lunedì 15 settembre 2014

La zuppa del demonio – Davide Ferrario

c'era una volta un'Italia che non sapeva che esistevano i limiti dello sviluppo e che con entusiasmo radeva al suolo uliveti davanti al mare per creare le cattedrali nel deserto (allora pochi sapevano come sarebbe andata a finire), magari oggi si fa lo stesso, ma non si fanno più i documentari per magnificare il progresso.
sopratutto fra gli anni '50 e '70 alcune dei migliori registi hanno lavorato per l'Eni e le altre grandi industrie di quegli anni per mostrare il progresso che portavano quelle imprese, anche fuori dell'Italia.
Davide Ferrario incolla il tutto, scavando negli archivi, e ci mostra il "mito di progresso lanciato sopra i continenti", in tempi nei quali tutto sembrava possibile, oggi sappiamo che non è così, allora pochi mettevano in guardia, spesso derisi come reazionari, si pensi alle lucciole di Pasolini.
il film sarà in poche sale per pochi giorni, se capita nella vostra zona non perdetelo, sarà un viaggio in un passato che non c'è più, ma le cui conseguenze le viviamo tutti - Ismaele



La zuppa del demonio, che conferma il rigore etico di Ferrario ed esalta l’innato gusto per il montaggio del cineasta piemontese, si muove lungo due binari paralleli e spesso convergenti: da un lato il materiale d’archivio, in gran parte recuperato nell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea, e dall’altro un’antologia di brani scelti, in cui letterati e pensatori del Ventesimo Secolo riflettono sulla macchina industriale, mostro/speranza in grado di trangugiare tutto e tutti.
Ne deriva una dialettica impossibile eppure incessante, in cui Marinetti discute con Majakovskij, Bianciardi smorza gli entusiasmi dei cinegiornali Luce, Gadda dialoga con Pasolini, Bocca ammette la dissoluzione progressiva del sogno in un incubo fuso a temperature inumane…

C’era una volta in Italia il progresso! C’era una volta un'Italia che ci credeva, o che per lo meno cercava di infondere ottimismo dentro e fuori i propri confini. Uno Stato italiano del Novecento che si era rimboccato le maniche e aveva investito ingenti somme, economiche e umane, per rinnovare la propria immagine e la propria struttura industriale, anche a costo di eliminare in un sol violento colpo un ricco e secolare passato agricolo. E' proprio da questa spregiudicata “distruzione” che comincia il documentario di montaggio La zuppa del demonio di Davide Ferrario. Le prime immagini in questione sono quelle della distruzione con le ruspe di un antico uliveto a Taranto, prepotente esproprio che darà il via alla costruzione di un immenso polo industriale, l'Ilva. Dette immagini sono estrapolate dal documentario Il pianeta acciaio di Emilio Marsili, e da cui viene anche ricavato lo stralcio del commento curato da Dino Buzzati che dà il titolo alla pellicola. La zuppa del demonio vuole essere un excursus di immagini – e rare parole – su un mondo che non esiste più, dove le scene ripescate e assemblate dal regista possono dare risalto a un altro modo di intendere l’industria e la correlata scelta di marketing che lo rappresenta…

Ho visto un documentario. Ho visto un vero documentario in cui il regista si è fatto un mazzo nel cercare, visionare, scegliere, montare e dare vita ad un film che fosse unico, nuovo, intrigante e interessante. “La zuppa del demonio” è un gran bel lavoro, è un ottimo documentario, è un’incredibile lezione sotto più punti di vista.
Il lavoro di Davide Ferrario è prima di tutto un tuffo nella storia d’Italia: gli eventi narrati sono molti ma, con il sorriso e con acume, il regista ci ripropone un secolo di italianità. Il 1900 con la sua crescita industriale, con il suo boom economico, con la sua crisi negli anni ’70. Rivediamo tutto. Ma la cosa più incredibile è la rinfrescata di storia del costume e della società che facciamo in soli 80 minuti…

…Attraverso una ricerca minuziosa dei frammenti di video più significativi, il film ricostruisce lo spirito dell'epoca dando voce esclusivamente alle immagini, inframmezzate dalle citazioni degli intellettuali come Gadda, Marinetti, Majakovskij e tanti altri, e che hanno vissuto quell'epoca di trasformazione e l'hanno analizzata criticamente. Ferrario non intende esprimere giudizi nè azzardare analisi sociologiche, ma riesce a far rivivere, anche se solo per alcuni istanti, l'energia travolgente che nel bene e nel male ha reso l'Italia quello che è oggi, e che a fatica si guarda indietro cercando di capire perchè si sia abbandonata ciecamente al fascino distruttivo del progresso industriale.



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