoto sulla comunicazione.
per quanto il film potrebbe sembrarvi strano vi piacerà, non serve capire tutto e subito, contano le sensazioni che il film lascia, e certi momenti sono emozionanti ed entusiasmanti.
per questo non perdetevi questo film, non è fantascienza (lo dico per quelli che la fantascienza la aborriscono, e neanche sanno perché), è "solo" grande cinema, e basta.
e qui finisce la recensione, solo la prima parte però.
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è che mi torna in mente la fine di Enemy.
un essere enorme copre anche i palazzi, la città intera, un ragno pare, qualcosa di opprimente.
gli "alieni" del film mi sembrano "parenti" di quell'enorme ragno, ma al contrario, non per opprimere ma per liberare.
e se quegli "alieni" non fossero altro che una creazione dell'inconscio collettivo (nel senso di Jung, credo) di milioni di persone disperate, vinte, arrese, ma non del tutto.
e se gli "alieni" fossero lo strumento per ricominciare a vivere una vita che ne valga la pena?
e se Louise fosse il tramite fra la triste realtà e la possibilità di ricominciare? - Ismaele
...Amerete
Arrival in qualsiasi caso perché è un film universale, un gigantesco gioco di
specchi fatto per piacere agli appassionati di fantascienza – che accetteranno
senza battere ciglio un paio di soluzioni poco ortodosse in cambio di un’ora e
quaranta di xenolinguistica –, a quelli che nel cinema cercano il sempre
imprescindibile Elemento Umano – che vengono introdotti a due ore di
xenolinguistica dal più classico dei melodrammi familiari, con la promessa di
ritornarci –, a quelli che vanno al cinema perché lo schermo è grosso e la sua
ragione di esistere è ospitare strutture volanti altrettanto enormi, agli
esteti, ai cinefili, a chi è cresciuto con gli Urania e a chi è cresciuto con
Spielberg.
…Arrival è un film affascinante e coinvolgente che si
dipana lungo due piani temporali distinti ma che si confondono senza che ce ne
accorgiamo. Si potrebbe pensare a un Villeneuve in fase spielberghiana. Niente
di più sbagliato...
...Così come qualcuno potrebbe criticare il regista di La donna che canta di aver cercato di emulare Christopher Nolan. Errore. Villeneuve è un regista con una sua visione e una sua idea di cinema ben precisa e Arrival ne è l’ennesima dimostrazione. Attraverso una colonna sonora potentissima e un immaginario fantascientifico originale ed estremamente realistico, Arrival ci fa sprofondare in un viaggio dell’inconscio che, attraverso la metabolizzazione dell’amore e una traslitterazione dei sentimenti, ci dice cose nuove sul cinema e su noi stessi. Non è un film facile, Arrival, ma con l’aiuto dei codici del genere e il ritmo sostenuto che sa infondergli Villeneuve arriva al cuore e alla mente anche di coloro che pensano di aver perso per strada alcuni pezzi.
da qui
...Così come qualcuno potrebbe criticare il regista di La donna che canta di aver cercato di emulare Christopher Nolan. Errore. Villeneuve è un regista con una sua visione e una sua idea di cinema ben precisa e Arrival ne è l’ennesima dimostrazione. Attraverso una colonna sonora potentissima e un immaginario fantascientifico originale ed estremamente realistico, Arrival ci fa sprofondare in un viaggio dell’inconscio che, attraverso la metabolizzazione dell’amore e una traslitterazione dei sentimenti, ci dice cose nuove sul cinema e su noi stessi. Non è un film facile, Arrival, ma con l’aiuto dei codici del genere e il ritmo sostenuto che sa infondergli Villeneuve arriva al cuore e alla mente anche di coloro che pensano di aver perso per strada alcuni pezzi.
da qui
…Villeneuve, nonostante l’oscurità del plot, vero punto
di fragilità dell’operazione, ce la fa a condurre in porto un fantascientico
colossale come esige il mercato senza scadere nella giocattoleria, e invece
attenendosi a quel filone nobile e glorioso della sci-fi umanistica che ormai
sembrava eclissato dalle mostrerie varie con uso e abuso di CGI e quant’altro.
Rispetto alle figurine piatte e bidimensionali, da graphic novel prontamente
riporodotta su grande schermo con la stessa mancanza di profondità, dei vari
reboot di Star Wars e Star Trek e dei pur rispettabili supereroistici Marvel, Arrival più che raccontare di alieni va a
scavare nelle nostre alienazioni, nella gente che sta da questa parte del
cosmo, mostrandone corpi e menti dove stanno incapsulati ricordi angosciosi.
Quella fantascienza che abbiamo conosciuto e amato tra anni Sessanta e
Settanta, da Kubrick fino al meraviglioso Tarkowski di Solaris cui questo Arrival qua e là somiglia, e di Stalker…
da
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…Amy Adams è la scelta perfetta, ha una gamma di espressività vasta e ed è capace di sovrapporre la tensione della paura, alla tensione dell’eccitazione, la voglia di andare avanti con il timore che ci spinge indietro. Tuttavia non basta la bravura. Solo qualche anno fa il ruolo protagonista, quello quello dello scienziato che lotta con i militari per capire l’altro, sarebbe stato affidato ad un uomo. Sarebbe stata una parte buona per Dustin Hoffman, Richard Dreyfuss o Jeff Goldblum a seconda delle annate, e del resto non è diverso da quello di Matthew McConaughey in Interstellar, eppure qui va ad una donna, che lotta contro i maschi per imporre la propria volontà come fa Jessica Chastain in Zero Dark Thirty.
Non è poco, in un film in cui bisogna capire gli alieni che ci sia una donna al centro di tutto che cerca di imporsi. Non è normale e non è usuale. Nelle mani di Villeneuve poi, è anche molto bello.
Non è poco, in un film in cui bisogna capire gli alieni che ci sia una donna al centro di tutto che cerca di imporsi. Non è normale e non è usuale. Nelle mani di Villeneuve poi, è anche molto bello.
…Dopo pochi minuti, gli ingranaggi di una sceneggiatura
non perfettamente oliata iniziano a stridere: se la cinematografia statunitense
nella sua declinazione più smaccatamente hollywoodiana ci ha abituati a
spiegazioni frettolose, dialoghi esplicativi e didascalici per non far perdere
lo spettatore in possibili tecnicismi o passaggi elevati, in
Arrival si segnalano sequenze che rasentano l'auto-parodia. Perché
non può non far sorridere lo sguardo fisso e serissimo con cui il colonnello di
Forest Whitaker attende una risposta dalla professoressa, dopo averle chiesto a
bruciapelo cosa venisse detto in quella serie di versi e suoni che, da
"Alien" al serial "Stranger Things", si susseguono
indistinguibili per rappresentare l'espressione vocale extraterrestre. Ci
rendiamo conto, altresì, che la semplificazione fa parte del cinema e, in
particolare, di quello fabbricato a Hollywood, ma da un'opera con una simile
impostazione e nemmeno troppo velate ambizioni, è lecito attendersi un
trattamento che lavori più di cesello, visto che non tutto può coprire la
perizia visiva del regista. Non possono essere solo casualità e bisogna mettere
in conto che la sceneggiatura di Eric Heisserer, tratta da un racconto
pluripremiato di Ted Chiang, "The Story of Your Life", scricchioli e
ceda laddove una più forte tenuta avrebbe consentito al film un impatto più
potente e una riuscita totale…
… La maggiore suggestione cinefila è data da quello
schermo abbagliante assimilabile a uno schermo cinematografico, così come la
mano che appoggia la Banks, in attesa della reazione dell'extraterrestre, rima
con una delle immagini-simbolo del bergmaniano Persona. Il regista riesce a corporeizzare lo
spaesamento che si prova di fronte a un qualcosa che fino a un momento prima
sembrava inimmaginabile e che, invece, si staglia maestoso davanti a noi, ed è
da questo versante, quella del genuino sense of wonder spielberghiano (e che almeno nella
prima parte innervava anche la super-produzione di Nolan), che il lavoro di
Villeneuve trae il suo punto di forza.
E questo squilibrato, imperfetto esperimento di fantascienza è probabilmente l'opera americana più sentita del suo autore, soprattutto se confrontato ai ben più quadrati ma forse inerti thriller che l'hanno preceduto.
L'ottavo lungometraggio del regista canadese, combinando riflessione umanista e filosofica, si focalizza su due punti solo apparentemente lontani: la comunicazione tra specie diverse e l'amore nella sua declinazione filiale. Se le suddette e fin troppo sbrigative definizioni vi fanno venire in mente il melodramma esploso di Incendies (2010) non state errando perché, per certi versi, è il film di Villeneuve che più si avvicina al cuore pulsante di "Arrival". E perché anch'esso ha come twist un'agnizione profonda che ricalibra la percezione della realtà, degli affetti e dell'esistenza, che forse vale più la pena vivere che tentare di cambiare.
E questo squilibrato, imperfetto esperimento di fantascienza è probabilmente l'opera americana più sentita del suo autore, soprattutto se confrontato ai ben più quadrati ma forse inerti thriller che l'hanno preceduto.
L'ottavo lungometraggio del regista canadese, combinando riflessione umanista e filosofica, si focalizza su due punti solo apparentemente lontani: la comunicazione tra specie diverse e l'amore nella sua declinazione filiale. Se le suddette e fin troppo sbrigative definizioni vi fanno venire in mente il melodramma esploso di Incendies (2010) non state errando perché, per certi versi, è il film di Villeneuve che più si avvicina al cuore pulsante di "Arrival". E perché anch'esso ha come twist un'agnizione profonda che ricalibra la percezione della realtà, degli affetti e dell'esistenza, che forse vale più la pena vivere che tentare di cambiare.
giovedì 19 gennaio 2017
Hannah et le fleuve - Thierry Knauff
mercoledì 18 gennaio 2017
martedì 17 gennaio 2017
lunedì 16 gennaio 2017
The night of - Richard Price, Steven Zaillian
un film
che ti tiene attaccato alla poltrona per tutto il tempo necessario, una
sceneggiatura come poche, attori molto bravi (John Turturro è grandissimo), per
non parlare del gatto.
una storia che è insieme mille
storie, ed è spiazzante indicare un genere (oltre che esercizio per pigri).
The night of sembra essere una serie, ma in realtà, come dice il regista Steven
Zaillian, l'opera nasce come un un film, molto lungo, ma un film, e si vede, in
ogni episodio manca un riassunto delle puntate precedenti, per esempio, come si
fa in tutte le serie tv.
succedono tante cose, impossibile
raccontare il film, sarebbe troppo riduttivo.
mala tempora currunt per i
meccanismi della giustizia, che a volte contraddicono il concetto della
giustizia, per le prigioni, luoghi dove si impara a essere delinquenti, per la
ricerca della verità.
John Stone, piccolo avvocato di
strada, sfigato nella vita, con un figlio che non lo considera, ma testardo
come pochi, è l'unico che, forse, crede in Naz.
cercatelo e godetene tutti, sarà
tempo davvero ben speso - Ismaele
… è il racconto della discesa agli inferi
non solo di Naz, che inizia da bravo ragazzo e finisce da ragazzo (cattivo)
perduto - o con grandi possibilità di perdersi -, ma anche di John Stone, cui
presta volto, ironia e malinconia un grande John Turturro, avvocato da pochi
spiccioli ma dall'istinto quasi animale, uno dei charachters più tristi che
ricordi degli ultimi anni quantomeno sul piccolo schermo, pronto a legare le
sue speranze non solo al giovane assistito ma anche e soprattutto ad un gatto
cui è allergico, e che potrebbe rappresentare l'ultima ancora che allontani la
solitudine; del detective Box, alla ricerca dell'agognata pensione e forse, nel
subconscio, di un'uscita di scena in grande stile, della procuratrice
distrettuale e della giovane avvocatessa di belle speranze, di due genitori che
dopo aver lottato contro l'emarginazione razziale per una vita si trovano a
fronteggiare il dramma e le ripercussioni della vicenda del figlio; di chi è
colpevole e di chi potrebbe esserlo, di chi è abituato a muoversi nella giungla
dei carceri di massima sicurezza, e vede in Naz un "unicorno",
qualcosa che, tra quelle mura, non esiste e forse non esisterà mai.
In The night of tutti perdono, anche quando vincono…
In The night of tutti perdono, anche quando vincono…
…A Naz lo representa Jack
Stone (John Turturro, que el dios de la actuación lo tenga en la gloria), el
abogado ideal para el caso. ¿Por qué? Porque los dos saben lo que es ser
marginado. Los dos conocen de la discriminación. Los dos entienden lo que es vivir
en un mundo que los mira de reojo (Naz, de una familia musulmana, acusado de
terrorista cada dos por tres; Jack, siempre en chancletas por problemas de
alergia en los pies, parece condenado a sacar de la cárcel a prostitutas y
ladrones sin mucha inspiración).
Todo
resulta sutil y elegante. The Night Of apunta a una Nueva
York oscura, alejada de las luces que generan las grandes torres, cercana a la
suciedad de los pasillos, de los barrios de las comunidades (chinos,
musulmanes, judíos), de la comida barata. Esa mirada de la ciudad la aporta el
personaje de Turturro (se encargó del papel que iba a tomar James Gandolfini
antes de morir), que camina por todos lados, pregunta, escarba. Es un abogado
de la calle…
…The Night Of es
enérgica y vibrante. Tiene no solo un estupendo guión, sino una dirección
perfectamente ejecutada y calculada, en este mundillo televisivo donde el
aspecto literario suele brillar mucho más que el visual. Pero el guión es
asimismo excelente, tanto en forma como en fondo, los personajes están
perfectamente desarrollados y muy bien interpretados, y tiene muy claro los
temas que trata: La muestra de que en los tribunales no importa tanto
recolectar hechos para dar con la verdad en torno a un crimen, sino en los
elementos necesarios que permitan construir esa verdad, la cual irá en función
de uno u otro lado de la balanza de la justicia…
… es
un relato de corte criminal que, dentro de este subgénero, brilla sin problemas
por la calidad de todos los ingredientes convocados. Pero es eso al fin y al
cabo, un magnífico entretenimiento de peso de casi diez horas que emite una
clara y distintiva denuncia, la crónica de una ¿injusticia? que sucede todos
los días y ante cada crimen. La presunción de inocencia existe por algo, ya que
bajo la presión adecuada y estudiada su vida con tal objetivo en mente, todos
tenemos potencial de asesinos y se podría vender nuestra imagen como tal. Lo
que Steven Zaillian & Richard Price buscan es evidenciar que el sistema
está roto, y que debe hacerse algo para evitar que las experiencias así sean
vividas por gente antes de probarse su culpabilidad. Y lo hacen con un relato
envolvente y adictivo, excelente en la ejecución y que se cierra con bastante
fortuna (excepto por el ya mencionado uso de Chandra), exponiendo la
inquietante calma tras la tormenta.
…The Night Of è
soprattutto il racconto dei suoi fantastici personaggi, che quasi tutti nascono
come macchiette, semplici cliché, ma trovano velocemente un senso più compiuto
e corposo, mostrandosi in quanto esseri umani sfumati,
grigi, aggrappati alle loro vite. È la storia di come ogni singolo
passaggio di tutta la burocrazia e le azioni che circondano un crimine, dalla
scoperta, all'investigazione, fino poi a un arresto, un'interrogatorio,
un'incarcerazione, un processo, una sentenza, abbia effetti profondamente
stranianti, disumanizzanti, su chiunque venga coinvolto e finisca per diventare
ingranaggio del macchinario. Ed è in fondo anche una riflessione su quel che ci
aspettiamo da un poliziesco televisivo e su quanta distanza passi fra quel che
siamo convinti di voler vedere e quel che invece davvero abbiamo bisogno di
sentirci raccontare. È una miniserie stupenda, scritta, diretta e recitata
alla grande, ed è una fra le cose più belle che siano passate in TV nel 2016. E
ovviamente, immaginarsela senza John Turturro è impossibile.
dice Steven Zaillian:
…“Io e Richard abbiamo visto la serie originale inglese [Criminal
Justice, da cui è tratta The
Night Of], e ci siamo subito detti: mostriamo un caso giudiziario dalla
notte dell’arresto fino alla sua conclusione. Ho scritto una traccia della
storia a partire dall’arresto, l’accusa, la citazione in giudizio e la sua
formalizzazione, ecc. Mi ha aiutato molto guardare tutto nel minimo dettaglio,
compresi i luoghi in cui uno normalmente va in queste circostanze. Questa è
diventata l’architettura generale di The
Night Of. Ma è stato soprattutto l’apporto di Richard e della sua scrittura
a portare a quel livello di dettaglio che desideravo. E poi gli attori, che
sono stati fantastici.”
“È un lavoro impegnativo. Ci sono 470 pagine di
sceneggiatura e oltre 200 attori con battute, e una trama abbastanza intricata.
Un po’ troppo perché un’unica persona si occupi della scrittura. È da tempo che
ammiro le opere di Richard, abbiamo lavorato bene insieme.”
“Richard ha scritto le prime stesure degli episodi, io ho
fatto le riscritture, e insieme abbiamo lavorato sulla creazione delle singole
linee narrative.”
“Ho pensato a The Night Of come a un lungo film, piuttosto
che a una miniserie di 10 episodi. Il tutto ha un inizio, una parte centrale e
una fine. È la classica struttura
cinematografica dei tre atti.“
“Amo un buon dialogo in un film o in TV, ma per me sono
importanti anche le scene in cui i personaggi non parlano. Mi piace una
narrazione completamente visiva. Richard dice che in un romanzo puoi raccontare
direttamente la vita interiore di un personaggio, ma al cinema o in una serie
devi mostrarla facendo vedere il mondo attraverso gli occhi del personaggio, e
per farlo devi passare del tempo su di lui, senza spostare l’attenzione su
altro.”
domenica 15 gennaio 2017
sabato 14 gennaio 2017
giovedì 12 gennaio 2017
mercoledì 11 gennaio 2017
martedì 10 gennaio 2017
’71 - Yann Demange
girato in Inghilterra (e non a
Belfast, vedi qui), '71 fa ripiombare in mezzo alla guerra
civile, quartiere per quartiere, casa per casa, con l'intervento della
civilissima Gran Bretagna (la stessa che metteva in galera, fino a non troppi
anni fa, gli omosessuali, vedi qui).
il soldato Gary Hook trascorre la
notte più terribile della sua vita, notte nella quale non è facile distinguere
nemici e meno nemici.
se la caverà, fortuna, intuito e
molto culo lo aiutano.
gran bel film, latitante in sala,
naturalmente, da recuperare senza esitazione - Ismaele
QUI si può guardare il film in italiano
…un esordio nel lungometraggio di un regista acclamato per la
serie Top Boy il quale non è tanto
interessato ad indagare su torti e ragioni degli uni e degli altri o alla
ricostruzione storica. Ciò che lo coinvolge e lo spinge a realizzare un film in
cui la macchina da presa è in costante movimento non è neppure l'azione
finalizzata a se stessa. Gli interessa invece proporre una riflessione (non
dimenticando lo spettacolo) sul ruolo assegnato a giovani, ragazzi e bambini in
qualsiasi conflitto e ancor più in quelli che lacerano al proprio interno una
nazione. A partire dalla recluta Hook (non dimentichiamo che in inglese il
termine significa gancio/uncino) '71 è
un susseguirsi di speranze, fragilità, possibilità di futuro che vengono
infrante da una logica demolitrice di qualsiasi ideale che non sia portatore di
morte per il 'nemico' del momento. Chi sembra voler combattere per un futuro
migliore da consegnare alle nuove generazioni in realtà ne sta bruciando,
giorno dopo giorno, idealmente e materialmente le esistenze. È un film questo
in cui lo sguardo e il corpo sempre più segnati del protagonista si aggirano
inizialmente interroganti e poi in cerca di salvezza in un inferno in cui anche
la luce è sporca e ragazzini e coetanei ne hanno interiorizzato l'ammorbante
pervasività che sembra non lasciare scampo.
…Yann
Demange si “limita” a mostrare l’assurdità della violenza, la totale
mostruosità della guerra, e lo fa tracciando le linee di una Odissea senza dei
e senza eroi, in cui solo il sangue può lavare via l’odore del sangue. Un film
incompiuto e imperfetto che viene però naturale difendere, sia per l’afflato
che lo anima sia (ancor più) per un’idea di cinema civile che non abbandona mai
i solchi del popolare.
…C'è una tensione costante priva di pause e
cedimenti, pur nella mancanza deliberata di una suspense costruita secondo i
dettami consueti.
L'alternanza (snervante) sta tutta nei pochi
vantaggi cognitivi concessi appositamente al pubblico per approntare il ribaltamento
beffardo di ogni apparenza: Demange (e la sceneggiatura di Gregory Burke)
prepara sempre accuratamente l'ambito della sequenza, senza perdersi nella
velocità di esecuzione della messa in scena; dispone le eventualità, informando
sulle minacce imminenti, e capovolgendo qualunque attesa si possa generare.
Qualora qualcuno fosse interessato a questo
aspetto, si potrebbe sollevare un problema morale privo di alcuna
soluzione: non esistono buoni e cattivi, non esiste una parte per cui
parteggiare (a meno che non si sia membri dell'IRA o fieri lealisti, ma non è
il nostro caso). Anche le istituzioni mostrano il loro aspetto marcescente.
Esiste soltanto la purezza del bambino che il soldato Hook, indicativamente,
riabbraccia alla fine. Si punta esclusivamente a rimanere vivi.
La traduzione sul piano narrativo è un'attesa
continua, un senso d'incombenza che vive sulle illusioni di salvezza e
sull'inversione: ci si salva quando ci si crede irrimediabilmente perduti, si
cade nella rete se si allenta anche solo per un istante l'inevitabile tensione.
Il sorgere del sole è un sospiro di sollievo.
Esistenziale.
…Contraddistinto
da una fotografia livida e spettrale, ’71 è un
esercizio di stile e di narrazione. Infatti laddove la complessità della trama
e dei volti possono confondere, la pellicola tende a sommare e a non lasciare
scampo, ostentando un susseguirsi di violento non sense. Un film
che non è interessato a indagare su torti e ragioni e nemmeno a prostrarsi a
una fedele ricostruzione storica, ma che preferisce immergere lo spettatore in
un’azione frenetica, che si interroga sul ruolo assegnato ai giovani
all’interno di qualsiasi conflitto…
…un gran bel thriller con qualche
momento vagamente action, che utilizza il contesto storico, politico e sociale
più che altro per dare uno sfondo solido alla tensione dettata dagli eventi.
Yann Demange, al suo esordio cinematografico, dirige con una padronanza
notevole e confeziona un centinaio di minuti coinvolgenti, tesi, brutali,
basati su uno spunto certo risaputo, ma utilizzato benissimo. È genere puro,
senza pretese di raccontare in maniera approfondita il periodo o le
implicazioni sociali e politiche degli eventi, ma che riesce a non banalizzare
o mancare di rispetto agli stessi, tratteggiandoli in maniera convincente nei
momenti di raccordo che intervallano l'azione.
Il protagonista,
interpretato da un Jack O'Connell come al solito ottimo nel mescolare ingenua
vulnerabilità e una certa qual presenza ruvida, viene infatti per ampi tratti
messo da parte, in modo da dare spazio a un bell'intreccio, che fa incontrare
militanti più o meno moderati, militari, soldati sotto copertura e cittadini
presi nel mezzo da una rete di doppi giochi e macchinazioni. E il risultato,
anche grazie a un manipolo di attori in formissima, è davvero notevole, non si
abbandona mai ai facili patetismi pur raccontando qualche discreta tragedia e
spinge dritto verso un finale duro, senza compromessi, di quelli che lasciano
l'amaro in bocca. Insomma, consigliatissimo.
Consigliatissimo
anche l'utilizzo di sottotitoli per chi dovesse decidere di recuperarlo in
lingua originale, ché è tutto un borbottare a base di accenti spinti.
lunedì 9 gennaio 2017
Il cliente – Asghar Fahradi
Asghar Fahradi è uno che fa capolavori o film bellissimi, e quindi si perde molto chi fa le classifiche e guarda i film facendo confronti.
la storia parte lenta e poi diventa un gioco a incastri senza possibilità di fuga, per chi vede il film.
qualcuno penserà che la storia sia irreale, si ricordi che siamo a Teheran, e non a Parigi.
ma anche a Teheran il motore della vendetta è sempre in moto, come dappertutto, solo che qui gli esiti sono imprevedibili.
e cosa succederà, dopo, a Emad e Rana, nel grande teatro della vita, non lo sapremo mai.
da non perdere - Ismaele
la storia parte lenta e poi diventa un gioco a incastri senza possibilità di fuga, per chi vede il film.
qualcuno penserà che la storia sia irreale, si ricordi che siamo a Teheran, e non a Parigi.
ma anche a Teheran il motore della vendetta è sempre in moto, come dappertutto, solo che qui gli esiti sono imprevedibili.
e cosa succederà, dopo, a Emad e Rana, nel grande teatro della vita, non lo sapremo mai.
da non perdere - Ismaele
Siamo a Teheran. Un uomo, che non è suo marito, è
entrato nella casa di Rana e l’ha vista nuda mentre si faceva la doccia. Magari
è successa anche qualche altra cosa, ma non lo sappiamo perché lei è svenuta e
non ricorda. Il marito, Emad, è disperato e indaga su chi possa essere stato.
Rana perde qualsiasi allegria che aveva dimostrato fino a lì. E ci si prepara
alla vendetta…
…La narrazione di Farhadi ha fascino e
sentimento; riesce a trattare questioni profondamente umane con una sobrietà
formale e con un’intelligenza lucidissima che lascia senza fiato.
Interpretato con un senso di straziante autenticità, questo gioiello di Farhadi è un congegno impeccabile, che mantiene lo spettatore sul filo tagliente della suspense, dove in gioco ci sono la vendetta contro la morale e l’orgoglio contro l’amore.
Come nei film precedenti di Farhadi, la casa e la città occupano un posto fondamentale all’interno delle storie che racconta.
Il Cliente è una tragedia dentro la tragedia…
Interpretato con un senso di straziante autenticità, questo gioiello di Farhadi è un congegno impeccabile, che mantiene lo spettatore sul filo tagliente della suspense, dove in gioco ci sono la vendetta contro la morale e l’orgoglio contro l’amore.
Come nei film precedenti di Farhadi, la casa e la città occupano un posto fondamentale all’interno delle storie che racconta.
Il Cliente è una tragedia dentro la tragedia…
…Come sempre in Farhadi, un fatto innesca
un effetto valanga, per cui niente e nessuno sarà più come prima, tutti son
costretti a nascondere qualcosa di sé, e tutto rischia di crollare. Come il
palazzo dell’inizio. Si resta ammirati, esattamente come in Una separazione, di fronte all’escalation delle rivelazioni e dei colpi di
scena, e di come la realtà e le stesse persone cambino velocissimamente sotto
ai nostri occhi mostrando ambiguità insospettabili. Il solito gioco à la
Farhadi della dissimulazione, della doppiezza, dell’inganno, del depistaggio.
Gioco condotto ancora una volta con maestria assoluta…
…Appena da spettatori si entra
all’interno del meccanismo generale della rivalsa, dell’indagine, della cura,
l’empatia con i personaggi si fa assoluta, ma non tutto è prevedibile. Le linee
di sceneggiatura creano infatti almeno due grandi fazioni ed è assolutamente
soggettivo parteggiare per una o per l’altra alla fine della rappresentazione.
Chi si sente dalla parte di Emad, sente crescere per tutto il film un senso di
rabbia, di violenza, di rivalsa, chi è più vicino alla sensibilità di Rana è
invece più propenso a perdonare, a restaurare una situazione già drammatica di
suo, senza renderla ancor più dolorosa. L’unica certezza è che la ritorsione,
il regolamento di conti, è un automatismo animalesco, un procedimento che
annega nella colpa anche chi è sempre stato dalla parte della ragione,
generando nuovi colpevoli. Per rinascere davvero e andare incontro alla
redenzione, sia a livello umano che politico, tocca guardare oltre, diventare
esseri umani e porgere l’altra guancia. Anche se questa è già martoriata.
…Il cliente riesce miracolosamente a parlarci sia della possibile
ambiguità di chi ha il compito di mettere in scena un mondo, sia di quello
stesso mondo, di una società come quella iraniana in rapido mutamento dove non
vi è più spazio per i ‘salesman’, per chi prova a vivere alla giornata, per le
incarnazioni del neorealismo italiano e iraniano. E in un accesso di odio di
classe, Amed guarda con disprezzo i miseri palazzi che ha di fronte e impreca:
“Bisognerebbe buttare giù tutto e ricostruire”. “L’hanno già fatto e guarda
cosa ne è venuto fuori”, gli risponde saggiamente un amico. Ecco, siamo sempre
al discorso dello sviluppo senza progresso, dei paraventi e degli ostacoli che
una società avanzata ci mette davanti agli occhi per nascondere il suo potere e
il suo falso benessere. Farhadi ha trovato il modo per raccontare tutto ciò e
questa sua condizione lo pone in una rosa ristrettissima di cineasti
contemporanei, tra cui va annoverato senz’altro anche Jia Zhangke, capaci di
raccontare il presente e le sue mistificanti contraddizioni.
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