lunedì 20 ottobre 2014

Io sto con la sposa – Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry

nessuno si aspetti Chaplin o Lubitsch, questo è un film diverso, un documentario che racconta un viaggio di quattro giornate.
il viaggio va a buon fine tutti arrivano a Stoccolma, ma non era scontato.
la cosa eccezionale è che ognuno non interpreta se stesso, è sé stesso, ognuno racconta quello che ha visto e ha subìto di persona, solo perché il caso ha voluto che non nascesse in Europa.
e su quei barconi non ci sono delinquenti (quelli arrivano in modi più comodi e sicuri), sono sempre più spesso persone molto simili a noi, "gente che che non voleva né vincere né morire", per usare le parole di Luigi Tenco.
e quando i "clandestini" sono delle persone in carne e ossa, le conosci, li ascolti, hanno un nome, ti affezioni, non sono numeri, alla fine questo è secondo me il pregio più grande del film.
e fa piacere essere uno dei 2617 che hanno contribuito, nel loro piccolo, alla riuscita del film.
alla fine trovate un corto siriano, l'ho visto qui per la prima volta, mi sarebbe piaciuto vederlo al cinema insieme al film, guardatelo qui, e andate a vedere "Io sto con la sposa", non ve ne pentirete, sta "addirittura" in 38 sale, questa settimana, non fatevelo sfuggire, dopo direte anche voi: "Io sto con la sposa" - Ismaele






Il documentario Io sto con la sposa è un'opera interessante e originale che non sfrutta mai la retorica per parlare di immigrazione e questioni politiche, proponendo una testimonianza significativa ma al tempo stesso tempo in grado di intrattenere. Grazie alla regia dinamica e uno svolgimento scorrevole e lineare riesce ad avvicinarsi con sensibilità alle vite dei protagonisti, realizzando inoltre l'obiettivo di far riflettere immortalando un capitolo importante delle vite degli immigrati clandestini senza però mai mettere in secondo piano la speranza che li anima.

Si potrebbe dire che Io sto con la sposa è la classica storia vera che fa pensare: ma questa definizione suona scontata, superficiale, ed anche un po’ riduttiva. La classificazione come opera d’impegno, per quanto più che mai appropriata, non rende infatti merito al suo discreto potere incantatore: la sua profondità morale,  striata di fatalistica leggerezza, ci trasporta dentro le emozioni interrotte di una normalità violata, che tenta di ricostruirsi, di ricucire gli strappi, mantenendo, nonostante le circostanze, un sano e pacifico rapporto col mondo. L’amore per la vita è un sentimento ferito. Ma è un bagaglio di tristezza che, con la dovuta modestia, riesce ancora a mostrarsi bello e forte.

Io sto con la sposa, che fin dal titolo nasconde una precisa volontà d’appartenenza non solo a qualcosa ma anche a qualcuno, è la cronistoria, familiare e amicale, ravvicinata e utopica, di un sogno irrealizzabile che eppure si materializza lasciandosi accogliere su uno schermo in cui immaginare è possibile, senza per questo limitarsi all’evasione priva di costrutto o al favolismo fine a se stesso: un attraversamento dei confini travestito da atto qualunque, una sofferenza che si fa (finalmente!) gioia contagiosa e vitale, anche nel dolore, anche nella confessione di vite dai tracciati biografici tutt’altro che rosei. Perché così dovrebbe essere, sempre e comunque, per chiunque.
Un gesto impudente, per certi versi radicale nel suo essere palesemente eversivo, quello dei tre registi, che però al di là della curiosità o della sorpresa che può generare nasconde al suo interno una forza dirompente, tanto simbolica quanto anarchica, che non è solo sfacciataggine ma è voglia di documentare il paradosso contemporaneo di chi, nel momento in cui decide di abbandonare il luogo in cui è nato e cresciuto, diventa solo un numero tra tanti o un punto all’ordine del giorno delle Nazioni Unite puntualmente bypassato.
Tale contraddizione, sulla bocca di tutti ma realmente prossima all’interesse di pochissimi, è sciolta dagli autori – almeno da loro, verrebbe da dire – con una risoluzione pragmatica, in cui chi sta dietro la macchina da presa invade il profilmico diventandone non solo parte attiva ma anche parte in causa. Un’operazione cinematograficamente interessante, certo, che mette in moto diverse idee e soluzioni riguardo al coinvolgimento di un regista in una storia, ma anche un’azione umanamente rilevante in cui gli autori si sono evidentemente messi in gioco non solo come registi ma ancor prima come uomini…

Domina, come in un thriller, l’attesa di vedere come andrà a finire. Un punto a favore degli autori, che si assicurano l’attenzione di chi se ne sta seduto in platea ed evitano le la noia di tanti, pur benintenzionati, documentari. Tutto è girato con gran sapienza, secondo gli standard del nuovo cinema giovane-internazionale, con camera a mano/a spalla che restituisce l’accadere nel suo farsi, la vita nel suo svolgersi (con forse, viene da pensare, qualche aggiustamento successivo in fase di editing). Ritmo alto, un alternarsi sapiente di fasi di chiamiamola così azione con altre di conversazione in cui si svelano le identità e il brackground dei cinque migranti. Una struttura decisamente narrativa che evita anche il rischio, così presente nei documentari, del didascalicismo e dell’intenzione pedagogica. Fin qui le cose buone. Poi però bisognerà anche dire dei limiti, notevoli, di Io sto con la sposa, e di come gli autori (e tutto il gruppo) finiscano con lo sprecare, se non buttare via, la buonissima idea di partenza. Quando sono uscito dal cinema ho sentito dietro di me uno spettatore imprecare e quasi urlare esasperato: “ma cosa mi significa ‘sto film? ma dove vuole arrivare?”. Esagerato, però non aveva mica tutti i torti. Perché, dopo il notevole inizio, dopo che il corteo degli sposi per finta si è messo in moto, le tue aspettative di spettatore sono alte, ti immagini un avventurosissimo viaggio da cuore in gola attraverso il continente in cui quel bellissimo abito bianco indossato da quella bellissima ragazza riuscirà a sventare ogni avversità, a sgominare ogni avversario. Come l’armatura magica di un super eroe. Posti di blocco miracolosamente evitati, poliziotti astutamente ingannati, passanti e passeggeri incontrati on the road allegramente, festosamente presi in giro e depistati. Con magari gente che si complimenta con gli sposi, li invita a casa, offre da bere. Cose così, ecco. Invece non succede niente. Zero. Quello che vediamo sarebbe successo tale e quale anch, anche se il gruppo non avesse organizzato la messinscena. Allora, scusate, perché tanto sbattimento? Sì, conosco l’obiezione: la finzione era solo un cautelarsi contro gli imprevisti, che per fortuna non ci sono stati. Una exit strategy dai possibili casini. Mica mi sto lamentando che tutto sia andato liscio, sottolineo solo come la bellissima trovata iniziale finisca col rivelarsi celibe, sterile, incapace di produrre una narrazione, una qualsivoglia trama (sì, anche nei documentari ci deve pur essere uno storytelling). Cos’avrebbero dovuto fare gli autori? Ah, non lo so, non ho mica avuto io l’idea di portare cinque clandestini attraverso il continente mascherandoli da sposi e invitati…

Questo film è un’azione politica, oltre che un documentario, ed è stato costruito come un ibrido, senza dialoghi e personaggi prefissati: le persone si muovono nelle proprie scene in piena libertà, raccontandosi. Tutto questo facendo i conti con le esigenze e i rischi della missione: arrivare in Svezia il più presto possibile. Ciò ha comportato ritmi di lavoro durissimi, sopportabili solo grazie al clima che si è creato nel gruppo. Alcuni dei racconti sono molto commoventi, altri sono devastanti, per la crudeltà a cui sono stati sottoposti questi uomini. La sposa stessa condivide la sua esperienza della guerra, di come, prigioniera in casa sotto le bombe, finisse per passare ore con la musica in cuffia a ballare come una pazza per reagire in qualche modo alla disperazione. E’ proprio lei che, parlando con il suo finto sposo, guarda fuori dal finestrino e dice: il cielo è di tutti. C’è un Sole unico per tutta l’umanità, una sola Luna. Anche il mare è di tutti, così anche la vita è di tutti e per tutti. No alle frontiere.
Una frase che suggerisce il cambiamento che questa esperienza di viaggio opera su coloro che l’hanno affrontata: un diverso sguardo sulla realtà, la ricerca di un linguaggio che è una nuova estetica della frontiera, sapere che la condivisione di un rischio porta alla condivisione di un sogno. Questo sogno piomba sul gruppo con una potenza inimmaginabile: appena usciti dalla stazione, a Stoccolma, finalmente a destinazione, tutti si mettono a ballare e stappano lo spumante. Le emozioni sui loro volti sono difficili da dimenticare e fanno venire voglia di applaudire.
Lo stile del film è appropriato, le telecamere sono al servizio di ciò che viene raccontato, le immagini sono funzionali ma non per questo meno affascinanti. Mi è piaciuta la fotografia perché mantiene una luce molto naturale, senza pesanti correzioni colore.
Un film corale, istruttivo, emozionante…da vedere!

Per quanto le parole dei clandestini protagonisti del doc siano spesso toccanti, e le intenzioni (oltre che il risultato effettivo!) alla base della pellicola indubbiamente nobili, andando però al sodo filmico, alla grammatica cinematografica e al valore complessivo dell'opera, sono davvero poche le briciole d’interesse che ci si ritrova fra le mani, come critici più che spettatori (non neghiamo che una parte di pubblico, abituato a reportage giornalistici in questo stile, possa apprezzare e magari appassionarsi). Perché trattasi di un diario di viaggio piuttosto amatoriale, addirittura quasi un filmino delle vacanze – giacché gli ostacoli e i momenti di tensione di un percorso perennemente sul filo del rasoio sono quasi nulli. Insomma, più che un film da presentare (sebbene fuori concorso) nella categoria Orizzonti a Venezia 71 – selezione, questa, che ci pare più che altro rispondere ad esigenze “doverose” e “necessarie” – Io sto con la sposa troverebbe dignitosamente la sua collocazione più adatta all’interno di un programma d’inchiesta, per il suo approccio televisivo e l’andamento più improvvisato che narrativo. Il cinema, semplicemente, non abita qui. 
da qui

…L’idea al centro di tutto è di una potenza cinematografica rara, e quando l'ho capito ho capito anche cosa ci ha visto tu per donare, perché è quel genere di trovate che ti rendono il film piacevole, che spostano un racconto “d’impegno” nel terreno dell’intrattenimento: per evitare i controlli tutti si vestono da corteo matrimoniale. Ci sono i due sposi e tutti sono vestiti da cerimonia. Con questa finzione sperano di non essere fermati. 
Dunque persone disperate che rischiano grosso cercando di migliorare la propria vita con un piano che è tanto rischioso quanto esilarante, girano vestiti a festa per i confini d'Europa. Il film purtroppo non è così, non indugia su questa componente né sfrutta le potenzialità del fatto che questi stanno passando davvero diversi confini (Italia-Francia, Francia-Germania, Germania-Danimarca e infine Danimarca-Svezia) sempre vestiti da sposi! Cioè c’è una parte di realismo grottesco (ripeto: sul serio attraversare confini, alcuni tra i monti a piedi, vestiti a festa) che non è per nulla resa come dovrebbe. Poteva sembrare la vera storia di un film di Kusturica, ma non è, poteva essere un modo paradossale di riflettere e "mostrare" l'assurdo di alcune legislazioni e invece no…
da qui




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