giovedì 21 maggio 2015

I disperati di Sandor (Szegénylegények) – Miklos Jancsò

niente montagne, un fortino nella puszta ungherese, guardie e prigionieri dopo le mancate rivoluzioni del 1848.
in una prigione ispirata al panopticon si tratta di far parlare qualcuno, hanno arrestato tutti gli uomini di un villaggio che dà aiuto e riparo ai ribelli, per ottenere informazioni utili ai militati austroungarici, precursori dei metodi nazisti e del Vietnam e di Abu Ghraib (non si inventa niente).
la delazione e le promesse di liberazione e di punizione sono il motore della macchina assassina.
è un film geometrico, come il panopticon, girato in cinemascope.
la tensione non si allenta, e cresce fino all'epilogo.
da non perdere - Ismaele










Il film restituisce il claustrofobico senso di prigionia a cui sono costretti i ribelli di un ordine costituito; e non gli sono certo estranee le memorie brucianti dei lager (e forse dei gulag), ma il distacco emotivo dalla vicenda descritta esclude il dramma storico. Persino le musiche sono bandite, salvo le parentesi della fine e dell’inizio, dove non a caso riecheggiano le note del Lied der Deutschen, l’inno nazionale tedesco. Nella stessa sigla a ben guardare v’è sorta di dichiarazione d’intenti: essa è costruita con l’assemblaggio di immagini in bianco e nero, scheletri di piantine progettuali suddivise in blocchi, in cui vengono messe a confronto la nuova civiltà borghese e industriale e quella contadina, soffermandosi soprattutto su abitazioni e strumenti da lavoro. Alla civiltà borghese vengono attribuite anche la paternità dei nuovi ritrovati scientifici, dalle armi ai nuovi mezzi di trasporto. Sul finire appare poi una breve teoria di strumenti di tortura, mentre la voce fuori campo finisce di illustrare il tempo e il luogo a cui fa riferimento il film. Di là quindi dall’esplicito rimando alla più recente epifania nazi-fascista dei campi di sterminio, è evidente che I disperati di Sandor (e più in generale tutto il cinema di Jancsó) rivolge un’accusa contro l’arco di storia che si distende dal tempo della rivoluzione industriale e dall’Illuminismo sino ad oggi. È da lì, dall’astratta logica delle macchine, che nasce il moderno potere tirannico e burocratico, il quale riduce in un solo schieramento tutti i suoi detentori al pari ottusi.
Jancsó vive come un incubo surreale, una trappola metafisica, la Storia e i suoi travestimenti successivi.
A dispetto quindi delle apparenze si dovrà meditare su un motivo più riposto, fino a toccare il nervo scoperto della rivoluzione subìta…



I disperati di Sándor è, indubbiamente, tra le opere chiave del cinema moderno europeo. Parallelamente, il suo autore, Miklós Jancsó, è stato il regista che meglio ha rappresentato la új hullám – ovvero, la Nouvelle vague ungherse – durante gli anni Sessanta. In un periodo di grande rinnovamento nel campo del linguaggio cinematografico, infatti, I disperati di Sándor ha rappresentato un punto di svolta fondamentale, gettando le basi per tantissimo cinema, storico, politico e d’avanguardia di quegli anni. Questo, sia per l’aver affrontato tematiche scomode e spinose – ovvero, un periodo di forte repressione, di quasi cent’anni addietro, ma ancora tabù in Ungheria -, quanto per l’aver utilizzato uno stile e un approccio nuovi e innovativi...

… Il soggetto è, nonostante si riferisca ad avvenimenti di un secolo prima, molto delicato. Infatti, non solo la storiografia borghese tradizionale ha tramandato di Ràday una valutazione positiva (politico illuminato che molto fece perché l'impero diventasse, anche se troppo spesso solo formalmente, austro-ungarico, che così si chiamerà dal 1867, data del noto “compromesso” con Vienna), ma la stessa saggistica del dopoguerra non si cimentò in un'operazione di revisione del giudizio su quello che oggi viene considerato come uno dei responsabili principali della subalternità del paese, ridotto ad una dimensione feudale, la cui popolazione è costretta ad una servitù totale.
Significativamente, lo spettatore non vede mai Ràday, nemmeno il rastrellamento da lui ordinato, né l'eliminazione dei “senza speranza”. La Storia resta in qualche misura fuori campo, in un film che seppure sia intensamente drammatico, evita accuratamente il ricorso a strutture drammatiche esteriori e convenzionali, ad esmpio il personaggio principale che qui, come nei futuri film di Jancsó, non esiste…
da qui


…I disperati di Sandor è una lezione di cinema estremo e austero, impressionante e maestoso: quelli che si credono i protagonisti vengono spazzati via da un momento all’altro,  la prevaricazione (di una parte dell’altra, e dell’immagine sul tutto) è totale, la lezione della Storia, segnata dall’ultima scena, è tragica e cruda.


… Il discorso da particolare, locale, si fa più ampio, universale, eterno: si eleva dai limiti dell'aneddoto. Tutto questo perché quello di Jancso è un discorso autentico: ogni inquadratura é il risultato di uno sforzo analitico di tuttigli elementi figurativi, di una scomposizione geniale di questi elementi che portano il discorso su una dimensione immateriale così come lo esige il tema trattato.
Una pianura che imprigiona, una costruzione come oggetto esemplare di oppressione, delle figure circoscritte in queste dimensioni, una composizione linguistica che si organizza progressivamente, alla ricerca di un quadro perfetto di equilibri e di significati. Con dei segni, dei movimenti, delle contrapposizioni di luci e di ombre il grido di Jancso, nasce così puro, logico, fino a diventare una sintesi perfetta delle intenzioni ideologiche dell'autore.

Nel film il confinamento e l’eliminazione sistematici dei rivoluzionari superstiti che parteciparono ai moti del 1848 per l’indipendenza di Ungheria rimandano esplicitamente alle conseguenze dell’invasione sovietica del ’56. Il susseguirsi dei pianisequenza è quasi impercettibile, ma non lascia scampo: il Cinemascope è perfetto per esaltare gli spazi e le rigorose geometrie, ma paradossalmente espande al massimo il senso di oppressione, nonostante la vastità degli spazi e l’orizzonte a perdita d’occhio ricordino certe inquadrature western.Nemmeno per un secondo le distese pianeggianti e il cielo sgombro comunicano un qualsivoglia senso di apertura o libertà, fosse anche come mero, speranzoso anelito…

Es magistral como Jancsó, al escamotearnos una historia al estilo tradicional, se puede permitir mostrarnos la denigración del otro en estado puro. Quien quiera ver en este filme reminiscencias del funcionamiento de los campos de concentración de la última dictadura militar en Argentina, no estará para nada errado…

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