sabato 18 novembre 2023

Comandante - Edoardo De Angelis

recensioni su un film che non ho visto - Ismaele


Comandante, italiani brava gente – Cristina Piccino

La vicenda di Salvatore Todaro e l’affondamento della nave Kabalo, la nascita del Paese nel sacrificio

Sarebbe interessante capire il ragionamento che ha spinto la direzione artistica della Mostra a scegliere per l'apertura in sostituzione di The Challenger – il nuovo film di Luca Guadagnino cancellato dagli scioperi a Hollywood – Comandante di Edoardo De Angelis. Certo è un film italiano, uno dei sei del concorso, e con un protagonista, Pierfrancesco Favino, che ha una riconoscibilità internazionale. Ma questo può bastare a motivare la scelta? Non è che De Angelis sia proprio un gran regista, anzi, anche se qui forse grazie a una produzione più attenta sembra essere riuscito a smussare l'abituale grossolanità che caratterizza i suoi film da Perez a Indivisibili a Il vizio della speranza.
IL PROBLEMA è però che né lui né il coautore della sceneggiatura (insieme allo stesso de Angelis) Sandro Veronesi mostrano la coerenza di stile e di lettura necessari per affrontare il racconto che si sono dati. Ovvero la figura di Salvatore Todaro, comandante della Regia marina morto trentaquatrenne in battaglia nel 1942. Alla guida del sommergibile Cappellini, salpato nel 1940 dal porto di La Spezia e diretto alla nuova base dei sommergibili italiani a Bordeaux, affondò dopo dodici giorni di navigazione una nave belga, la Kabalo – il Belgio era ancora neutrale ma si scoprì poi che il piroscafo trasportava materiale bellico per gli inglesi. Todaro mise in salvo i 26 uomini dell'equipaggio portandoli nel primo porto sicuro alle Azzorre. Per farlo navigò tre giorni allo scoperto col rischio di essere affondato dagli inglesi, che in effetti lo attaccarono, ma saputo che trasportava anche i superstiti della Kabalo lo fecero passare. Non fu mica un impulso pacifista – infatti Todaro poi passò alla X Flottiglia Mas – ma la legge del mare che impone di salvare chi è in difficoltà era per lui sacra.
A PARTIRE dalla vicenda storica De Angelis (e Veronesi) costruiscono la propria narrazione immergendosi senza troppo problematizzare il contesto – che ricordiamo è quello del fascismo – nell'universo del loro eroe (Favino) il cui punto di vista sul mondo appare sempre un po' sfocato, col tempo che si accartoccia nei suoi monologhi interiori forse per effetto della morfina che prende in modo da sopportare i terribili dolori alla schiena distrutta qualche anno prima in un incidente (ma i fumi oppiacei di C'era una volta in America sono ben altra cosa e non basta un fischiettìo a evocarli). Non ha ceduto allora al sogno della moglie di una vita in campagna a fare il miele e a occuparsi dei figli, lui come ogni vero uomo ama l'arte della guerra, un po' dannunziano, un po' nietzschiano, un po' uomo e macchina di marinettiana memoria oltre a quel bagaglio tipico del fascistello di filosofie orientali, cabale, esoterismi – nel suo caso la passione per il greco antico, la lingua di un biglietto che un misterioso sarto gli consegna come segno del suo destino di combattente. Del resto se il «fascismo è dolore» la felicità è stordimento. E quindi eccolo questo Comandante che ha pure il dono di intuire il futuro – compresa la propria morte – salire sul sottomarino non così moderno ma scassato per una non ben chiara missione nell'Atlantico, oltre lo stretto di Gibilterra che è il «buco del culo di una gallina». A bordo uomini forse stanchi, sul molo a piangerli le giovani crocerossine con cui hanno fatto l'amore la notte – le altre ragazze «perbene» stanno a casa quell'ora. E a proposito conforta questa visione del femminile espressa peraltro con puntualità nella figura della moglie del Comandante, tetta di fuori, quasi sempre muta, il tanga in vista sotto al vestito di seta lucido mentre suona il piano, il sogno del bebè e inquadrature che vorrebbero essere voluttuose dei due nella vasca da bagno tra giochi di specchi e rimandi a tanto altro – compreso un po' di Cavani Leone d'oro alla carriera. Tutto si tiene...
Nell'abitacolo stretto sotto al mare i marinai convivono, litigano, si respirano, hanno paura e quando si spara qualcuno muore come capita in guerra. Il cuoco fa piatti buoni, poi man mano che le provviste finiscono li fa solo immaginare recitandone i nomi come in una litania, e intanto il Comandante è sempre più stanco, l'astinenza lo divora – sarà questo a dargli altre prospettive sul mondo? Vedendo quei nemici decide di salvarli in nome appunto della legge del mare, e quando il capitano belga gli chiede perché li ha soccorsi mentre lui li avrebbe senz'altro lasciati morire la risposta di Todaro è «perché sono italiano» - e ho duemila anni di storia alle spalle.
ECCOCI QUA, italiani brava gente, questa retorica insopportabile specie oggi che ha accompagnato anni e anni di commedie, di farse sui colonialismi buoni, di auto-assoluzioni che sì, vabbè si è stati fascisti ma mica cattivi come i tedeschi. Peraltro la parola fascista, a parte da chi in quel bell'idillio osa ribellarsi – e per questo viene picchiato dagli uni e dagli altri, ma come hanno osato a fronte di tanta bontà? – quasi mai viene pronunciata dal comandante e dai suoi uomini. Cosa ci vogliono dire allora de Angelis e Veronesi? Che la legge del mare è antica, sacra e imprescindibile e che persino in guerra tra i fascisti c'è chi l'ha rispettata? È un messaggio al governo Meloni e ai suoi proclami sui respingimenti contro i migranti di adesso? Però la storia è storia e invece che fabbricare santini a effetto nella distanza temporale sarebbe bene mantenere un po' di onestà intellettuale perché il passo falso è in agguato – qui direi è già scattato – insieme alle infinite ambiguità di offrire sponde – e ce ne sono numerose – per autocelebrazioni e strizzate d'occhio ai poteri «nuovi» di cui non si sente proprio il bisogno.
Non basta cullarsi tra droni e meduse che sembrano sirenette; De Angelis non va mai in profondità e quegli spazi, qui corpi sott'acqua, quei nemici che poi si sfioreranno con odio appaiono privi di spessore. Eppure nelle sue intenzioni in quel sottomarino c'è l'Italia, «si fa» l'Italia delle diverse regioni e dialetti che imparano a convivere – anche questo – grazie alla guerra, all'idea comune, all'allenamento al sacrificio. È ancora legge del mare o è qualcos'altro?
Tra accumuli di citazioni casuali, il suo sottomarino non si rifa a esempi importanti come Gli uomini sul fondo (1941) di De Robertis - Rossellini ma neppure stilisticamente al K-19 di Bigelow. La patina di cui ammanta la visione distorta del protagonista è compiaciuta, priva di un punto di vista, accarezza quell'essere, quelle modalità, si culla negli stereotipi: pasta-pizza-mandolino (e patatine fritte per i belgi) che si fanno convivenza. Sarà questo effetto cartolina a avere determinato la scelta? Resta il fatto che oggi risulta goffa nel suo effetto finale malgrado le «buone intenzioni. E appellarsi genericamente alla «legge del mare» non basta. Non più.

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La “nuova” cultura egemone: il puerile “italiani brava gente” - Tomaso Montanari

“COMANDANTE” A VENEZIA 80 – Il film celebra giustamente il salvataggio dei naufraghi belgi, ma occulta il contesto di una guerra atroce scatenata dai regimi totalitari come l’Italia fascista

E così, per festeggiare il primo governo di matrice fascista della storia della Repubblica, la Mostra del Cinema di Venezia apre con un film che (basta leggere la rassegna stampa) ha trasmesso al Paese questi due messaggi: il fascismo ha fatto anche cose buone, gli italiani sono brava gente. Al di là delle circostanze casuali (il ben altro film di Luca Guadagnino bloccato da cause di forza maggiore), e delle intenzioni di regista, sceneggiatore, attori di Comandante (che abbiamo finora saputo antitetiche ad ogni revisionismo), la forza del dato di fatto è impressionante. Ed è prova di una egemonia culturale che, se non è ancora fascista, certo non è più antifascista.

Nessun dubbio sull’esemplarità del gesto del comandante Salvatore Todaro, che salva i naufraghi del mercantile belga (che ha silurato perché trasportava materiale bellico) violando i regolamenti, e obbedendo a quella legge del mare e dell’umanità che (suggeriscono a ragione gli autori) è del tutto ignota a chi oggi ci governa, come mille Cutro dimostrano. Ma nessun dubbio anche sul fatto che il film occulti il contesto di quel beau geste. E il contesto è una guerra atroce, scatenata da regimi totalitari. Salvatore Todaro era, e rimase per sempre, fascista (e il fascismo non è “dolore”, come dice uno dei personaggi: ma violenza, odio, morte). Era uno che combatteva insieme ai nazisti: per le stesse cause, che includevano il più violento razzismo mai visto nella storia, e l’Olocausto tutto intero. In Germania, la Berlinale si potrebbe aprire con l’apologia di un nazista buono? Se da noi è potuto accadere è perché ci siamo convinti che ci fosse una gran differenza tra il tedesco nazista (cattivo) e l’italiano fascista (bravo): ma una intera stagione storiografica (esemplari, tra tanti, gli studi di Filippo Focardi) ha dimostrato esattamente il contrario. Eppure, l’autoassoluzione collettiva (che inizia ancor prima della Liberazione, con un cedimento significativo del fronte antifascista, comprensibilmente preoccupato che l’Italia non venisse trattata come la Germania), l’idea crociana del fascismo “parentesi” in una storia italiana virtuosa, continuano a farci brutti scherzi. E così dimentichiamo la realtà: che “il nazismo in Germania è stato una metastasi di un tumore che era in Italia” (Primo Levi).

Da un cinema autonomo, libero, culturalmente solido mi aspetterei oggi film su Matteotti, i Rosselli, Emilio Lussu, la Resistenza delle donne…: non su un buon fascista! E, visto il terribile amore per la guerra che è tornato a dominare il discorso pubblico occidentale, amerei film su storie di diserzione, di rifiuto delle armi: non l’apologia di un sacerdote della guerra, senza macchia e senza paura. Quanti morti ha fatto Salvatore Todaro nelle sue campagne? E al servizio di quali ideali? Nessuno, ha scritto Hannah Arendt, aveva il diritto di obbedire: e la marginale disobbedienza di Todaro non gli impedì certo di ricevere le sue medaglie dal regime.

Non lasciò mai gli ideali di morte (come fece invece uno Schindler, per intendersi): quell’atto esemplare rimane un punto bianco in una vita nera. Anzi, volle finire la carriera (e di fatto la vita) tra i fanatici della morte della X Mas, di lì a poco rivelatasi un branco di criminali di guerra. Come ha scritto Cristina Piccino in una splendida stroncatura del film uscita giovedì scorso sul Manifesto, il comandante interpretato da Pierfrancesco Favino, “come ogni vero uomo ama, l’arte della guerra: un po’ dannunziano, un po’ nietzschiano, un po’ uomo e macchina di marinettiana memoria, oltre a quel bagaglio, tipico del fascistello, di filosofie orientali, cabale, esoterismi”.

“Un mito duro a morire” è la seconda parte del titolo del libro con cui Angelo del Boca ha dimostrato che gli italiani non sono stati affatto “brava gente”. E quando Todaro risponde che ha fatto quello che ha fatto perché è italiano, questo suona come un’oscena assoluzione, collettiva e a prescindere, di un popolo che i conti col fascismo non è mai riuscito a farli davvero (tanto che oggi ci risiamo), e che, per dire, non è nemmeno stato capace di istituire una giornata di pentimento e memoria per l’oltre mezzo milione di morti che abbiamo fatto in Africa nelle nostre guerre coloniali (liberali e fasciste), commettendo crimini di guerra che in certi casi assumono i tratti di un tentato genocidio. E poi: davvero la bontà si può legare ad un’appartenenza nazionale? Ma non è propria questa la bestialità che il governo Meloni ripete fino alla nausea, esaltando l’identità italiana?

E non è forse una triste prova di subalternità culturale fondarci un film? Capisco che mancherebbero siluri e divise, ma quanto vorrei vedere un film sui dodici professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, perdendo cattedra e stipendio: non dissero “no” perché italiani (lo era anche il 90% che giurò…), ma perché liberi, con la schiena diritta, consapevoli. Virtù poco diffuse nell’Italia dell’anno primo dell’Era Neofascista.

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Al cinema. COMANDANTE di Edoardo De Angelis (recensione). Italiani veri. O no? – Luigi Locatelli

Comandante, un film di Edoardo De Angelis. Con Pierfrancesco Favino, Massimiliano Rossi, Johan Heldenbergh, Arturo Muselli, Silvia D’Amico. Voto 4 e mezzo
Recensione scritta dopo la proiezione alla Mostra di Venezia 2023.
Che dire di – soprattutto che valutazione dare a – un film che butta via una (vera) storia straordinaria di eroico antieroismo e che, pur azzeccando almeno una sequenza memorabile (la discesa sul fondo del pescatore di coralli Scumo) e altre notevoli (però solo nell’ultima parte quando si entra nel vivo dei fatti) annaspa, naufraga, si inabissa inesorabilmente? Che invece divaga in annotazioni inessenziali ai fini del racconto, con quelle presenze femminili inserite a forza solo per schivare le solite accuse di maschiocentrismo e patriarcalismo? Con quella moglie che si mostra a tette nude con in testa il berretto da comandante del consorte a mimare maldestramente la Charlotte Rampling del Portiere di notte? (a proposito: subito dopo Comandante s’è visto L’ordine del tempo, il nuovo film di Liliana Cavani premiata a Venezia 80 con il Leone alla carriera: riconoscimento consegnatole proprio da Charlotte Rampling, e come si fa a non pensare alle coincidenze apparecchiate dal dio del cinema). Per non dire delle imbarazzanti infermierine anche soccorritrici sessuali dei marinai. Sprofondamenti nel kitsch pervicacemente perseguiti con assoluto sprezzo del ridicolo. Eppure dentro questo film c’è, dovrebbe esserci, una storia fantastica, un frammento misconosciuto e giustamente sottratto all’oblio della nostra WWII a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia. Siamo nell’ottobre del 1940 (il precedente 10 giugno Mussolini aveva deciso di scendere in campo e purtroppo di far scendere tutto il paese a fianco di Hitler), da La Spezia parte il sommergibile Cappellini – spero di ricordarmi correttamente il nome – sotto la guida del comandante Salvatore Todaro (Favino, chi se no?). La missione è raggiungere l’Atlantico, ma per arrivarci bisogna superare lo stretto di Gibilterra presidiato dal nemico inglese. Nell’oceno il Cappellini arriverà pressoché indenne, ma verrà attaccato da una nave mercantile battente bandiera belga, di un paese neutrale quindi, ma che trasporta aerei per la Gran Bretagna. Nella minibattaglia avrà la meglio il sommergibile della nostra Regia Marina, ed è a questo punto che scatta la straordinarietà dell’impresa. Che non è di meriti bellici, ma che oggi diremmo e allora non si diceva umanitari. Contraddicendo la legge di guerra e ottemperando a quella del mare (tanto spesso invocata da chi contro i vari salvinismi e portochiusismi chiede che i migranti naufraghi vadano soccorsi sempre e comunque), Todaro/Favino accoglie i superstiti della nave belga e cerca di portarli in un approdo sicuro e neutrale (Madeira o Azzorre, m’è parso di capire). Rischiando per indisciplina carriera e anche qualcosa di più.
Questo il nucleo forte di quanto accaduto e che avrebbe dovuto esserlo anche del film. Che invece spreca quasi un’ora prima di entrare nei fatti perdendosi in annotazioni inutili, digressioni improbabili (tutta la parte, terribile, di Todaro con la moglie), in coloriture di costume da commedia all’italiana e napoletana con gran scatenamento visionario-neospressionista di De Angelis. Perché non concentrarsi invece, incalzando a ritmi serratissimi lo spettatore, sul salvataggio dei nemici (per quanto non ufficialmente tali), sugli eventuali conflitti tra loro e l’equipaggio italiano, sulle frizioni e le impreviste affinità e convergenze, sulle differenze antropologiche, sullla quasi impossibile coabitazione in uno spazio chiuso e limitato come quello di un sommergibile? Che gran film ne sarebbe potuto uscire. Non che De Angelis dimentichi tutto questo, semplicemente lo derubrica e lo inserisce in una narrazione più ampia che finisce con il diluire l’essenziale e sottrargli peso specifico. Perché lo abbia fatto, imsieme al co-scebeggiator Sandro Vernesi, si stenta a capirlo. Certo, raccontare con la giusta tensione i fatti, drammatizzarli com ha da essere nel cinema-spettacolo, concentrarsi (come un film americano non dico classico ma anche recente) sulla mano tesa ai naufraghi che poco prima ti hanno attaccato avrebbe significato anche misurarsi con certi nodi ineludibili di quella vicenda. Nodi che hanno a che fare con la Storia (sì, maiuscola), con il nostro passato, con quella stagione politica. Avrebbe significato magari interrogarsi su cose oggi assai scomode tanto da essere state espunte dal discorso nazionale, dala coscienza e dalla memoria collettiva, come l’eroismo e il culto dell’eroe di quegli anni, di quel tempo, il nazionalismo di allora, il patriottismo che di sicuro di quella ciurma del Cappellini era un cemento potente come del resto per la nazione tutta (ricordarsi che alla dichiarazione di entrata in guerra di Mussolini al balcone di Porta Venezia accorse una folla oceanica e plaudente: tutti convinti che, dopo l’avvenuta, inarrestabile marcia dell’alleato tedesco su Parigi il conflitto sarebbe finito di lì a poco e vittoriosamente), il consenso al fascismo (si legga e rilegga Renzo De Felice), l’entusiasmo per la guerra come prova virile, cimento per gli arditi, supremo sacrificio. Qualcosa trapela faticosamentequa e là, qualche timido sventolio di tricolore, un canto di battaglia, ma il resto viene eliso o meglio sfuocato, depotenziato, spinto nell’irrilevanza. Ogni traccia di infatuazione bellico-militarista rimossa.  Ma santo cielo, il sommergibile apparteneva alla Regia Marina Italiana, di un Regno che aveva ceduto lo scettro al leader del fascismo, non era in crociera, era in missione di guerra, possibile che di quello sfondo storico così complesso e contrastato in Comandante non emerga quasi niente? E poi, troppa autoindulgenza, troppi cliché, i soliti italiani tanto bravi a cantare (si intona O surdato ‘nnammurato, ricordate?, la cantava anche Anna Magnani ai mutilati della grande guerra nel film tv La sciantosa) e a cucinare cui basta un pentola di gnocchi per conquistare il nemico anzi il mondo intero, altro che fare la guerra, sempre un po’ figli di mamma e però anche audaci quando occorre. Il fascismo? Un fantasma che incombe su tutto il film ma con cui Comandante non fa mai i conti. Capisco che si tratta di tema assai sensibile, ma non basta cavarsela con una delle due battute chiave del film: “Fascisti? No, noi siamo uomini di mare”. Essendo l’altra la ancora più clamorosa e autoindulgente: “Perché ci avete salvato?”, chiede l’ufficiale ei naufraghi, e Todaro/Favino: “Perché siamo italiani” (e quasi scatta in Sala Darsena l’applauso a scena aperta). Rispunta il mito autoassolutorio degli italiani brava gente che per decenni ha permesso a questo paese di non fare i conti con il proprio passato fascista e di guerra. Italiani brava gente? Un’illusione che la storiografia degli anni Duemila ha totalmente disintegrato. Si pensi ai libri che hanno ricostruito le nefandezze della guerra d’Etippia e della successiva occupazione coloniale (sul tema c’è anche un notevole documentario di Luca Guadagnino) o la durezza dell’occupazione militare dela Croazia da parte del nostro esercito. L’uomo buono e giusto Todaro/Favino salvando quei naufraghi salva il proprio onore e la propria anima, non quella della nazione.
Si rimpiange anche che De Angelis – il quale peraltro sa girare benissimo dando spesso prova di virtuosismo tecnico e formale – abbia totalmente rinunciato a ricalcare l’approccio action di tanti film di guerra sul e sotto il mare (penso soprattutto a U-Boot) Il che se indica una benemerita ambizione a emancioparsi da certi codici di rappresentazione, finisce con il conferire al film una sorta di evanescenza, di non-identità. Il regista punta al visionario, evita il piattyo ma pur sempre effucace realismo-naturalismo, cerca di costruire immagini, anzi un intero immaginario acquatico e fantasmatico: il suo imondo sommerso è un universo a parte più parente del meraviglioso di Ventimila leghe sotto i mari che di U-Boot o del senso cosmico-liquido di un Malick. Le scene iniziali della partenza da La Spezia, quegli uomini nella foschia e nel cupo della notte rimandano a Querelle di Fassbinder. Peccato che tutto questi non si sintetizzi mai in uno stile coerente e riconoscibile. Pierfrancesco Favino ormai consacrato massima star del nostro cinema, perfino eretto nelle scene quasi fetish con il corsetto a sex symbol.

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3 commenti:

  1. Credo che questo film (che a me è piaciuto molto) sia rimasto vittima di un pregiudizio ideologico senza precedenti. La maggior parte della critica (quasi tutta schierata a sinistra) lo ha bollato come reazionario e filofascista solo perchè il protagonista è fascista... a me pare assurdo. Le due recensioni di Piccino e Montanari dicono tutto. "Comandante" è una storia di uomini e di umanità. La storia va raccontata nel modo giusto, non come fa comodo a noi, seguendo un metodo molto semplice: contestualizzare. Nel contesto storico di cui parla il film è normale che il protagonista dica "perchè siamo italiani", e non c'entra nulla l' "italiani brava gente": nel 1940 l'Italia era in grande maggioranza fascista e ragionava secondo il pensiero fascista, negare questo vuol dire negare la storia. Uno dei grandi errori della sinistra degli ultimi anni è stato proprio quello di aver lasciato totalmente in mano alla destra la difesa di valori come la Patria, la bandiera, la divisa, il patriottismo (che è cosa ben diversa dal nazionalismo) che invece sono valori che dovrebbero essere DI TUTTI, non di una precisa parte politica.

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  2. p.s. la citazione de "Il portiere di notte" della Cavani, con protagonista la bellissima Silvia D'Amico (che interpreta la moglie di Todaro), checchè ne dica la Piccino, è la scena più bella del film

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    1. avevo letto il tuo post appassionato e convinto, questo mio post è un po' una provocazione, ma anche una cattiveria verso gli italiani brava gente (ho visto da poco Il leone del deserto: https://markx7.blogspot.com/2023/11/il-leone-del-deserto-mustafa-akkad.html)

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