lunedì 4 dicembre 2023

Palazzina Laf - Michele Riondino

un film politico e operaio (con il ricordo di Elio Petri e Gian Maria Volonté negli occhi dello spettatore), dedicato allo scrittore Alessandro Leogrande, moerto a soli 40 anni (il film si ispira a un suo libro).

Caterino (Michele Riondino) è un uomo qualunquista e senza qualità, che si adatta a fare la spia per il padrone, o il suo direttore del personale (impersonato da Elio Germano).

il film è ambientato nell'Ilva di Taranto, nella quale il mobbing e il confinamento dei mobbizzati in una palazzina all'interno dell'area industriale era sviluppato in quantità industriale.

Caterino, credendo di arrivare al paradiso del non far niente, viene mandato lì con l'incarico di spia, di colleghi mandati lì a morire di noia, umiliati e offesi, in attesa delle loro dimissioni o pazzia.

la fabbrica è gestita con la paura, e la palazzina Laf è la ciliegina sulla torta dell'orrore dell'istituzione totale (Michel Foucault insegna).

opera prima di Michele Riondino, con una sceneggiatura implacabile, con attori convincenti e anche più.

non perdetevelo, merita molto.

buona (inquietante) visione - Ismaele






La sceneggiatura, dello stesso Riondino saggiamente affiancato dall'esperienza di Maurizio Braucci, non fa sconti a nessuno e crea dinamiche relazionali allo stesso tempo credibili e lunari. E a fare la differenza nel raccontare questa storia è la volontà di non farne semplicemente un "film a tema" ma un lavoro artistico che trova la sua originalità in una serie di scelte molto precise di regia, di montaggio (del bravissimo Julien Panzarasa) e di commento sonoro minaccioso e incombente (le musiche originali sono di Teho Teardo, la canzone finale è di Diodato, che ha origini tarantine).

Dalla scena in cui Caterino emerge con un occhio nero alle visioni (o anticipazioni temporali) che precedono e preconizzano le conseguenze delle azioni in scena, Palazzina Laf costruisce in modo asciutto ed essenziale, ma mai minimalista o documentario, la parabola di un Giuda inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo. E finalmente torna a mettere il diritto dei cittadini al lavoro - e a condizioni che lo rendano possibile - all'interno del nostro cinema che, dagli anni Settanta in poi, ha in gran parte evitato di parlarne.

da qui

 

A raccontare questa storia di operai e padroni, di rivendicazioni e soprusi, di dignità e umiliazioni, è Michele Riondino che con Palazzina Laf firma la sua opera prima da regista. Interprete principale (Caterino) accanto a Elio Germano (Basile), e autore della sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci, l'attore pugliese si è documentato attraverso interviste a ex lavoratori e leggendo le carte processuali che hanno portato ad alcune condanne e risarcimenti per le persone coinvolte in uno dei tanti episodi che dimostrano cosa significhi lavorare in Italia.
UN FILM che racconta in modo diretto l'assenza di una rete fuori dalla fabbrica. Che pone, senza andare mai sopra le righe, la questione del lavoro dentro una società che dimentica la vita degli altri, di chi in fabbrica muore per mancanza di sicurezza o è punito per essersi opposto, per aver cercato una via migliore per tutti.
La Palazzina Laf del titolo è un edificio fatiscente, invisibile, controllato da guardie asservite, dove operai e tecnici sono reclusi fino a quando non si piegheranno alla volontà dei padroni. Chi non accetta la cosiddetta ristrutturazione, la riconversione, è condannato all'esilio, al confino dentro l'ILVA, nella Palazzina Laf, appunto. Nei corridoi e nelle stanze solo donne e uomini da ridurre a corpi senza intelletto, ridotti a giocare con una palla di carta.
SOLO Caterino non si rende conto della situazione. Pensa che quel luogo sia un paradiso dove è stata abolita la fatica. Sarà solo questione di tempo. Anche lui, farà le sue esperienze, si avvicinerà all'orrore di esistenze condannate al silenzio e all'inazione. E così dopo Paola Cortellesi, anche Riondino sceglie la via della regia per incitare a osservare criticamente un presente radicato in un orribile passato.

da qui

 

Vedendo il film lo spettatore è costantemente posto di fronte alla questione che riguarda le potenzialità evolutive di Caterino La Manna, così si chiama il personaggio interpretato da Riondino: arriverà insomma Caterino a rendersi conto dell’universo disumano e distopico in cui è precipitato, saprà sfruttare l’occasione di crescita morale e civica che in fondo gli è stata data oppure resterà quell’imbecille che è sempre stato? Non rivelerò quale sua stata la scelta del regista. Ciò che tuttavia va detto è che questo è l’unico autentico potenziale drammaturgico del film (ché per il resto gli altri personaggi sono rappresentati in modo decisamente univoco: le vittime e i carnefici, i buoni e i cattivi) e che su questo, appunto unico, snodo drammaturgico il film si sofferma un po’ troppo, ingenerando qua e là una certa noia alla quale poco aggiunge la vicenda privata di Caterino, la sua relazione con la fidanzata e tutto il resto. In altre parole la scelta di non girare un documentario ma un film di finzione non è, a mio avviso, supportata da una sceneggiatura adeguatamente solida.  Peccato, perché, invece sul piano della regia piuttosto varia, della recitazione, della fotografia (molto anni ’90, colori giallo-marroncini-grigiastri), dei costumi, della scenografia (molto è stato girato a Piombino), della musica (Teho Teardo) il film funziona, tutto sommato, piuttosto bene.

da qui

 

Il modo in cui Riondino gioca col tono di Palazzina LAF, tenendo sempre in equilibrio la commedia e il dramma, il grottesco e il surreale, l’astrazione e la denuncia, è il punto di forza principale del film, e la ragione per cui ciò che gli sta evidentemente a cuore, ovvero il risvolto sociale e politico, riesce a funzionare così bene, senza risultare mai pesante o stucchevole per lo spettatore.
Ancora un volta, il segreto sta nella cura per il dettaglio, che ovviamente non si esaurisce solo nel nome di Caterino Lamanna.
La cura del dettaglio, in Palazzina LAF, la si vede nella scelta dei volti e degli attori, tanto per cominciare: anche per quelli che magari vediamo solo due volte, come nel caso di Paolo Pierobon, ma ovviamente anche in quelli che stanno spesso sullo schermo, da Michele Sinisi a Gianni D’Addario, da Vanessa Scalera a Marina Limosani.
Ma la si vede in un vecchio impianto stereo che mangia le cassette, nel trucco e nel parrucco, nelle cose che vengono dette solo con gli sguardi, nei fiori piantati dentro vecchie scatole di latta.
La si vede nel modo in cui Riondino, dimostrando anche un buon occhio per le inquadrature, racconta, da vicino e da lontano, la fabbrica e una città, le loro mille contraddizioni e l’eredità tossica con cui devono convivere, attraverso le immagini.

da qui

 

 


Nessun commento:

Posta un commento