martedì 19 maggio 2015

Mia madre - Nanni Moretti

un film sull'elaborazione del lutto, e bisogna prepararsi prima.
Nanni Moretti ricorda la madre, gli ultimi giorni, lui è quasi solo una comparsa, non succede spesso.
è un film strano, molto più personale degli altri e però, allo stesso tempo, racconta di un'esperienza universale.
fratello e sorella accompagnano la mamma negli ultimi giorni, è un'esperienza crudele, anche se inevitabile.
sperare in un miglioramento a cosa serve, la fine è lì davanti, occorre solo aspettare, e stare male.
dopo resta un appartamento vuoto, qualche vestito e scatoloni di libri, un ricordo e un'idea.
Turturro è lì per distrarre un po' dalla fine, ma è un gioco di citazioni, e poco più.
la fila fuori dal cinema (ormai chiuso) è davvero bella.
non è un film straordinario, ma merita la visione - Ismaele







Margherita sta girando un film impegnato sulla crisi economica italiana dove si racconta lo scontro tra gli operai di una fabbrica e la nuova proprietà americana che promette tagli e licenziamenti. Oltre a dover gestire la complessità del set corale di un film politico, deve fare i conti con le bizze della star italo-americana che ha scelto per interpretare il ruolo del nuovo proprietario; un attore in crisi, ostaggio della sua maschera di divo, qui esasperata dal provincialismo del cinema italiano.
Margherita è separata, ha una figlia adolescente che frequenta malvolentieri il liceo classico in ossequio alla tradizione famigliare impressa dalla nonna (insegnante di latino e greco), ha un amante, attore nel film impegnato, mollato all'inizio delle riprese, e una vita confusa, solitaria e complicata. La concentrazione, richiesta per girare un film così difficile, tutto spostato verso il lato pubblico e politico, è minacciata dalle istanze del privato e dall'ombra sempre più densa della possibile morte della madre che la costringe a un confronto difficile e doloroso, soprattutto con se stessa e con il fratello Giovanni, un ingegnere posato che si è preso un periodo di aspettativa dal lavoro per accudire la madre malata di cuore, ricoverata con poche speranze in un ospedale della capitale.
Mia madre è un film profondo e sincero, tanto da essere quasi crudele per il lavoro che compie di scavo ineluttabile e autentico…

Mia madre ne rende onestamente e onorevolmente atto, è un film sincero e intelligente, e segna, spero, l’inizio di una nuova storia per questo regista. Forse nei prossimi film finirà anche per tirarsi del tutto da parte come attore, anche se questa rinuncia gli costerebbe probabilmente moltissimo. Già qui si mette di lato – come teorizza la regista Margherita, il personaggio in cui Moretti si sdoppia, con un’applicazione generica della distanziazione brechtiana – teorizzando l’attore a fianco e non dentro il personaggio, in modo da mostrare due facce: una più saggia, che Moretti affida qui a se stesso, e l’altra più nevrotica, in cui stemperare al femminile il suo esasperato autobiografismo. Mia madre ne risente ancora, è troppo sua madre, anche se una madre che ha le qualità di tantissime altre…

"Mia madre" racconta di un lutto elaborato in anticipo, come avviene quando si sa che i propri cari non guariranno da una malattia. E' un film sullo smarrimento, sul disorientamento. Margherita è disorientata sul set come nella vita. Il film scivola spesso nei ricordi e nel sogno: momenti in cui Moretti gioca a disorientare anche lo spettatore insieme alla protagonista. A controbilanciare il dramma, in un cocktail accuratamente dosato, la vanità gigionesca del personaggio di Turturro - che regala una prestazione di irresistibile verve comica. Non fa che millantare e dissimulare, continuamente: sino alla cena in cui cala la maschera, svelando la sua fragilità. E' un personaggio iperbolico, ma riflette bene le menzogne che spesso raccontiamo a noi stessi.

In "Mia madre" è netta l'autocritica di Moretti, che non si risparmia niente come uomo e come regista. Sono severe le accuse di egocentrismo che si rivolge, per tramite di quanto viene rinfacciato a Margherita dal proprio compagno. Come regista, l'autocritica è imbevuta di autoironia. Sempre a Margherita, Moretti affida alcune idiosincrasie, come il tormentone di raccomandare agli attori di "mantenere l'attore accanto al personaggio"; a un certo punto Margherita sbotta, urlando ai collaboratori che avrebbero fatto male ad assecondarla: "Un regista è uno stronzo, cui permettete di fare tutto!"

Impossibile non riconoscere qualche brandello della propria esperienza in certe scene del film, i ricoveri d’ospedale, le giornate appese alle medicine salvavita, l’affievolirsi della capacità conoscitive della madre, il suo entrare e perdersi in una zona di demenza, e lo strazio di assistere sgomenti e impotenti al decadimento. Sì, in Mia madre si guarda la morte in faccia, ci si fa i conti, anche se, proprio come capita ai due figli della signora Ada, e più alla figlia che al figlio, verrebbe voglia di distogliere gli occhi, dimenticare, raccontarsi palle, autoingannarsi, non ammettere quel che è evidente. E cioè che lei (lui, loro) sta morendo. Questa storia personale e insieme generale Moretti la racconta al massimo possibile del pudore, della sobrietà, andando di sottrazione in una messinscena così priva di orpelli, così disadorna da sembrare a momenti qualunque e perfino sciatta. Ovvio che non è così, è se mai una gran prova di maturità registica questo mimare, riuscendoci, il tono, il suono basso e quasi impercettibile, della realtà. Per centrare l’obiettivo Moretti non si tira solo vistosamente indietro, rinuncia anche a fabbricare battute seriali, di quelle che deliziano i suoi estimatori e che sono entrate pure nel lessico collettivo italiano, e solo qua e là il suo acido corrosivo erompe e zampilla in parole che graffiano e si stampano nella memoria, ma siamo a livelli quantitativi assai inferiori alla media morettiana…

Margherita, come Apicella (e come il cardinale Melville in Habemus papam), è sperduta al di fuori di sé. Attraverso il cinema non tenta di trovare coordinate per leggere il presente, che lei stessa ammette di non riuscire a capire, ma piuttosto un linguaggio, una struttura, un microcosmo codificato che non presenti crepe, storture, mediocrità. Sua madre langue in un letto d’ospedale, dopo un collasso cardio-respiratorio: una polmonite mal curata ha sfiancato il cuore, e non si può fare altro che attendere l’inevitabile. Accanto al suo letto si danno il cambio Margherita e suo fratello Giovanni, che ha deciso di prendersi un’aspettativa dal lavoro. “Sono stanco”, ammette alla sorella.
È un mondo stanco, e senza più speranza (sempre che l’abbia mai avuta), quello raccontato da Nanni Moretti in Mia madre. Un mondo in cui l’arte e il sapere sono appigli per la memoria, ma non hanno più un reale senso nell’esistente. Melville/Piccoli trovava una spinta inattesa nel riscoprire l’odore del palco teatrale, prima di ripiombare nel gorgo di una carica insensata, vuota, apparente. Margherita non vive sul set, né per il set; sua madre, che è stata professoressa di latino, non trova soddisfazione alcuna nei discorsi degli infermieri. In ospedale si sta instupidendo. A cosa serve il latino, chiede la quattordicenne figlia di Margherita, con il tre fisso in pagella? Alla struttura logica, è l’unica risposta che riesce a darle la madre. Ma che valore può avere una struttura logica in un mondo che non la persegue?...
…Acquista un valore fondamentale la sequenza (tra le più ispirate del film) onirica che vede Margherita in sogno seguire un’interminabile fila ferma davanti al Capranichetta per acquistare il biglietto de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. La fila non ha fine, ma al suo interno la donna vede sua madre, suo fratello e perfino se stessa ventenne con il fidanzato di allora. Non c’è solo la memoria di Margherita o quella di Moretti in questo breve spezzone, ma si rintraccia il sogno infranto di una cinefilia che non esiste più (è mai esistita?) e il ricordo di una delle decine, centinaia di sale dismesse della Capitale, e inserite nella lista – in parte raffazzonata – stilata dal Comune di Roma un paio di mesi or sono. In quel breve frammento, in cui si parlano due lingue oramai desuete, quella dei sogni e quella del cinema, Moretti racchiude il senso della ricerca/spaesamento di Margherita. Inadeguata, come il papa in fuga dal Vaticano, al mondo…

Tutto il film sembra svolgersi nel giro di un tempo presente fortemente limitato. È un collage di scenette senza nerbo e significato aspettando che la mamma muoia. Il fratello ingegnere trova le toppe che faceva mamma e compare sempre senza avere una vita propria, la figlia di Margherita torna da una vacanza in montagna, il film di Margherita ha delle difficoltà perché Barry Huggins non ricorda le battute, la madre sta sempre peggio, i sogni di Margherita si confondono sempre di più con la realtà. E’ tutto estremamente superficiale, fugace e di prima lettura…

Moretti con Mia Madre ci consegna uno schermo vuoto, un film fantasma, nel senso che appare solo a chi crede nelle apparizioni: agli amici morettiani di Roma, ai fan accaniti da stadio, a chi imperturbabile non riconosce il passare del tempo e l’avvizzimento di un autore. Da dove deriva questa impotenza di sguardo, questa mancanza di coraggio del guardare, questa prudenza a difenderci dall’orrore della morte quando invece si fa un film in cui Moretti stesso autopromuove un dato personale ed intimo? Il problema di Nanni Moretti è politico. Paurosamente politico. Nell’evo sociale e culturale del post antiberlusconismo il suo cinema non esiste più. Non ha basi di senso per stare in piedi, non ha peculiari appigli materiali su cui poggiare nuove riflessioni, siparietti buffi e doppi narcisi per sostituire la sua ingombrante presenza. Tesi, antitesi e sintesi sono tre vagoni di un treno dell’esposizione pubblica che sono già passati. Rivendere la propria intimità come qualcosa di sacro ed intoccabile, solo perché firmato da lui, significa solo una cosa: totale impotenza di fronte ad una nuova realtà, la vecchiaia, la perdita definitiva, l’abisso del non ritorno. Pensate all’aiuto che ha chiesto Moretti in sede di soggetto - quattro le soggettiste - e di script con tre sceneggiatori tra cui un altrettanto ingombrante Francesco Piccolo che ben che vada può, un po’ come Umberto Contarello per Sorrentino, inventarsi boutade minimaliste o l’estetizzazione di un piatto di pasta e fagioli come origine del mondo, ma non di certo aiutare nella tessitura di una umana e drammatica elaborazione del lutto (anche qui la premiata ditta snob progressista è una tassa da pagare comunque?). Insomma l’elegia funebre che doveva essere Mia Madre, film etereo ed impalpabile, diventa il funerale del cinema di Moretti e del morettismo. Chiudiamo con un paio di domande: qualcuno oggi riesce ad immaginarsi di cosa potrà parlare il prossimo film di Moretti? Ma il cineasta Moretti senza non diciamo tanto la presenza, ma l’idea di presenza di Moretti attore sullo schermo, anche solo coprotagonista di una sequenza, esisterebbe? Ecco allora che per paradosso l’improvvisa mancanza del mostrarsi in primo piano, l’inciampo dell’uomo Moretti sempre in scena, sempre in discussione, seppur nei suoi limiti da tinello casalingo (il tinello universale morettiano in cui si riconoscono come in un sacrario d’arredo tutte le disastrate trasformazioni della sinistra italiana), seppur appoggiato sbilenco al doppio attoriale che non funziona, porta ad una incontrovertibile impossibilità del filmare.

Autoreferenziale, ipertrofico, edulcorato. Sparo subito il triplete, così sgombro il campo da equivoci e chiarisco il mio giudizio sull’ultimo film di Nanni Moretti. Avrei potuto usare un’altra triade, ruffiano, sgangherato, inutile, ma non intendo essere clemente, sono infuriato con lui e con il suo pubblico, che per decenni si è riempito la bocca di quegli aggettivi. Autoreferenziale, ipertrofico, edulcorato. E classista, urlatamente e nemmeno sottilmente…

3 commenti:

  1. Il primo spezzone visto non mi aveva entusiasmato. E anche il trailer mi genera meno attrazione rispetto agli altri di Moretti. Però magari è sommessamente bello. Ovviamente da vedere. Poi dirò. Nel frattempo mi son rivisto le prime decine di minuti de La stanza del figlio, sia perché è veramente un filmine, sia perché all'inizio ce stanno l'amici mia..... ;)

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  2. Ovviamente era un refuso e non un lapsus "filmine"... intendevo filmone ;) Invece... a proposito di amici e di Cannes... il copertinista dei fumetti che ho curato, Davide De Cubellis, è stato lo story-boarder de Il racconto dei racconti (e credo ora stia lavorando con Ozpetek)... chissà...

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