domenica 10 settembre 2023

Io capitano – Matteo Garrone

Tutti i film sono politici*, nelle mani  di chi li scrive e/o negli occhi di chi li guarda.

Il film è stato, secondo me giustamente, premiato a Venezia, sia il regista del film Matteo Garrone (Leone d'Argento per la miglior regia) che Seydou Sarr (Premio Marcello Mastroianni al miglior attore esordiente) sono stati premiati.

La storia è semplice, due ragazzi senegalesi vogliono andare in Europa, per curiosità, come capita ai giovani, raccolgono i soldi,  lasciano le famiglie, e fanno il viaggio.

Ne vedranno di tutti i colori, rischieranno la vita tutti i giorni, nel deserto, in Libia, in mare, senza perdere la tenerezza (per usare le parole di Paco Ignacio II Taibo riferite a Che Guevara)

E ci riescono, salvando la vita di tutti i migranti sul barcone.

La grandezza del film è che è raccontato con gli occhi di Seydou, senza prediche né teoremi, in un mondo in cui le migrazioni sono diventate un problema di ordine pubblico, e chi è contro la narrazione del potere viene emarginato, sequestrato, zittito, a volte messo in galera, come sarà capitato a Seydou, eroe per tutti, ma scafista da mandare in prigione, come Pinocchio (ascolta QUI).

Non perdetevi Io capitano, il cinema vi aspetta.




Ps: segnalo due film che raccontano la migrazione con gli occhi dei ragazzi e delle ragazze:

14 kilómetros, di Gerardo Olivares (si può vedere QUI)

e

La gabbia dorata(La jaula de oro) di Diego Quemada Diez (si può vedere QUI)

Nana (si può vedere QUI),  un cortometraggio José Javier Rodríguez Melcón (Premio Goya al mejor cortometraje de ficción nel 2005)



* “L'Europa è un giardino. Abbiamo costruito un giardino... Il resto del mondo non è esattamente un giardino. La maggior parte del resto del mondo è una giungla e la giungla potrebbe invadere il giardino", dice Josep Borrell (novello conquistador), degno rappresentante di un'Europa colonialista, genocida, razzista, imperialista (come tutto l'Occidente, in Australia e negli Stati Uniti d'America, non erano europei gli assassini dei nativi?).
Se pensi alle parole di Borrell, quali migliori parole di supporto per i trafficanti di esseri umani, quale miglior pubblicità per attirare clienti per andare nel paradiso europeo?
Secondo me nelle loro pagine social i trafficanti usano proprio le parole di Borrell per attirare i clienti.
Eppure basterebbe far arrivare gli africani in Europa con semplici economici e regolari viaggi in aereo, come possono fare gli europei che vanno in Africa, no?
Questo stroncherebbe l'economia mafiosa e assassina dei trafficanti, e anche sequestrare i loro soldi depositati nelle banche non sarebbe impossibile.
Volendo si potrebbe, ma solo i russi e i cinesi sono nemici, i trafficanti sono amici...

 

 

 

...Il film è scritto da Matteo con Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo Ceccherini. “Ceccherini mi ha aiutato tantissimo in Pinocchio e qui. Questo è un grande racconto d’avventura, un racconto popolare senza grosse sovrastrutture intellettuali e Massimo, che viene dal popolo, conosce bene queste dinamiche drammaturgiche, ha la semplicità necessaria”. Altro apporto fondamentale è quello di Mamadou Kouassi, che spiega: “Il film racconta noi giovani africani che vogliamo un futuro migliore. Lo stesso viaggio l’ho fatto io 15 anni fa, dall’Africa subsahariana attraversando il deserto, la Nigeria, la Libia. Sono stato in prigione, ho visto persone vendute e altre morte in mare. Ringrazio lo Stato italiano se oggi sono inserito, vivo a Caserta. Ma penso che dovremmo poter viaggiare liberamente, come diceva anche il presidente Sergio Mattarella e questo potrebbe frenare il traffico di esseri umani”.

Non manca per Garrone una domanda sulla mancata presenza a Cannes. “Cos’è Cannes? Un festival?”, scherza. E prosegue: “Ho ricordi meravigliosi di Venezia, dove sono venuto la prima volta a 20 anni per giocare a tennis. Quella volta incrociammo Nanni Moretti. Sono tornato a 28 anni con Ospiti, dormendo tre giorni all’Excelsior e tre giorni in un furgone scassato. Nel frattempo ero diventato un appassionato di cinema e mi godevo questo bellissimo festival. Ma questa è la prima volta in concorso, una partecipazione che può dare un grande aiuto al nostro film per arrivare al pubblico”. E sugli Oscar, dove potrebbe approdare nella categoria del film straniero, risponde laconicamente: “Se mi invitano…”.

Matteo spiega ancora le ragioni di questo lavoro: “Non c’è solo la migrazione legata alla disperazione assoluta, l’Africa è formata da 52 Stati e c’è anche una migrazione interna. Non tutti hanno i soldi per venire in Europa. L’importante per me era raccontare i riflessi della globalizzazione, così anche chi vive una povertà dignitosa cerca un futuro migliore, magari col sogno di diventare calciatore o cantante ma anche per conoscere il mondo. Ci sono ragazzi – e la popolazione africana è composta al 70% da giovani – che non hanno paura di rischiare la propria vita, qualcuno non crede negli avvertimenti di chi dice che il viaggio è pericoloso e potrebbe essere mortale”.

“Nella parte iniziale abbiamo creato dei personaggi che mettessero in guardia i nostri dai pericoli e abbiamo cercato di scrivere seguendo i canoni del racconto di avventura. E’ un film accessibile ai giovani delle scuole che potranno identificarsi e prendere coscienza dei loro privilegi”.

Su eventuali strumentalizzazioni politiche Garrone risponde: “Il tema che tocco è un archetipo, il viaggio verso una terra promessa da un paese più povero a uno più ricco, e noi siamo italiani lo sappiamo bene cosa significhi. E poi c’è come una domanda che loro si pongono: perché i nostri coetanei possono venire liberamente in vacanza in Senegal e noi se vogliamo andare lì dobbiamo rischiare la vita? C’è un tema di libertà, di libertà di circolazione e di giustizia e questo va al di là della politica sui migranti in Europa”.

da qui

 

L’architettura sottostante ricalca quel Viaggio dell’eroe che è il titolo di un arcinoto manuale a uso degli aspiranti sceneggiatori, libro che abilmente volgarizza certo strutturalismo e la morfologia della fiaba di Propp per svelare il presunto eterno schema alla base di tanta letteratura e tanto cinema intorno a quelle figure superomistiche che si autorealizzano attraverso l’avventura e l’esplorazione. Io capitano di quello schema sembra l’applicazione, e però tutt’altro che pedissequa. Nel suo scheletro narrativo si possono scorgere infinite matrici (nel ragazzo Seydou qualcuno ha visto, e non a torto, Ulisse, Enea, Gilgamesh). Ma la parte migliore è l’ultima, è la traversata in mare con il sedicenne Seydou al comando, una responsabilità che gli è stata imposta dai trafficanti. E nella sua paura di non farcela, di mandare a morire i passeggeri, donne, bambini, uomini, vecchi, si sentono gli echi del rimorso e del senso di colpa di Lord Jim, l’antieroe conradiano che mandò a morire per irresponsabilità i pellegrini verso la Mecca trasportati sula sua nave. Racconto fondamentale che divenne anche nei primi Sessanta un meraviglioso e oggi dimenticato film di Richard Brooks con Peter O’Toole. Tutta l’ultima parte di Io capitano è pervasa di memorie di altre avventure marinare, dall’Isola del tesoro a Moby Dick. Una traversata che porta a complimento il percorso di formazione di Seydou, perché il film è anche questo, la cronaca di un passaggio all’età adulta. Garrone resta fedele al proprio cinema di sempre, al suo senso per il racconto fantastico e onirico e per la faccia oscura, sordida e violenta dell’umano (la parte nella prigione libica). Qualche eccesso estetizzante (l’abbandono dei poveri migranti in pieno Sahara avviene tra dune bellissime da fotografare), qualche concessione all’esotismo-orientalismo nell’osservazione della vita negli slums di Dakar. Ma sono peccati veniali che non mettono a rischio la riuscita dell’impresa.

da qui

 

La scena finale del film è stata molto al di sopra delle aspettative dello stesso regista. “Mi ha sorpreso, mentre la giravo. Quasi tutta la troupe piangeva, perché Seydou è riuscito a fare vedere il viaggio: ride, piange, è sorpreso, è incredulo. Tutti gli stati di animo passano negli occhi del ragazzo in quel momento. Per me il cinema è questo: creare dei momenti unici. Ho avuto quella sensazione, che in quel momento fosse accaduto qualcosa che mi sopravanzava”.

I film sull’immigrazione possono essere molto brutti: paternalistici, privi di autenticità o didascalici. Il rischio è di rimanere intrappolati dentro a una qualche retorica o di rappresentare le persone in maniera macchiettistica o ancora di usarle come specchio. Matteo Garrone non è caduto in nessuna di queste tentazioni ed è riuscito a fare un film quasi impossibile: raccontare una storia presente – consumata dalla continua rappresentazione mediatica – e trasfigurarla in un archetipo.

Io capitano è il viaggio epico di due ragazzi, una favola sul passaggio all’età adulta e l’incontro traumatico con la separazione dalle origini e dagli affetti, il pericolo di perdersi e la morte. “A me interessava fare un film che in parte fosse epico, ma allo stesso tempo che fosse un road movie e insieme un romanzo di formazione. Pensavo all’Odissea, ma anche a Pinocchio. All’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e a Cuore di tenebra di Joseph Conrad”, racconta Garrone.

“Mi sembrava che mancasse un racconto in forma visiva del viaggio, soprattutto della parte del viaggio che si svolge dall’altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare la prospettiva, guardare a cosa succede prima”, aggiunge.

Nessuna povertà estrema, nessuna guerra, nessuna disperazione spingono i due “Huckleberry Finn” senegalesi a partire. È solo la loro sfrontatezza che gli fa sottostimare i pericoli e sopravvalutare se stessi. Ma anche il desiderio di somigliare di più ai loro sogni, a una certa idea di sé, frutto di fantasticherie e proiezioni…

da qui

 

 

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