qualche anno fa ho visto “Umut” (Speranza), che racconta una storia sempre attuale, di chi vuole fuggire la propria condizione con un colpo di fortuna personale (lotterie e grattaevinci e giochi d’azzardo vari non mancano da noi, mi sembra).
e lo fa con una pulizia, una chiarezza, una forza e un coraggio grandissimi,
un film bellissimo - Ismaele
un film bellissimo - Ismaele
… Güney era curdo da parte di madre, nato nel 1937 ad Adana, da padre di etnia Zaza. Ha fatto l’attore, lo sceneggiatore, il romanziere e il regista ed è passato alla storia come uno dei cineasti più impegnati in assoluto. È stato in carcere tre volte per un totale di tredici anni, le prime condanne le ha scontate per ragioni politiche — era la prima metà degli anni settanta e le leggi turche erano intolleranti nei confronti della propaganda — poi per aver ucciso un giudice. Nel 1981 è riuscito ad evadere e scappare in Francia, lasciandosi alle spalle una condanna a diciannove anni della quale non avrebbe probabilmente visto la fine. Ha scritto i suoi lavori migliori da dietro le sbarre e li ha fatti girare dai suoi assistenti. Nel 1982 ha vinto una Palma d’Oro a Cannes per Yol, il suo film più conosciuto all’estero, e nel 1983 ha girato Duvar, la sua ultima pellicola, mentre il governo turco revocava la sua cittadinanza e lo condannava a ulteriori vent’anni di prigione. È morto nel 1984, con alle spalle una delle carriere più rocambolesche della storia del cinema. Questi sono i fatti che sono riuscito a trovare facendo ricerche sul web, il resto sono più che altro leggende…
“Güney era un guerriero. Ha vissuto la sua breve vita con intensità, con ardore e passione. I suoi film sono pieni di passione. E questo ha ispirato molti, soprattutto me. Aveva una passione senza compromessi: una forza straordinaria. E’ stato un maestro del cinema realista. Era stato lui stesso ispirato dai neo realisti italiani. Penso per esempio ai suoi primi lavori, Umut, speranza. Ti viene in mente Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica. Ma anche Accattone di Pier Paolo Pasolini. Il cinema turco di oggi ha in sè questo realismo secco e asciutto, la capacità di dire molte cose con poche scene.” (Fatih Akin) Questa testimonianza di Fatih Akin, regista turco fra i pochi noti alle platee internazionali, è importante e giusto riconoscimento del ruolo centrale che Yılmaz Güney occupa fra i grandi del cinema, non solo in Turchia. La sua vita segnata da esperienze estreme come carcere, evasione, esilio, rende impossibile scindere l’uomo dal suo cinema, divenuto per lui linguaggio armato con cui vivere oltre la morte e colpire il nemico, dovunque continui ad annidarsi. Dopo anni di prigione e sceneggiature scritte in cella e affidate ad altri, Guney torna a dirigere in libertà per l’ultima volta, e lo fa parlando di un’esperienza vissuta in prima persona…
Ai tempi in cui era una star del cinema popolare turco lo chiamavano “çirkin kral”, il “re brutto”. Seguiva modelli alla James Bond, il Marlon Brando in canottiera, Jack Palance, Burt Lancaster. Il pubblico, soprattutto quello poco raffinato, non solo si immedesimava nei suoi ruoli, ma gli voleva bene, lo considerava uno dei suoi. La sua parabola da divo a regista è accostabile (in termini generali e talvolta specifici) a quelle del nostro De Sica o del maestro Eastwood. Di mezzo una spezia pasoliniana per una passione letteraria e scrittoria che fu l’inizio dei suoi guai giudiziari: nel 1961, a ventiquattro anni, viene condannato a un anno e mezzo di prigione per aver pubblicato un romanzo “di propaganda comunista”. All’anagrafe Yılmaz Pütün, il mondo lo ricorda come Yılmaz Güney, letteralmente traducibile con qualcosa come “sud integerrimo”; non è pedanteria di redattore: in turco ogni nome ha un significato! L’apice della sua carriera lo visse lontano dalla sua gente, in Francia, ricevendo la Palma d’Oro di Cannes per il lungometraggio Yol e morendo poco tempo dopo, avendo giusto il tempo di girare un ultimo film, Duvar. Senza quel premio probabilmente non ci ricorderemmo di lui. Merito di una Francia che in quegli anni dava accoglienza a più di un intellettuale esule: oltre a Güney, in quegli anni a Parigi c’erano Solanas e Costa Gravas, ad esempio, mentre già negli anni Settanta Sartre si era speso per una campagna internazionale contro la carcerazione di Yılmaz del 1972…
La tomba di Yilmaz Güney a Père Lachaise è diversa dalle altre. Non di marmo, di pietra calda, ma una sorta di baldacchino di acciaio lucido, freddo, a sovrastare la lapide. In realtà però non c’è freddezza in quell’acciaio. Paradossalmente quel lucido metallo finisce con il trasmettere calore. O forse è solo la suggestione di chi sta davanti a quella tomba. E vede scorrere davanti agli occhi la vita passionale, appassionata, caldissima di Yilmaz Güney. Che oggi avrebbe 73 anni se un tumore allo stomaco (non curato in prigione), non l’avesse corroso. Güney è morto a Parigi, il 9 settembre 1984. Era arrivato nella capitale francese, esule, in modo rocambolesco. Come del resto avventurosa è stata tutta la sua vita. Era riuscito a beffare i militari che si erano appena impadroniti nuovamente del potere (con il terzo golpe, il 12 settembre 1980, in trent’anni). Era fuggito di prigione. Dal carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, quello dove dal 1999 si trova, Abdullah Öcalan, il presidente del Pkk. Anche Güney era kurdo. Anzi come sottolineava lui stesso «un kurdo assimilato. Mia madre era kurda, mio padre kurdo zaza. Fino a quindici anni ho sempre parlato kurdo. Poi sono stato separato dalla mia famiglia. A quel tempo dicevano che i kurdi non esistevano. Che la lingua kurda non esisteva. Ma io sentivo gente che cantava e parlava in kurdo. Vedevo i kurdi vivere in estrema povertà e repressione. Mio padre era di Siverek: ho visitato Siverek quando avevo 16 anni. E’ stato allora che ho capito chi ero veramente. E a 34 anni ho potuto finalmente visitare il villaggio di mia madre, Muş. Sürü, è la storia di ciò che accadde alla tribù di mia madre»…
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