domenica 1 luglio 2012

C'era una volta in Anatolia - Nuri Bilge Ceylan

a raccontarlo sembra una cosetta da niente, la ricerca e il ritrovamento di un cadavere, il trasporto in ospedale e poi l'autopsia.
ma i 157 minuti sono davvero necessari, il cielo è sempre grigio, perfetto per la malinconia dell'anima, tutti sono dei vinti, cosa sperare non si sa, una tristezza di fondo avvolge tutto e  tutti.
(il dottor Cemal sembra il cugino di Erri De Luca)
da non perdere - Ismaele


Romanzesco e banale, interiorità ed esteriorità: una mescolanza di elementi che il regista duplica a livello visivo (decisivo l’apporto dell’abituale operatore, l’eccellente Gökhan Tiryaki). La prima parte di C’era una volta in Anatolia è calata nei toni notturni del blu e del nero, in cui la zona stepposa a due ore d’auto dalla capitale diventa il palcoscenico astratto e quasi onirico della ricerca, per di più gravato da un vago senso di minaccia, con quei lampi che illuminano all’improvviso il paesaggio. La seconda parte, invece, è diurna, più “fisica” e concreta, dominata dai colori spenti dell’ocra (i campi sterrati) e del grigio (il cielo piovoso), dove il fascino del paesaggio notturno lascia il posto a un vago senso di squallore. La ricerca del morto è stata una singolare “evasione”, un piccolo viaggio all’interno di se stessi, terminato il quale la mediocrità del quotidiano torna a prendere il sopravvento…

C’è un cinema che ha paura del tempo, e allora lo insegue affannato, lo combatte e lo violenta, lo contrae fino a rendere l’esperienza della visione istantanea, quasi nulla; un cinema – letteralmente – di consumo immediato. Tutto all’opposto si colloca l’approccio di N.B. Ceylan, cineasta estremo che sin dai tempi di Uzak (Gran Premio della Giuria a Cannes 2003) aveva mostrato di sapere bene che nessuna profonda verità che abbia a che fare con l’umano può scaturire se non attraverso la durata. Nelle quasi due ore e quaranta di C’era una volta in Anatolia (stesso premio cannense di Uzak nel 2011) succede poco. I dialoghi, fitti, riguardano spesso la più banale quotidianità; le azioni compiute dai personaggi sono volutamente svuotate di senso: la carovana si muove senza costrutto, fermandosi meccanicamente ogni volta che sembra sul punto di venir fuori il cadavere, e altrettanto meccanicamente ripartendo. Un’ironia sottile avvolge la scena, eppure vi è una tensione invisibile che cresce nelle pieghe delle immagini, facendo montare la sensazione indefinita che qualcosa stia per accadere da un momento all’altro. Non qualcosa che abbia a che fare con l’azione, piuttosto ci si aspetta il determinarsi di maturazioni lungamente covate, la rivelazione improvvisa di verità note solo all’anima…

…I protagonisti di questo indecifrabile film si muovono nella notte turca con cadenze ritmate uguali e ripetute: la carovana si mette in marcia, poi si ferma, poi discute, poi riparte. E mano a mano che le prime luci del mattino si avvicinano lo spettatore ricostruisce sempre meglio i caratteri dietro i volti. Una vera e propria scoperta cui l'autore ci accompagna mano nella mano. Il noir si spegne e lascia spazio all'inafferrabilità del destino umano: la ricerca del corpo di un morto è la rincorsa a una propria personale epifania: l'essere umano che prende coscienza di sé.
Il tragitto, vi avvertiamo, è quanto di più faticoso ci possa essere al cinema. Parole e ritmo vengono dilatate all'inverosimile. Perché? Perché Ceylan crede in un processo lento e meticoloso, il tempo dell'uomo non è frenetico come nelle pellicole d'azione, è un doloroso e sofferente cammino verso una possibile luce. Riuscire a seguire la singolare comitiva che si muove in questa buia notte dell'Anatolia è tanto impegnativo quanto illuminante. Al termine dell'avventura, forse, sarà lo spettatore ad essere il più soddisfatto della strada percorsa…

…Il tributo più che diretto ai due “C’era una volta..” (C’era una volta il West e C’era una volta in America) di Sergio Leone e, più in generale al suo cinema, non è contenuto soltanto nel titolo di questa straordinaria esperienza visiva e intellettuale, ma anche nel modo con cui Bilge Ceylan rende epica e archetipica la minima materia narrativa contenuta nella sceneggiatura e l’insistenza quasi maniacale su primissimi piani dei volti dei quattro protagonisti, sorta di cowboy della steppa alla ricerca della propria anima perduta e chiamati a sfidarsi in continui duelli in cui le parole e il loro peso brutale prendono il posto delle pallottole.
Parlando di volti, per celebrare appieno la potenza evocatrice di una pellicola come questa non si può non menzionare gli attori che interpretarono i quattro personaggi e prestano le proprie fisionomie e la propria professionalità ai ruoli loro affidati: si tratta di nomi sconosciuti al cinema internazionale, attori di un’intensità impressionante i cui volti parlano senza bisogno di parole e che, ad altre latitudini cinematografiche, sarebbero già star indiscusse pagate milioni di dollari. I dialoghi tra il medico e il procuratore sono così perfetti nella loro capacità di evocare per allusioni da essere destinati a entrare di diritto nei manuali di scrittura cinematografica. E lo stesso si può dire per le loro facce di sofferenza antica su cui Ceylan posa impietoso la macchina da presa mostrando il tormento interiore in primissimi piani di intensità a tratti insostenibile…
da qui

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