niente montagne, un fortino nella puszta ungherese, guardie e prigionieri dopo le mancate rivoluzioni del 1848.
in una prigione ispirata al panopticon si tratta di far parlare qualcuno, hanno arrestato tutti gli uomini di un villaggio che dà aiuto e riparo ai ribelli, per ottenere informazioni utili ai militati austroungarici, precursori dei metodi nazisti e del Vietnam e di Abu Ghraib (non si inventa niente).
la delazione e le promesse di liberazione e di punizione sono il motore della macchina assassina.
è un film geometrico, come il panopticon, girato in cinemascope.
la tensione non si allenta, e cresce fino all'epilogo.
da non perdere - Ismaele
…Il film restituisce il claustrofobico senso di prigionia a cui sono costretti i ribelli di un ordine costituito; e non gli sono certo estranee le memorie brucianti dei lager (e forse dei gulag), ma il distacco emotivo dalla vicenda descritta esclude il dramma storico. Persino le musiche sono bandite, salvo le parentesi della fine e dell’inizio, dove non a caso riecheggiano le note del Lied der Deutschen, l’inno nazionale tedesco. Nella stessa sigla a ben guardare v’è sorta di dichiarazione d’intenti: essa è costruita con l’assemblaggio di immagini in bianco e nero, scheletri di piantine progettuali suddivise in blocchi, in cui vengono messe a confronto la nuova civiltà borghese e industriale e quella contadina, soffermandosi soprattutto su abitazioni e strumenti da lavoro. Alla civiltà borghese vengono attribuite anche la paternità dei nuovi ritrovati scientifici, dalle armi ai nuovi mezzi di trasporto. Sul finire appare poi una breve teoria di strumenti di tortura, mentre la voce fuori campo finisce di illustrare il tempo e il luogo a cui fa riferimento il film. Di là quindi dall’esplicito rimando alla più recente epifania nazi-fascista dei campi di sterminio, è evidente che I disperati di Sandor (e più in generale tutto il cinema di Jancsó) rivolge un’accusa contro l’arco di storia che si distende dal tempo della rivoluzione industriale e dall’Illuminismo sino ad oggi. È da lì, dall’astratta logica delle macchine, che nasce il moderno potere tirannico e burocratico, il quale riduce in un solo schieramento tutti i suoi detentori al pari ottusi.
in una prigione ispirata al panopticon si tratta di far parlare qualcuno, hanno arrestato tutti gli uomini di un villaggio che dà aiuto e riparo ai ribelli, per ottenere informazioni utili ai militati austroungarici, precursori dei metodi nazisti e del Vietnam e di Abu Ghraib (non si inventa niente).
la delazione e le promesse di liberazione e di punizione sono il motore della macchina assassina.
è un film geometrico, come il panopticon, girato in cinemascope.
la tensione non si allenta, e cresce fino all'epilogo.
da non perdere - Ismaele
…Il film restituisce il claustrofobico senso di prigionia a cui sono costretti i ribelli di un ordine costituito; e non gli sono certo estranee le memorie brucianti dei lager (e forse dei gulag), ma il distacco emotivo dalla vicenda descritta esclude il dramma storico. Persino le musiche sono bandite, salvo le parentesi della fine e dell’inizio, dove non a caso riecheggiano le note del Lied der Deutschen, l’inno nazionale tedesco. Nella stessa sigla a ben guardare v’è sorta di dichiarazione d’intenti: essa è costruita con l’assemblaggio di immagini in bianco e nero, scheletri di piantine progettuali suddivise in blocchi, in cui vengono messe a confronto la nuova civiltà borghese e industriale e quella contadina, soffermandosi soprattutto su abitazioni e strumenti da lavoro. Alla civiltà borghese vengono attribuite anche la paternità dei nuovi ritrovati scientifici, dalle armi ai nuovi mezzi di trasporto. Sul finire appare poi una breve teoria di strumenti di tortura, mentre la voce fuori campo finisce di illustrare il tempo e il luogo a cui fa riferimento il film. Di là quindi dall’esplicito rimando alla più recente epifania nazi-fascista dei campi di sterminio, è evidente che I disperati di Sandor (e più in generale tutto il cinema di Jancsó) rivolge un’accusa contro l’arco di storia che si distende dal tempo della rivoluzione industriale e dall’Illuminismo sino ad oggi. È da lì, dall’astratta logica delle macchine, che nasce il moderno potere tirannico e burocratico, il quale riduce in un solo schieramento tutti i suoi detentori al pari ottusi.
Jancsó vive come un incubo surreale, una trappola metafisica, la Storia e i suoi travestimenti successivi.
A dispetto quindi delle apparenze si dovrà meditare su un motivo più riposto, fino a toccare il nervo scoperto della rivoluzione subìta…
I disperati di Sándor è, indubbiamente, tra le opere chiave del cinema moderno europeo. Parallelamente, il suo autore, Miklós Jancsó, è stato il regista che meglio ha rappresentato la új hullám – ovvero, la Nouvelle vague ungherse – durante gli anni Sessanta. In un periodo di grande rinnovamento nel campo del linguaggio cinematografico, infatti, I disperati di Sándor ha rappresentato un punto di svolta fondamentale, gettando le basi per tantissimo cinema, storico, politico e d’avanguardia di quegli anni. Questo, sia per l’aver affrontato tematiche scomode e spinose – ovvero, un periodo di forte repressione, di quasi cent’anni addietro, ma ancora tabù in Ungheria -, quanto per l’aver utilizzato uno stile e un approccio nuovi e innovativi...
… Il soggetto è, nonostante si riferisca ad avvenimenti di
un secolo prima, molto delicato. Infatti, non solo la storiografia borghese
tradizionale ha tramandato di Ràday una valutazione positiva (politico
illuminato che molto fece perché l'impero diventasse, anche se troppo spesso
solo formalmente, austro-ungarico, che così si chiamerà dal 1867, data del noto
“compromesso” con Vienna), ma la stessa saggistica del dopoguerra non si
cimentò in un'operazione di revisione del giudizio su quello che oggi viene considerato
come uno dei responsabili principali della subalternità del paese, ridotto ad
una dimensione feudale, la cui popolazione è costretta ad una servitù totale.
Significativamente, lo spettatore non vede mai Ràday, nemmeno il rastrellamento da lui ordinato, né l'eliminazione dei “senza speranza”. La Storia resta in qualche misura fuori campo, in un film che seppure sia intensamente drammatico, evita accuratamente il ricorso a strutture drammatiche esteriori e convenzionali, ad esmpio il personaggio principale che qui, come nei futuri film di Jancsó, non esiste…
Significativamente, lo spettatore non vede mai Ràday, nemmeno il rastrellamento da lui ordinato, né l'eliminazione dei “senza speranza”. La Storia resta in qualche misura fuori campo, in un film che seppure sia intensamente drammatico, evita accuratamente il ricorso a strutture drammatiche esteriori e convenzionali, ad esmpio il personaggio principale che qui, come nei futuri film di Jancsó, non esiste…
da qui
…I disperati
di Sandor è una lezione di cinema
estremo e austero, impressionante e maestoso: quelli che si credono i
protagonisti vengono spazzati via da un momento all’altro, la
prevaricazione (di una parte dell’altra, e dell’immagine sul tutto) è totale,
la lezione della Storia, segnata dall’ultima scena, è tragica e cruda.
… Il discorso da
particolare, locale, si fa più ampio, universale, eterno: si eleva dai limiti
dell'aneddoto. Tutto questo perché quello di Jancso è un discorso autentico:
ogni inquadratura é il risultato di uno sforzo analitico di tuttigli elementi
figurativi, di una scomposizione geniale di questi elementi che portano il
discorso su una dimensione immateriale così come lo esige il tema trattato.
Una pianura che imprigiona, una
costruzione come oggetto esemplare di oppressione, delle figure circoscritte in
queste dimensioni, una composizione linguistica che si organizza
progressivamente, alla ricerca di un quadro perfetto di equilibri e di
significati. Con dei segni, dei movimenti, delle contrapposizioni di luci e di
ombre il grido di Jancso, nasce così puro, logico, fino a diventare una sintesi
perfetta delle intenzioni ideologiche dell'autore.
Nel film il confinamento e l’eliminazione sistematici dei
rivoluzionari superstiti che parteciparono ai moti del 1848 per l’indipendenza
di Ungheria rimandano esplicitamente alle conseguenze dell’invasione sovietica
del ’56. Il susseguirsi dei pianisequenza è quasi impercettibile, ma non lascia
scampo: il Cinemascope è perfetto per esaltare gli spazi e le rigorose
geometrie, ma paradossalmente espande al massimo il senso di oppressione,
nonostante la vastità degli spazi e l’orizzonte a perdita d’occhio ricordino
certe inquadrature western.Nemmeno per un secondo le distese pianeggianti e il
cielo sgombro comunicano un qualsivoglia senso di apertura o libertà, fosse
anche come mero, speranzoso anelito…
… Es magistral como Jancsó, al
escamotearnos una historia al estilo tradicional, se puede permitir mostrarnos
la denigración del otro en estado puro. Quien quiera ver en este filme
reminiscencias del funcionamiento de los campos de concentración de la última
dictadura militar en Argentina, no estará para nada errado…
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