venerdì 5 agosto 2022

Cemetery of Splendour - Apichatpong Weerasethakul

una strana malattia, in un'ospedale di campagna (che si trova su un cimitero) stanno dei soldati che hanno improvvisi attacchi di narcolessia, e sognano.

Jen è una volontaria che segue uno di questi soldati, e tutto è fra il sogno e la realtà, la vita e la morte, la realtà e la fantasia, fra i fantasmi e le dee del posto.

Apichatpong Weerasethakul ti prende per mano e ti porta in un mondo altro, dove le regole quotidiane sono incerte e gli spiriti sono sempre presenti, bisogna aspettare e cercare.

buona (diversa dal solito) visione - Ismaele


 

 

…Cemetery of Splendour diventa una lunga riflessione, spesso silenziosa o appena sussurrata, sul quel mondo che vive sospeso tra la vita e la morte, abitato dagli spiriti in pena (tipica tematica del cinema thai) in cui la realtà non è il lussureggiante bosco nel quale si muovono Jen e Itt (attraverso la partecipazione corporale di Keng) bensì il cimitero dove si agitano gli spiriti degli antichi re e principi thailandesi che necessitano delle anime e delle energie dei soldati dormienti per riportare in auge il loro splendore: la lunga scena è di una bellezza che spaventa  tanto è tangibile la tensione spirituale che culmina in un momento potentissimo che riesce a mescolare erotismo e pietas.

Lo snobismo apparente che il cinema del regista thailandese si porta dietro altro non è che una forma di tacito patto da accettare prima di immergersi nella visione dei suoi lavori, una caratteristica che pochi registi possiedono e che conferisce ai loro lavori quell'aura di apparente estremismo spirituale: bisogna accettare le regole del gioco che Weerasethhakul mette sul banco, essere disposti a farsi sormontare da un impetuoso flusso di intima introspezione e , soprattutto, non rifiutare aprioristicamente il confronto tra realtà e sogno che in qualche punto trova sempre un magari piccolo e impercettibile contatto.

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Sogno e ricordo si danno a noi per immagini - e del resto il sogno non si vive, si ricorda soltanto una volta svegli - e può accadere che queste immagini si confondano tra loro, e non sappiamo più come distinguerle. Da questo montaggio inatteso possono venir fuori cortocircuiti vertiginosi.
In Cemetery of Splendour accade che ci ritroviamo di colpo in un cinema ad assistere a un trailer di un film di exploitation. Poi l'improvvisa apparizione di ventilatori in rotazione avvia un'altra fantasmagoria, ma a ritmo molto più lento, come a seguire il passo di un sonnambulo; l'immagine viene circonfusa di un alone luminoso e cangiante, che rende ancora più fantasmatica la visione. Vediamo dei soldati colti da narcolessia dormire alla luce di lampade fluorescenti: sono loro a far cambiar colore all'immagine. Vediamo poi altri corpi dormire per strada, e forse sognare; sullo sfondo di alcuni dei dormienti vediamo altre immagini, quasi a suggerire che siano delle proiezioni oniriche (o comunque dei sogni imposti su di loro dalla retorica populista o dalla propaganda commerciale). Ritorniamo al cinema: dietro il pubblico che esce dalla sala, un corpo addormentato, uno dei soldati narcolettici in libera uscita, viene portato a braccia da due uomini; insieme a loro una donna matura, che si è presa in carico di vegliare su di lui, arranca dietro con le sue stampelle (ha una gamba più corta dell'altra) e li segue sulle scale mobili; la camera si abbassa e il moto dell'azione ridiventa centripeto: un gorgo di scale mobili risucchia tutto, lentamente e vertiginosamente, dissolvendosi nella rotazione dei ventilatori all'inizio della sequenza. Fine del sogno?...

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…Appare chiaro che ‘Cemetery of Splendour’, oltre ad appoggiarsi ad una tematica prettamente politica, punti al ridefinire e dare un senso al discorso già iniziato cinque anni prima con ‘Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti’, opera più surreale e scherzosa. Ecco perciò che la ricerca intrapresa sul dolore, sulla coscienza dello stesso e sulla meditazione-interiorizzazione del presente, ritorna a galla con molta più eleganza e altrettanta maturazione tecnica, sia visiva che di messa in scena. In questo senso l’impianto tecnico si radicalizza ulteriormente rispetto ai precedenti canoni abitudinari, caratterizzandosi per una ripresa pressoché fissa, un’assenza completa di musica e, come già accennato, una dilatazione dei tempi quasi angosciante. I dialoghi, o per meglio dire le riflessioni dei personaggi, sono brevi e spezzati da frequenti riprese fisse su pochi elementi, che rimarranno invariati nella loro riproposizione fino al termine dell’opera. Il clima che si viene così a creare è di angustiante ricerca di pace interiore. La protagonista compie, ancora prima di un supporto morale e materiale al soldato, un viaggio interiore volto a sconvolgere ogni sua concezione della vita e della morte. La staticità della messa in scena si scontra e lascia il posto infine alla dinamicità dell’evoluzione individuale dei protagonisti in un finale dove la mdp stessa immortala tale cambiamento attraverso  una serie di inusuali primissimi piani ed una lenta carrellata orizzontale che chiude sull’impassibile volto di Jen.

Al di là delle molteplici letture che potrebbe fornire, oltre a risultare come il più grande risultato ottenuto dall’autore, il film segna un tappa fondamentale per il Cinema di contemplazione. ‘Cemetery of Splendour’ è, a conti fatti, un film inossidabile, fondamentale, di un romanticismo adorabilmente mistico e di una potenza visiva maestosa, senza paragoni.

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Apichatpong Weerasethakul, amante dei corpi e delle parole danzanti, questa volta fa parlare presenze mute e inerti, attraverso la compenetrazione tra lo spazio reale – devastato dall’oblio – e quello immaginario, spalancato su un paesaggio sterminato, dalle perfette trasparenze, mai offuscato dalla polvere, mai invaso dallo straniamento, eternamente vicino e familiare. Le distanze scompaiono, e succede adesso, in mezzo ad un esercito colpito dalla narcolessia: un piccolo popolo dalle infinite rinascite, evaso dalle guerre della normalità, per abbracciare segretamente la sconfinata pace della fantasia, dell’altrove, dove tutto è magnificamente irraggiungibile.  Il finto splendore dell’oggi è solo un belletto sbiadito: è il provvisorio sfolgorio di una statua truccata, che è solo la brutta copia di una principessa del cielo. È il fasto di un santuario dai mille colori, dove il vero gioiello è un canzone d’amore cantata, in disparte, da una ragazza scalza. Il cuore palpita di una sommessa nostalgia del nulla, e il suo battito è come il brivido di una carezza che sfiora la pelle. L’attesa del ritorno non fu mai così dolce, mai così nobilmente composta nella certezza della rivelazione. Il volgare ticchettio delle ore del mondo non turba la sua quiete; il suo ordine pieno di regole e privo di ragione è solo un innocuo siparietto, una transitoria parentesi di caos. Basta distogliere gli occhi, per non lasciarsi imbambolare dalla sua nebbiosa smania di distrazione, di gioia fittizia, di abbandono che non ristora. In questa storia le immagini sono tutte ferme: alcune si muovono di falsa vita,  altre riposano in un’energia che sale dal profondo, che non ne increspa la sottile superficie, perché ne riempie le vastità interiori. E procura una sensazione calda e delicatissima, che si stende sul racconto con uniforme morbidezza: la scia di un profumo di fiori appena sbocciati, sull’erboso tappeto di un amore intenso e discreto come un sussurro.

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…Sospeso tra i misteri della vita terrena e di quella trascendentale, il cinema di Weerasethakul è un concentrato di enigmi e situazioni che spaziano dalla contemplazione alla considerazione della propria anima, del proprio intimo messo a nudo nel cercare di aprirsi ai misteri che ci circondano e per trovare pace e tranquillità quando anche il fisico inizia a continua a non rispondere a dovere ai richiami della salute. Ecco allora che i fantasmi benigni di vite precedenti sopraggiungono a darci sollievo allietando, tra tubi fosforescenti e cangianti di colore, le menti tormentate in un sonno benefico e misterioso a cui forse anela anche la nostra sventurata e storpia protagonista, vittima di sofferenze indicibili e tormentata anche durante le sue scarse ore di sonno.

Un cinema mistico e intimo che risulta spiazzante, impegnativo, indecifrabile, ma anche estremamente affascinante, se solo ci si lascia prendere dalla contemplazione e dalle lunghe riprese potenti e in qualche modo estatiche del gran regista tahilandese, dalla passione per la natura selvaggia che ci conduce spesso nei meandri di un mistero racchiuso nei recessi di una foresta invalicabile dove risiedono risposte apparentemente fuori dalla quotidiana razionalità.

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Il cinema di Weerasethakul è allucinante e allucinato a raccontarsi, ma perfettamente normale e sensato a vedersi. La sua bellezza sta nella capacità di farci entrare in questo mondo dove immaginario e reale si abbracciano, e soprattutto di farci fare l’esperienza dell’assoluta sensatezza di questo mondo. La poesia, così, non assume note arcane, lontane o esotiche, perché è pienamente immersa nella prosa del quotidiano, con le sue vicende concrete, con la sua ironia, persino la sua malizia. Cemetery of Splendour, in particolare, esalta il femminile, la sua dolcezza, la cura, il compito di mediazione con il passato, i morti, l’inconscio. Gli uomini sono guerrieri fuori gioco, soldati o re, oppure – nell’ultima scena – ignari ragazzini che giocano a calcio sullo sfacelo della terra che custodisce la memoria degli antenati. Dopo due ore di visione, come Jen sembra riconciliarsi con il suo handicap della gamba deforme, così noi ritroviamo il piacere di un mondo fatto non solo di cose, ma di significati, dove la spiritualità è una parola scritta con la minuscola, dove il passato è presente, le divinità appaiono, i sogni si materializzano, l’immaginazione ci guida e un cimitero ci appare come un giardino gioioso, quasi un Eden. Cemetery of Splendour agisce come un balsamo.

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