martedì 31 maggio 2016

Farat (The Lighthouse) - Velislava Gospodinova




Il guardiano del faro ama troppo gli uccelli - Jacques Prevert


Uccelli a migliaia volano verso le luci
a migliaia cadono a miglia s'urtano
a migliaia accecati a miglia colpiti
a migliaia muoiono.

Il guardiano non può sopportare cose diquesto genere
agli uccelli vuole troppo bene
a allora dice "Tanto peggio me ne frego!".

E spegne tutto

Naufraga lontano un cargo
un cargo che viene dalle isole
un cargo carico d'uccelli
migliaia d'uccelli delle isole
migliaia d'uccelli annegati.



lunedì 30 maggio 2016

La pazza gioia - Paolo Virzì

si corre tutto il film, Beatrice trascina Donatella con le parole e poi si va nel mondo.
basta poco per essere felici, prima di tutto dimenticarsi di non esserlo, e finché dura funziona.
poi la realtà prende il sopravvento, entrambe non ci stanno con la testa, e però l’importante è lottare, contro i mulini a vento o i mostri che si agitano dentro.
parafrasando Paco Ignacio Taibo II, Beatrice e Donatella non potranno più conquistare il mondo, solo provano a sopravvivere e a continuare a dare fastidio.
Beatrice, la contessa, è stata archiviata e dimenticata da tutti, dopo averle rubato tutto, Donatella non ha niente, ha solo un ricordo, e quello la tiene in vita.
belli anche i personaggi di che le cura e le cerca.
il film magari non è perfetto, ma non ti lascia indifferente, questo è sicuro - Ismaele





questo è un film che parla di malattia mentale ed è ambientato nel 2014, quando gli ospedali psichiatrici giudiziari erano ancora aperti. Quindi tocca temi molto delicati, che prevedono automaticamente il rischio di scivolare nel pietismo o nello schema consolatorio dell’antipsichiatria, ma non ha mai nemmeno un tentennamento. Invece è onesto, sentimentale e generoso: onesto nel mostrare la malattia e la sua gestione quotidiana, sentimentale nella relazione con i personaggi e le loro manie, generoso nello slancio con cui gestisce tutto questo materiale umano senza avere paura di nessun tema…

… Virzì, lo aveva già dimostrato in tutti gli altri suoi film: non parte da una prospettiva ideologica ma compassionevole,  come chi sa che l’essere angelo e demonio allo stesso tempo è esattamente la cifra (scrivo così perché fa fine, ma avrei detto caratteristica) dell’essere umano.
La differenza tra operatori e pazienti si confonde, alcuni curanti starebbero meglio dall’altra parte, mentre la relazione terapeutica più bella e salvifica è quella che una protagonista instaura con l’altra protagonista, la più matta di tutta la compagnia.
Se non mi vergognassi della banalità della frase dopo una vita di studio direi che, alla fine, il vero ingrediente indispensabile per la cura è la relazione terapeutica, dove sperimentare un amore compassionevole in cui il curante riconosce nell’altro le sue stesse fragilità e meschinità e vi fa pace, rimandando ad altri il compito impossibile e logorante della perfezione.
Il film è intessuto di queste relazioni terapeutiche, poco tecniche ma molto calde, trasversali tra i personaggi anche più marginali e, a prima vista, abietti. Ognuno visto più da vicino ha le sue ragioni e, come diceva De Andrè: ‘Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo‘.
Non vorrei aver dato l’impressione che si tratta di un film serioso a cui far seguire il temuto dibattito.
Si sta molto in apprensione. Si tifa ora per l’uno e poi anche per il suo avversario e soprattutto, non si ride di qualcuno, ma si ride perché quella pazza gioia è contagiosa.

…Come spesso gli capita Virzì dimostra il meglio di sé quando riesce a dare slancio alla propria spontaneità registica, scardinando un racconto troppo prevedibile e slabbrato, disperso in una vicenda picaresca che accumula situazioni e incontri non sempre convincenti. Rispetto ad alcuni dei titoli principali della sua carriera (Ovosodo, Baci e abbracci,Tutta la vita davanti, Il capitale umano) La pazza gioia perde in più di un’occasione la dimensione di insieme, sfaldandosi in piccoli bozzetti e arcipelaghi emotivi altalenanti, ma riesce a trovare un riscatto in poche, mirabili sequenze: il primo incontro tra le due donne, quello tra la Ramazzotti e il padre (un Marco Messeri dimesso al punto giusto). Gli aspetti più prevedibili e banali – anche la scelta della colonna sonora si dimostra “facile”, sia per quel che riguarda il tormentone Senza fine di Gino Paoli, motore anche narrativo, che la preghiera laica Ave Maria di Fabrizio De André – trovano così una pur parziale compensazione, e La pazza gioia riesce persino a commuovere, senza troppi ricatti sentimentali.

…A dispetto di alcuni momenti irrisolti, "La pazza gioia" è un film da amare quanto le sue splendide protagoniste, specie per quei vuoti che aprono il racconto, per quell'assurda fuga senza meta, in cui gli eventi sono slegati, costretti a consumarsi nell'attimo e quel che accade obbedisce a una logica che è del sogno - e a chi lamenti una mancanza di coesione, chiediamo: come potrebbe esserci?
Siamo, allora, al centro del film, nel suo sviluppo più libero e felice, quello in cui i personaggi, sciolte le briglie della drammaturgia, realizzano se stessi, si impongono ai nostri occhi e ci catturano. Non potevamo chiedere di meglio.

Il meglio sta nella prima parte, nel personaggio di Beatrice, perfettamente scritto e interpretato. Ed è parecchio interessante lo sguardo dal di dentro sulla comunità terapeutica. Fa capire parecchio di cosa sia oggi la follia, di come sia socialmente vista e trattata. Sparite le gabbie e le camicie di forza dei manicomi, i pazienti sono tenuti sotto controllo e regolati attraverso la somministrazione di psicofarmaci. La lodevole intenzione di togliere ogni stigma alla malattia mentale finisce col risolversi spesso in condiscendenza, in un correttismo politico che abolisce la cosa e si vergogna perfino a nominarla, ma che non può eluderla. I confini della villa-ricovero sembrano elastici, espandersi o restringersi a seconda del tasso di tolleranza o di controllo esercitato al momento dai responsabili. E se qualche volte quei confini sembrano sparire trattasi di illusione ottica, i confini non spariscono davvero mai. Chissà cosa scriverebbe oggi della malattia mentale e del suo trattamento in Occidente il Michel Foucault di Sorvegliare e punire. Di culto, come sempre, il cameo di Marisa Borini, vera mamma di Valeria Bruni Tedeschi (e di Carla Bruni) già vista in film diretti dalla figlia come Un castello in Italia, e che qui fa benissimo la contessa-madre di Beatrice Morandini Valdirana. Paolo Virzì si conferma il vero erede, forse l’unico, della commedia all’italiana dei Monicelli, Risi, Scola. Solo con meno perfidia e più sentimentalismo.

Paolo Virzì da sempre fa cinema italiano classico, porta sulle sue spalle un’eredità pesantissima e la mette in scena ogni volta cercando contemporaneamente di guardare avanti, a modo proprio cerca di portare avanti un’idea di cinema che lo precede. Non è nè un merito nè un difetto ma una scelta che lo caratterizza. Come potrebbe quindi un film così classico far compiere alle proprie protagoniste l’atto che nemmeno Umberto D. aveva il coraggio di compiere? Il risultato è che attraverso l’ostinata resistenza di questi esseri umani al desiderio di porre fine a tutto si manifesta un’umanità così caratteristica dello spirito nazionale per come lo ha sempre messo in scena il cinema, che commuove. C’è una coerenza così invidiabile tra l’ostinazione a tenere duro e la contaminazione tra dramma e commedia (qui tesa fino agli estremi) che è invidiabile. In un paese in cui non si raccontano finali suicidi ma personaggi che “andranno avanti”, anche se non si sa come, le commedie non possono che essere contaminate di dramma e le tragedie non possono che far anche ridere. La Pazza Gioia in ultima analisi mette in scena questo: la nostra ostinazione a non contemplare il nichilismo quando raccontiamo il mondo. Ed è inebriante vederlo accadere sullo schermo…

…Ottime, ribadisco, le prove delle due protagoniste: a Valeria Bruni Tedeschi è affidata, a sorpresa, la parte comica e sopra le righe della pellicola, superando l'esame a pieni voti. Ma la vera sorpresa arriva dalla signora Virzì, ovvero Micaela Ramazzotti, quasi muta, paralizzata dal dolore e "spalla" paziente per 3/4 del film per poi "esplodere" nel finale, stritolando letteralmente i nostri cuori con un monologo di grande intensità: ammetto di non averla mai troppo amata, nè come attrice nè come persona, ma sarei intellettualmente disonesto se non le riconoscessi i giusti meriti e i suoi grandi progressi professionali.La pazza gioia non raggiunge la perfezione stilistica e l'impegno civile de Il capitale umano:è un film che prende più al cuore che alla testa, facendo leva sui sentimenti. La prima parte è un po' stiracchiata, non esente da evitabili banalità (vedasi la scontatissima e inflazionata scena della fuga dal ristorante) tuttavia man mano che ci si avvicina all'epilogo la comicità lascia spazio alle emozioni e al desiderio di giustizia, di umanità, di riscatto morale e materiale. E' un film che coinvolge e si fa amare, e che conferma Virzì come autore a tutto tondo, capace di mettere nelle sue opere la giusta dose di leggerezza e denuncia sociale, invitandoti a riflettere senza mai appesantire. Degno erede di una tradizione di "commedia all'italiana" che nulla ha a che vedere con innumerevoli filmetti che, purtroppo, troppe volte ingolfano le nostre sale.

…sono le due classiche perdenti di successo, che hanno la sola colpa agli occhi della società di essere “nate tristi”. E che si prendono semplicemente una rivincitaverso l’istituzione, sovvertendo l’ordine costituito, per poi farvi diligentemente ritorno. SeValeria Bruni Tedeschi qui, va detto, in una prova maiuscola, fa sostanzialmente se stessa (con una punta di snobistica civetteria e di temperato macchiettismo), laRamazzotti studia il suo personaggio in levare, trattenendo il dolore per lasciarlo scorrere dentro di sé come un dolce veleno, ma pronto a trasformarsi in amore.
Ovvio che sono loro due a tenere su tutta la vicenda che Virzì, tutto sommato, regge bene tenendosi equidistante dall’estetica dei “matti da slegare” ma anche dalle tentazioni spettacolari alla Qualcuno volò sul nido del cuculo. Viaggia a velocità diverse accelerando o rallentando, pigiando ora più sul pedale della commedia, ora su quello del dramma. Senza alzare la voce, oltretutto, butta anche lì qualche discorso sull’istituzione psichiatrica anche mescolando nel cast attori e veri pazienti dei centri che ha visitato per documentarsi. Cameo per il cantautore livornese Bobo Rondelli nella parte del truzzissimo ex amante di Beatrice che fa pipì, dal terrazzo di casa sua, in testa a Valeria Bruni Tedeschi: e anche questo è Paolo Virzì.


domenica 29 maggio 2016

Una chiacchierata tra Goffredo Fofi e Paolo Mereghetti su cinema e anarchia

Colonia - Florian Gallenberger

un po' film thriller, un po' film d'amore, un po' film d'avventura.
ambientato nel Cile del colpo di stato del 1973, con annessi orrore e torture, si focalizza l'attenzione sulla Colonia Dignidad  (qui una pagina per chi vuol saperne di più), un posto orribile, zona franca per la legge, un regno nazista esportato dall'altra parte del mondo.
luogo di paura, schiavitù e lavaggio del cervello, Colonia Dignidad è la sede di una delle tante sette che infestano il pianeta, dove un (presunto) semidio tiene un ordine ferreo, ma per fortuna le cose, a volte, non vanno per il verso auspicato dagli aguzzini.
Daniel e Lena riescono nella loro fuga per la vita, contro tutto e tutti,
come capita spesso il film non è un capolavoro, ma si fa vedere bene e in più fa conoscere un pezzo di storia che è vissuta (e vive, in molti luoghi) negli abissi dell'animo umano.
certo i cartelli della recinzione scritti in inglese, in Cile, gridano vendetta, ma nel complesso è un film che merita, e non ti annoia mai.
buona visione - Ismaele





Terribile nella propria realtà storica e al contempo coinvolgente come solo i grandi kolossal politici possono esserlo, Colonia Dignidad è una preziosissima esperienza culturale ed emozionale che qualunque spettatore con un minimo di senso del tempo e della realtà dovrebbe concedersi, quantomeno per non rischiare di dimenticare ciò che le pericolose derive della Storia, eri come oggi, sono in grado di causare.

Opera interessante, capace di tenere con il fiato sospeso dall’inizio alla fine, riuscendo anche a creare l’atmosfera thriller in alcune scene. Certamente il tema è talmente forte da lasciare in secondo piano l’aspetto puramente estetico, che comunque si mostra di tutto rispetto. Non è totalmente chiaro quanto ci sia di romanzato nell’intreccio, in particolare nella scena della fuga, ma nonostante l’eccesso di linearità del racconto, ciò non risparmia crudezza delle immagini e soprattutto la potenza della denuncia.

…Of note is the fact that Michael Townley, a professional assassin who was the primary liaison between Colonia Dignidad and the Pinochet regime, was an American CIA agent, who also served as a member of the Chilean secret police, DINA, and assisted in the military coup that ousted Allende. Townley designed the torture chamber at Colonia Dignidad and participated in biological experiments on prisoners there. In 1976, he was convicted of the murder of Orlando Letelier, former Chilean ambassador to the US.
Swedish actor Michael Nyqvist as Schäfer is chilling in Gallenberger’s well-made, heart-pounding piece. The movie offers an up-close look at the torture chambers and human filth like Schäfer, who began with the Nazis and ended up a creature of the CIA.
Regarding the overthrow of the Allende regime, Henry Kissinger, US Secretary of State at the time, infamously remarked that “I don't see why we need to stand by and watch a country go communist due to the irresponsibility of its people. The issues are much too important for the Chilean voters to be left to decide for themselves.” Instead, he gave them brain-washing factories run by lunatics.

Inteso come un film di prigionia ed evasione,Colonia funziona molto bene, riuscendo ad appassionare il pubblico con un discreto livello di tensione e grazie a una regia in grado di equilibrare al meglio i tempi narrativi. I due attori protagonisti sono perfettamente inseriti nel contesto filmico e, nonostante Gallenberger si soffermi troppo su giochi di sguardi non sempre funzionali e utilizzi, a volte, trovate narrative deboli, quando i due condividono l’inquadratura, il lungometraggio sembra avere una marcia in più in termini emotivi. Emma Watson sfodera un’interpretazione mite e delicata, un’esplosione di sentimenti taciuti coerenti con la “missione” che sta svolgendo all’interno della comunità di Colonia Dignidad.
Basato su eventi realmente accaduti e ambientato durante uno dei capitoli più oscuri della Guerra Fredda, Colonia riesce a rendere perfettamente l’atmosfera di violenza e paura del Cile degli anni ’70 riuscendo a rappresentare un buon connubio tra una storia romantica ad un thriller storico mozzafiato.…

Il regista sbaglia clamorosamente approccio alla storia. Colonia, anche se raccontato con con il ritmo mordente di un buon thriller, resta un tentativo maldestro di raccontare fatti disumani, servendosi dell’inverosimile scorciatoia narrativa dell’ “eroina alla disperata ricerca dell’amato”. La farsa fiabesca, appiccicata al periodo buio della storia del Cile, ha il solo merito di portare alla conoscenza di un pubblico più vasto gli orrori tenebrosi della dittatura. E solo per questo si guadagna tre stellette.
da qui

sabato 28 maggio 2016

Yol - Yılmaz Güney (e Serif Goran )

parafrasando Gramsci Yol è un film dal carcere, un film scritto in carcere, da uno che ha passato molto tempo in galera, anni e anni, e sa cosa vuol dire.
cinque prigionieri escono per alcuni giorni di prigione, ognuno trova un mondo durissimo fuori, familiare, politico (Kurdistan, noi possiamo dirlo), un paese terribile, che era sotto una dittatura e ci sta riaffondando ogni giorno che passa (vedi qui, per esempio).
non è il film che l'ente per il turismo turco avrebbe finanziato, ma questo è il Cinema, non si spaventa davanti alla prepotenza, e racconta il mondo come è, non come qualcuno finge che sia.
meno male che Cannes l'ha premiato nel 1982.
Yılmaz Güney è morto a 47 anni, in esilio, in Francia, nel 1984.
un capolavoro che non si può perdere - Ismaele

QUun ricordo di Yılmaz Güney

(qui un grande film iraniano-curdo, per i curiosi)





É il linguaggio limpido e pervaso di realismo nonché un rispetto pudico nel trattare le vite di questi uomini pedinati dalla macchina da presa a darci la misura dello spessore artistico di questo film, a conferirgli quella caratteristica di grande affresco storico che mantiene intatto il suo fascino anche a quasi trent'anni di distanza. Seguendo le orme degli uomini il film diventa un viaggio attraverso la condizione politica e sociale della Turchia, dentro l'endemica contraddizione di un paese che guardava all'occidente ma rimaneva prigioniero delle sue ataviche usanze. "Il regista di questo film è stato condannato dai tribunali turchi a più di cento anni di prigione per delitti di opinioni". Questo recita la didascalia che anticipa i titoli di coda. Guney era in carcere quando scrisse la sceneggiatura del film che fu girato dal suo assistente Serif Goran e montato da lui stesso quando, dopo una rocambolesca evasione, riusci a raggiungere la Svizzera. E' un film manifesto "Yol" (che in turco significa strada) che nelle intenzioni di Guney doveva servire a far conoscere la realtà turca in tutta la sua multiforme complessità, l'arretratezza del suo regime militare, la condizione delle donne, la questione curda (la prima volta portata sullo schermo) a un mondo miope e interessato solo alle "grandi"  storie. Di acqua ne è passata sotto i ponti e la Turchia ha di certo mitigato la portata fondamentalista della sua teocrazia ma è indubbio che oggi come ieri questo paese viene guardato con crescendo interesse più per la sua particolare posizione geopolitica (un paese islamico nel cuore dell'occidente) che valutato per la effettiva maturità in senso democratico del suo sistema politico e sociale. Il rischio è sempre quello di sacrificare sull'altare dei grandi interessi economici una miriade uomini persi nelle pieghe di storie mai raccontate, di condizioni socio economiche mai risolte, di mettere in bella mostra i gioielli di famiglia dimenticandosi delle sacche di arretratezza sparse in ogni dove in giro per il mondo, che si trovano nelle retrovie, che resistono all'usura del tempo e sono tanto sorde all'evoluzione dei diritti in tema di rispetto della dignità umana quanto foriere di gravi offese per gli stessi. Considero "Yol" un capolavoro sia per i suoi contenuti estetici e formali, sia perché appartiene a quella categoria di film che hanno il particolare pregio di rappresentare sempre dei momenti di riflessione sulla condizione umana, fosse solo perché servono a ricordarci che oltre la storia ufficiale c'è molto altro che merita di essere conosciuto. E mi piace pensare di aver dato un seppur piccolo contributo alla diffusione di questo film straordinario.

Yol è stato scritto da Güney in prigione ed è stato girato dal suo stretto collaboratore Şerif Gören, che ha seguito le indicazioni dell'autore fin nei minimi dettagli. Quattro detenuti del carcere di Imrali (un'isola del mar di Marmara in cui attualmente è confinato anche Abdullah Ocalan), ricevono un permesso di una settimana di libera uscita. Tutti vogliono tornare alle loro famiglie e alle loro città. Ma è lì che li aspetta la prigione. La metafora del film in fondo è piuttosto scoperta: il carcere nella Turchia di quegli anni non è solo fra le sbarre, il carcere è fuori, è ovunque, è soprattutto nelle menti della gente, nella famiglia. I tratti sono quelli di una società a metà strada fra sviluppo, appannaggio più che altro delle classi vicine all'esercito, e tribalismo. Nelle campagne, nelle città conservatrici, nei territori curdi l'unica vera traccia di “evoluzione occidentale” è la ferrovia. Su affollati treni di terza classe viaggiano i protagonisti del film per raggiungere le loro città: Konya, Adana, Urfa, Diyarbakır, Gaziantep. Lungo il viaggio la presenza forte e costante di un esercito vigile, che ha sotto controllo la situazione. Sono infatti gli anni immediatamente successivi al colpo di stato…

Yol è un film particolare perchè è stato concepito, scritto e "diretto" durante la prigionia di Guney nelle carceri turche. Ciò non gli ha impedito di gettare uno sguardo lucido e realistico sul suo paese. Un paese in fondo prigioniero non solo della dittatura militare, ma di tutta una serie retaggi culturali e sociali a cui vanno incontro cinque detenuti in licenza premio. Cinque strade dirette ad una prigione più grande ma con sbarre e mura più solide da abbattere. Una nazione che guarda all'occidente, ma che dell'occidente riprende i vizi e le storture. Splendide molte sequenze, in particolare il viaggio di uno di essi tra le montagne falcidiate dalla tempesta di neve.

giovedì 26 maggio 2016

Era d’estate – Fiorella Infascelli

ancora un film su Falcone e Borsellino, qui nel periodo della reclusione all'Asinara, dove hanno scritto l'ordinanza per il maxiprocesso (qui, per i curiosi, si può leggere tutta l'ordinanza, 8608 pagine e 40 volumi).
il film è sobrio, non gridato e non retorico, merito di regista e sceneggiatore (Antonio Aleotti).
Borsellino e Falcone, con mogli e figli, fanno una vita di attesa, in catene, aspettando.
rischiano di essere come Sisifo,  vincono le prove come Ercole, e riescono a tornare a casa, come dei novelli Ulisse (il battello alla fine sembra una nave mitica).
e tuttavia il film riesce ad essere corale, mogli, figli, guardie, tutti hanno una parte importante nel film, non sono personaggi di contorno.
il film merita di essere visto, per ricordare che siamo un popolo maledetto che ha bisogno di eroi, e per ricordarci degli eroi.
una cosa si poteva fare, alla fine, quando alla fine si ricordano alcuni fatti e date storiche, praticamente nei titoli di coda, non costava niente ricordare che con i due magistrati sono morte donne e uomini delle scorte,  pazienza, lo si ricorda qua.
al cinema per pochi giorni, contribuite a far vincere la scommessa di un film piccolo piccolo, che esce a fine stagione, in una ventina di sale.
buona visione - Ismaele





 La regia di Fiorella Infascelli riesce a non essere televisiva in un prodotto che, visto il grande pubblico a cui si rivolge, non nascondiamoci dietro a un dito, rischiava di esserlo. Fiorella Infascelli non è mai banale, se vogliamo classica, ma sempre personale e omogenea nell’uso della macchina da presa e nello sguardo “del cinema” applicato sui due magistrati e sui loro cari. In particolare si fanno apprezzare due passaggi stilistici: le ricorrenti sovraesposizioni della fotografia, in bilico tra le bruciature di una vecchia polaroid e l’abbaglio di un’esplosione (palese richiama al tritolo); i piani sequenza dedicati alle scene in cui i due magistrati sono soli, faccia a faccia, aperti ad un dialogo schietto che si trasforma in confessione. Una scelta, quest’ultima, assolutamente sensata se consideriamo i due interpreti principali: Massimo Popolizio e Beppe Fiorello. Bravissimi, precisi e naturali, la mdp si limita a seguirli, lasciando che emerga tutta la loro presenza scenica da attori navigati.
Concludendo, due parole sullo “stagionale” titolo scelto. Così preciso e così vago, così lucente e così straniante. Era d’estate. La morte aleggia già da tempo sui due magistrati. Come anche ci ha ricordato il bel film di Pifla mafia uccide solo d’estate. Ma quell’estate lì, del 1985, vinceva ancora la vita. E la Memoria di Falcone e Borsellino vive anche grazie a bei film come questo.

…Fiorella Infascelli racconta due morituri la cui consapevolezza di andare incontro ad un destino già deciso era totale, ma insufficiente a farli desistere dalla ricerca di giustizia e verità. In quest'ottica Falcone e Borsellino sono due eroi classici, dunque spesso la televisione, meno spesso il cinema, hanno attinto a queste due figure donchisciottesche. Ma Infascelli preferisce illuminarne la dimensione umana affiancando loro le famiglie e quei figli che non potevano non risentire dell'incombenza della morte sulle teste dei loro padri. In un racconto che è crepuscolare nonostante la luminosità quasi accecante Infascelli ripercorre i giorni, sette anni prima delle stragi di Capaci e via d'Amelio, in cui i due giudici si sono ritrovati a condividere la quotidianità, i pasti, i bagni in mare, come amici di infanzia invece che come colleghi di lavoro…

 Il suo non è un ritratto biografico, ma uno spaccato intimista di quei giorni di vacanza forzata trascorsi tra la paura, la tensione, le belle giornate e le famiglie dei due magistrati. La regista impegna tutto il film nel ricordo: quando vediamo muoversi Falcone e Borsellino, (interpretati rispettivamente da Giuseppe Fiorello e Massimo Popolizio), parlare, litigare e scherzare, subito immaginiamo i loro volti, colti in quelle stesse situazioni. Infascelli riesce nel difficile compito di non scendere nella retorica: la narrazione procede attraverso le parole dei protagonisti e non viene dato per scontato l’alta riconoscibilità dei personaggi tratteggiati…

 è un film che narra instancabilmente senza catalizzare l’attenzione dello spettatore; un prodotto con qualche pregio (il gioco delle parti dei due attori, per esempio), ma privo di un obiettivo ben preciso. Una pellicola innocua che al cinema faticherà a farsi ricordare, mentre in televisione avrebbe trovato più spazio e un maggior numero di estimatori.

 Poiché anche Rai Cinema ha preso parte alla produzione del film, perlomeno ci si aspettava la trita retorica propria dei suoi sceneggiati: ma si arriva quasi a rimpiangere questa caratteristica, dopo due ore basate – letteralmente – sul nulla. Anche l’ordinarietà può risultare degna di interesse, cinematograficamente parlando, se la si racconta nella giusta maniera: purtroppo non è il caso di Era d’estate, resoconto monocorde la cui esistenza sembra giustificata solo dalla brama di spremere fino all’ultimo le gocce dell’eredità di Falcone e Borsellino. L’episodio dell’Asinara, per quanto sia avvenuto a causa di una minaccia reale e spaventosa, non conteneva i presupposti necessari per essere spalmato su un intero film; forse avrebbe funzionato meglio se incastonato all’interno di un ritratto più eterogeneo della vita dei giudici…
da qui





lo stesso titolo del film ha una bella canzone di Sergio Endrigo:

martedì 24 maggio 2016

Rita - Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Mortadello e Polpetta contro Jimmy lo Sguercio - Javier Fesser

oltre Disney e Pixar, ci sono altri film d'animazione.
Mortadello e Polpetta sono due agenti speciali che non ti aspetti, e il film ha un ritmo che non ti lascia annoiare.
i personaggi sono a metà fra Alan Ford e Jacovitti, ci sembra di averli sempre conosciuti.
alla regia il grande Javier Fesser, mica uno qualsiasi.
miracolosamente arriva in sala, ma non per molto, temo.
provateci, se avete negli occhi solo Disney e Pixar, potrà stupirvi, è un'altra cosa - Ismaele






…Si tratti della comicità che nasce dalla presa in giro - la CIA sbeffeggiata nella TIA o l'ex detenuto violento e senza cervello trasformato in uno zelante uomo di casa, con la vocina da castrato e la passione per "Junio" Iglesias- oppure di quella che deriva, per esempio, dalla traduzione in immagini di frasi prese alla lettera (per cui il teletraporto diventa il trasporto a piedi di un televisore), il film va a segno a più riprese e contribuirà a far conoscere questo pazzo gruppo di personaggi anche in Italia, a tutti coloro che non li ha già incrociati (da noi sono comparsi a metà anni '90 come cartoni animati col titolo "Mortadello e Polpetta, la coppia che scoppia").
L'accumulo di gag, battute, oggetti, animali, marchingegni e ordigni che non partono mai quando comandati ma s'innescano sempre troppo presto o troppo tardi, ha, non ultimo, il pregio di sostenere una richiesta molto contemporanea di rapidità e varietà: non male, per una coppia che ha fatto il suo debutto nel lontano 1958.

Funambolico, divertente, eccessivo e – ovviamente – iper fumettistico, questo universo generato dalla mente geniale di Ibáñez incontra non solo il gusto spagnolo ma anche quello italiano, giocando sulla parodia del genere spionistico che ha, da sempre, esercitato un certo fascino anche sul fumetto nostrano (basti citare la nota “avventura” firmata da Magnus &Bunker e che risponde al nome di Alan Ford): rovesciando i capisaldi di un genere evergreen dall’insostituibile successo, si crea un universo picaresco, dove i personaggi che si muovono al suo interno sono dei “cialtroni” in bilico sul filo sottile che separa la comicità slapstick dall’umorismo cinico e grottesco, quando anche la risata si trasforma in un ghigno di piacere nei confronti delle disgrazie altrui (in questo caso, quelle provocate da Mortadello e Polpetta). Il film riesce nell’ardua impresa di ampliare il proprio bacino di pubblico, coinvolgendo sia gli adulti a caccia di un disimpegno intelligente, che i più piccoli e disincantati, alla ricerca di nuovi (anti)eroi quotidiani. Mortadello e Polpetta – contro Jimmy lo Sguercio riesce anche, in questo adattamento di Fesser, ad aggiornare le avventure dei due agenti speciali immergendoli nella nostra realtà quotidiana, azzerando ulteriormente la distanza con gli spettatori: si parla così di Facebook, di cellulari e perfino di Grande Fratello, share e audience, sempre senza perdere quel tratto cinico nel descrivere il nostro quotidiano.

Increíble, milimétrica, despampanante, lisérgica, descacharrante, detallista hasta lo obsesivo adaptación de la obra de Franciso Ibáñez. Un triunfo técnico, narrativo y visual, que nos hace esperar ansiosos nuevas entregas de los destartalados agentes de la T.I.A.
El superintendente Vicente (voz de Mariano Venancio) necesita a los mejores agentes. Pero no están disponibles, así que tendrá que tirar de los piojos de hiena, de los burricalvos, de los lepidópteros estrábicos de siempre. Afortunadamente. Francisco Ibáñez no puede tener queja de cómo se curra el cine español el tratamiento de sus más icónicos personajes; tras dos adaptaciones de carne y hueso ─una notable, otra regulera─, el autor ha podido comprobar el esfuerzo de las producciones por ser fieles a su imagen y esencia, y “Mortadelo y Filemón contra Jimmy el Cachondo” sube el nivel hasta donde ni siquiera imaginábamos….


domenica 22 maggio 2016

La caccia – Arthur Penn

si fa bene a cercare i "vecchi" film.
spesso si trovano dei gioiellini che neanche uno s'immagina, La caccia, del 1966, è uno di questi.
Arthur Penn è un maestro, qui si toccano i temi eterni del cinema (e non solo), la giustizia, il potere, la dignità, i soldi, l'amore, l'ipocrisia, il coraggio, tra le altre cose.
le scene sono spesso accompagnare da un coro greco, la massa, il buon senso, la vendetta.
non si pensi a un film a tesi, freddo, è cinema vivo che non può non coinvolgere, in un crescendo senza pause.
Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, Rober Duvall e Angie Dickinson sono i protagonisti.
recuperatelo, se potete, non ve ne pentirete - Ismaele






…Penn si affida ad una regia essenziale e che sfiora il "minimalismo". La macchina da presa si muove pochissimo e solo nel finale viene lanciata in scene "action" fino a quel momento assenti. Arthur Penn muove dal suo passato teatrale e costruisce un film di "messa in scena", fatto di primi piani e piani fissi, lasciando alle prove attoriali il compito di veicolare il suo messaggio tematico e cinematografico. Ed ecco che la fuga di Bubber ci viene mostrata di rado, con fugaci sequenze: la sua è la metafora di un paese che nel pieno dei propri errori (il Vietnam era già cosa americana) tentava di fuggire da se stesso, per tornare infine a casa. E non poteva esserci che sconfitta.
"La caccia" è un lungometraggio di denuncia e critica, lo sguardo politico e rassegnato di un regista che attraverso il cinema e la ridefinizione dei generi cinematografici, ha portato avanti un racconto di perenne critica sociale e politica verso il suo paese. Arthur Penn è stato uno dei più importanti e influenti autori del cinema americano nel biennio '60 e '70. Ha raccontato storia, sogni e fallimenti di una nazione. "La caccia" è un film profondamente personale con cui Penn ha utilizzato il mezzo cinematografico per raccontare la realtà.
Un gioiello da riscoprire.

Un vero e proprio capolavoro. Penn smaterializza il sogno americano buttando in faccia allo spettatore lo sgretolarsi delle convenzioni del tempo: la famiglia allo sbando, la giustizia ormai intesa come un qualcosa di personale, lo sprezzo della legge e soprattutto il becero razzismo che pervadeva (e pervade...) la società americana. Inoltre Penn ci mette di fronte alla dignità dei poveri contro l'esibizionsimo finto dei ricchi. Un film che non ha una vera trama, per cui la fuga di Redford altro non è che l'espediente con cui Penn scandaglia le magagne morali e ideali di una società di affaristi, falsi e moralmente ambigui. Splendida la scena in cui Brando mezzo sfondato di pugni guarda i cittadini del paese che sono tutti lì a guardare e giudicare senza muovere mezzo dito. Penn punta il dito anche contro la manipolazione delle notizie, con i personaggi che diffondono voci non vere al solo scopo di appagare la loro voglia di protagonismo. Il tutto reso con una regia "invisibile" che Penn si porta dietro dalla sua formazione teatrale: la macchina da presa si muove pochissimo (eccezion fatta per il finale) e predilige piani fissi. Secchissimo anche il montaggio, talmente ardito da "tagliare" il ritmo e la scena quasi da risultare fastidioso. Un espediente che ritroveremo anche nel successivo "Gangster story". 
Un Penn meravigliosamente politico, duro e straordinario nel veicolare le prove attoriali (su tutti Brando e Jane Fonda) verso l'esplicazione del suo messaggio.



Fa letteralmente rabbrividire, ed è ingiusto considerarlo alla stregua dei tanti film deludenti che Marlon Brando ha girato in quegli anni (cfr. i due seduttori, a sud ovest di sonora, i morituri etc.). 
Non è tanto per l'interpretazione di Brando che "la caccia" verrà ricordato, ma per la maestria di Penn di evocare con sordida crudeltà quella ritualistica collettività di provincia del film. 
Per certi versi, un film che lo ricorda potrebbe essere "boys don't cry", recente e durissimo film che rivelo' al grosso pubblico l'androgina Hillary Swank: ho reso l'idea? 
Un film agghiacciante sulla follia di un paese in preda all'esaltazione e al linciaggio del "martire di turno", sulla brutalità generazionale (da brividi l'immagine di tanti giovani traviati da un bisogno estremo di sostituire la legge), il razzismo, la difficoltà di un ordine messo a dura prova da un senso di protervia condanna popolare. 
E' nel finale che noi intuiamo (spoiler) tutta l'impotenza della legge e dell'ordine davanti a un "potere" (se così vogliamo chiamarlo) che rimanda alla memoria la peggior legge del west. 
Un film da rivedere e rivalutare, per nulla eccessivo e inverosimile come vorrebbero farci credere certi critici

venerdì 20 maggio 2016

Money Monster - Jodie Foster


si sentono arie di Inside man, di Spike Lee, nel quale recitava proprio Jodie Foster, e de La grande scommessa, del primo la tensione di un imbroglio e di una corsa contro il tempo, del secondo il tradimento del dio denaro, dove è evidente il gioco a somma zero, chi magicamente fa crescere i soldi è l'altra faccia di chi viene rapinato.
rapina tutto legale, naturalmente, fino a prova contraria.
un thriller giornalistico-finanziario (ma, come dice Julia Roberts, non si fa giornalismo finanziario, proprio non si fa giornalismo, è solo intrattenimento, con spruzzate di finta economia, infotainment, lo chiamano), dove la televisione è un contenitore nel quale l'unica cosa importante è fare soldi, tutti, senza fare prigionieri.
Money Monster si regge sopratutto sulla grande interpretazione di George Clooney, vero mattatore del film.
non è certo un capolavoro, ma si fa vedere bene - Ismaele






....Teso, divertente, angosciante, amaro nella verità che ci propina, Money Monster funziona alla perfezione, dal primo minuto in cui ci si mostra (proprio come in The Newsroom) il dietro le quinte di una televisione non certo da premio Pulitzer, fino all'ultimo in cui l'ironia di youtube, e il senso di sconfitta, la fanno da padrone.
Nel mezzo, un racconto a più voci, con la sintonia tra George e Julia che regge a distanza di sicurezza, con auricolare ad unirli, con O'Connell disperato e confuso, con Dominic West sempre con quella faccia da sberle che tanto ci piace e con tanti piccoli comprimari e galoppini che rendono più colorata la messa in scena.
Mescolando i generi, mescolando gli stati d'animo, ne esce un film che sa ballare a ritmo di rap, sa spiegare i meccanismi sinistri dell'economia e del giornalismo, sa tenere con il fiato sospeso, incollati allo schermo.
Proprio come chi, da casa o da lavoro, segue le vicende di Lee e Kyle.
O come chi, -impensabile, eh?- ascolta o legge una lezione di economia.

In Money Monster infatti si gioca, ci si diverte a inscenare il dramma in diretta tv, come se la povertà fosse ormai diventata anch’essa una dei tanti gangli della società dello spettacolo. E, in effetti, non lo si può negare, è proprio così, ma lo è anche per via di un immaginario avvolgente e acritico, cui lo stesso film della Foster finisce per rientrare. Infatti quando si scopre che alcuni momenti della tragedia che è andata in scena sono diventati virali sui social, si capisce che nulla è serio, che tutto si ribalta in entertainment, come il film stesso e come Clooney e Julia Roberts che poi – asciugata qualche lacrima – si interrogano sul palinsesto da organizzare per la settimana successiva. Questa boutade, di un cinismo “leggero” e terrificante, viene sposata appieno dalla Foster, senza alcun distanziamento ironico (se non un minimo movimento di macchina) e senza nessuna forma di auto-accusa. L’indulgenza verso i suoi personaggi diventa allora in Money Monster indulgenza verso un mondo spietato, lo stesso che si vorrebbe (forse) denunciare.
Ma allora, se non è più il tempo del cosiddetto buonismo alla Frank Capra, né della denuncia amara e scottante alla Costa-Gavras, questi che tempi sono? Jodie Foster non ha la risposta e fa troppo poco per cercarla, cullandosi troppo nella sua beata indifferenza.

...Scritto con intelligenza e precisione, Money Monster mette in piedi un affascinante quanto ritmato spettacolo della disperazione, nello stesso identico modo con cui gli antichi romani provavano attrazione per la morte negli anfiteatri: è tutto davanti a noi, estremamente macchinoso, ma è un’esperienza totale, quasi ab-soluta dal resto. L’uomo è un animale perverso che ama assistere alle tragedie del sangue gettato perché più il dramma è amplificato (dalle telecamere, dai microfoni, dalle luci), più siamo in grado di stabilire la giusta distanza emotiva e di non sentirci responsabili. Il film allora assume il punto di vista degli autori dello show che invece di curare, assecondano la tragedia, invece di illuminare i “mostri”, mettono a fuoco le vittime del sistema; insieme alla corrente narrativa e morale, la tensione viene poi incanalata in tre interpretazioni perfette, di George Clooney (il buffone), Jack O’Connell (il martire) e Julia Roberts (la burattinaia, e che personaggio meraviglioso..). In un finale da teatro greco, con tanto di palcoscenico e colonne doriche, gli attori recitano il loro ultimo atto, intrappolati da una riflessione che abbiamo già fatto in passato e che, nonostante il trascorrere del tempo e delle crisi, pare immutata. I mostri non pagheranno mai.

Jodie Foster impone sin dalle prime immagini il grado di acuta comicità e pungente sarcasmo che verrà disposto in modo brillante ed energico nel corso di tutto il film, senza mai perdere quell’appeal di partenza. In uno dei momenti in cui si riflette su possibili soluzioni per evitare che la bomba indossata per forza di causa maggiore da George Clooney esploda, uno dei poliziotti avanza la concreta ipotesi di fare fuoco sul detonatore, in prossimità del rene sinistro del conduttore, soffermandosi sull’alta percentuale di riuscita dell’intervento militare, oltre che sulla concreta possibilità che, seppur ferito quasi mortalmente, anche Lee Gates potrebbe farcela, imponendo una sincera risata, risata che regnerà sovrana in Money Monster anche in scene adibite alla risoluzione del pericoloso problema proposto.
Jodie Foster è in grado, dunque, di mantenere il tono improntato verso una comicità serrata, funzionale ai personaggi e funzionante nonostante il realismo di una situazione di pericolo evidente, con momenti di suspense intrisi di ridicolo per un film che diverte senza perdere di vista la possibilità di riflettere sull’inconsistenza del denaro e sulle drammatiche conseguenze che si riscontrano nel momento in cui ci si accorge di tale inconsistenza.

giovedì 19 maggio 2016

Al di là delle montagne - Jia Zhang-Ke

sembra di vedere un film neorealista (e un po' anche alla Ken Loach), ed è un grande complimento.
arriva il capitalismo, l'accumulazione primitiva, gli squali, non sono tempi per gente umile.
Shen Tao (stessa attrice protagonìsta di Io sono Li, di Andrea Segre, e degli altri film di 
Jia Zhang-Ke) deve scegliere un marito, fra Liangzi e Zhang,  avrà un figlio, Dollar, intanto il futuro arriva, troppo in fretta.
c'è chi farà il padrone, e chi il lavoratore mezzo schiavo.
il tempo passa, qualcuno muore, Shen Tao aspetta.
impossibile annoiarsi, e non soffrire, o uno dorme, o è già morto - Ismaele






Se il film di Jia ha un difetto è il suo porgersi indifeso, privo di astuzie e di schermi. Le sue metafore si offrono a mani nude, non vengono a patti con la complessità di un ragionamento sulla Cina contemporanea, non ne hanno il bisogno né l’intenzione…

Mountains May Depart è un film imperfetto ma potente, grandioso e insieme spudoratamente sgangherato e kitsch. Potrebbe crescere con il tempo e salire allo status di capolavoro. Vedremo.

…Se il suo cinema precedente minacciava l'assorbimento dell'individuo nelle metamorfosi capitaliste, Al di là delle montagne realizza la minaccia e la spiega lungo un'asse temporale che contempla presente, passato e futuro. Sospeso tra la certezza di quello che è stato, il film apre sul Capodanno del 1999, e l'ipotesi di quello che potrà essere, il film chiude sull'inverno del 2025, Al di là delle montagne materializza l'ambizione cinese nella figura di Zhang. Indietro restano Lianzi, senza lavoro e in compagnia del suo cancro, Tao, corpo nazione indecisa sulla strada da prendere al debutto e poi votata al consumo, e Dollar, il prezzo pagato alla conversione economica. Dopo aver reso conto di milioni di persone povere e profughe e aver registrato centinaia di città e siti archeologici sommersi, il regista affronta i flussi migratori e disloca per la prima volta i suoi personaggi al di là dei confini cinesi. L'Australia diventa la terra promessa di Zhang e la terra straniera di Dollar, dentro un melodramma superbo su due generazioni che non riusciranno più a comunicare. In fondo al loro silenzio, che ormai parla soltanto la lingua inglese, resiste la tradizione incarnata da Tao, punto fermo del film che prepara ravioli e 'riconosce' la voce cara. Dentro un contesto (sur)reale, dentro città simbolo della cultura classica cinese ridotte a cantieri, Zhangke accomoda tre personaggi in cerca di qualcosa, forse l'amore, forse una famiglia, forse il successo, forse la propria identità, forse una finestra verso il mondo esterno, che ha smesso di essere clandestino e contempla adesso l'occidentalità pop dei Pet Shop Boys…

Mountains May Depart non è un capolavoro. Non è questo il punto. Non lo è mai, ovviamente. Il punto è che questo film è qualcosa di più di un’opera e Jia Zhang-ke è davvero uno dei più grandi registi della terra. E non per la consapevolezza teorica o la sensibilità di uno stile supremo che trasforma la necessità in caso. Non ha bisogno di forzare la mano, di curare la posizione le luci e di “creare” il bello. Quello che gli sta a cuore è incontrare le “persone”, seguire le loro emozioni più vere e sincere, tutti quei sottili cambiamenti che si muovono sul filo dei ricordi, dei rimpianti, delle speranze, lungo la colonna sonora delle canzoni popolari, quelle dei Pet Shop Boys o quelle di Sally Yeh. Per lui la perdita della lingua non è un dato sociologico, è un taglio nella carne, nella sostanza stessa dei legami. Questo film è qualcosa di più. È una confessione a cuore aperto e un abbraccio che stringe al petto, tocca la pancia. È come l’amore. Fa piangere e gioire di bellezza.

…con Al di là delle montagne Jia Zhangke ha scritto forse anche il suo film più complesso, in cui le ellissi temporali e narrative sono tenute insieme non solo dal riapparire di feticci, anche culinari (i ravioli che vengono preparati e mangiati in tutti e tre gli episodi), non solo da un discorso estetico di rara raffinatezza e profondità (si passa dal formato 1:33 del primo episodio all’1:85 del secondo, al cinemascope con obiettivi anamorfici del terzo), ma anche da una colonna sonora che sembra giocata su una sorta di eterno ritorno nietzschiano, a partire da Go West dei Pet Shop Boy, cantata, ballata e ri-declinata in varie forme e sensi.
Se abbiamo la forte impressione che Jia Zhangke sia riuscito a trovare la formula per tornare ai livelli di Still Life, va detto comunque che l’innesco di Il tocco del peccato è stato decisivo. È, infatti, solo grazie al suo film del 2013 che oggi, con Al di là delle montagne, possiamo assistere a una forma di cinema che scavalca a piè pari il legame con un certo tipo di autorialità, a tratti dimessa a tratti introversa, che aveva connotato il cinema di Jia del passato. Ora siamo di fronte a un cineasta che sa osare spudoratamente, che sperimenta con l’immagine come solo pochissimi al mondo sono in grado di fare, che si attesta definitivamente nell’alveo dei più grandi.

…Le montagne possono partire, dice il titolo originale. Richiama, contraddicendolo, un proverbio cinese secondo il quale gli amici sono stabili come montagne. Così dovrebbe essere, e non è, tra il padre di Dollar e l'amico più umile, sinceramente innamorato di Tao, in quel primo episodio che ha statuto autonomo tanto da esser corredato da propri titoli di coda. Al di là del proverbio, il titolo del film si riferisce alla Cina stessa: è lei, il suo popolo, la montagna destinata a spostarsi contronatura, in un movimento che simbolicamente rivoluziona le regole della fisica - non poi diversamente da quanto l'uomo riesce a fare, ad esempio quando costruisce una diga colossale a invadere d'acqua una vallata popolata da un milione di persone ("Still life" e "Dong", documentario sulla costruzione della diga del Fiume Giallo).
Quello di Jia Zhang-Ke è cinema dello sradicamento. Prima ancora di essere cinema semi-documentaristico, "del reale", cinema contemplativo che procede con ritmi dilatati e long takes; o cinema-documento sulla Cina contemporanea e sulle sue metamorfosi.
Il cinema di Jia ha il dono della semplicità e della trasparenza, nel porsi come critica dei vizi di fondo del modello capitalista e della corruzione (non solo materiale) che vi si insedia. Il progresso ha un costo terribile in termini di perdita, rinnegamento della memoria, delle radici. "Mountains may depart", proprio come il titolo (originale) suggerisce, si sposta dalle radici con due movimenti a strappo, violenti e inesorabili come lo scorrere del tempo. Il passato si allontana e si sgretola; le memorie sono oggetto di rimozione. La perdita delle radici si accompagna alla rinuncia, inconsapevole, ai valori e alle emozioni, all'autenticità delle cose e al loro significato. Alla vita stessa. Il film si apre e si chiude (didascalicamente, ancora) sulle note di "Go west" dei Pet Shop Boys, che rimane per Tao memoria di giovinezza. Unica illusione di felicità? 
C'è un pessimismo di fondo, nel cinema di Jia, verso il progresso in quanto tale. Un pessimismo che trascende la Cina e la contemporaneità, ed è in grado di tradursi immediatamente in metafora per l'intera civiltà globalizzata: in chiave di lettura del progresso umano in senso lato. Stiamo parlando di un autore orientale: il progresso e lo sviluppo non posseggono i connotati teleologici delle "magnifiche sorti e progressive" che hanno in Occidente. Nel cinema di Jia è evidente come il progresso sia ontologicamente una tara della modernità - e come tale sia vissuto sulla propria pelle dal popolo cinese. Su di una tradizione millenaria, il progresso non attecchisce che distorcendola, snaturandola. 
E' la peculiare declinazione nel contesto cinese della proverbiale "mutazione antropologica" della modernità, che ha sconvolto le nostre società dalla seconda metà del XX secolo. Oggi, in Cina, può apparire neorealismo in ritardo di settant'anni: invece funziona come monito e come riflessione su ciò che anche noi (i nostri nonni e genitori) abbiamo attraversato. E non ricordiamo, oggi, o non abbiamo mai saputo, per quali vie e percorsi, anche noi per quali sradicamenti, siamo giunti nel XXI secolo.