lunedì 23 marzo 2015

Fino a qui tutto bene - Roan Johnson

un tempo che finisce, la casa da lasciare, e poi ci si vedrà , ci si sentirà, sempre meno.
il film racconta un addio (anche una resa dei conti) di alcuni ragazzi che prendono strade diverse, dopo una lunga convivenza.
non tutti si laureano, manca il sesto compagno, morto probabilmente suicida, un po'  di tempo prima, tutti se lo ricordano bene.
tante piccole scelte da fare, chi avrà un bambino, chi andrà a lavorare all'estero, chi ha sognato il teatro, chi, come Cioni (che assomiglia a Benigni da giovane), si prende il ruolo del buffoncello, ma poi farà una proposta serissima.
sembra quasi un documentario, in certi momenti, così va il mondo.
non sarà un capolavoro, ma è un film sincero, il passo dell'addio è il più difficile, si ride per non piangere.
e chi è stato all'università fuori sede lo capirà meglio, ricorderà alcuni episodi dimenticati, o rimossi, chissà - Ismaele






Fino a qui tutto bene è letteralmente un film positivo, capace di affrontare quasi stoicamente le varie problematiche sociali contemporanee dei giovani, utilizzando come strumento, quel cinema comico italiano quasi perduto. E’ palese la rievocazione allo stile cinematografico dei Giancattivi, quel cinema spensierato ma sotto certi aspetti salace, che grosso modo vede il coinvolgimento attivo della gioventù nostrana nella vita quotidiana. Johnson riesce dunque ad adottare una metrica stilistica retro, quasi estinta nel nostro cinema, risultando però efficace ancora oggi…

Il titolo riprende il mantra della caduta in L'odio di Kassovitz, ma in senso antifrastico. Non raccoglie nulla della durezza di quel cult, semmai lo gira in direzione contraria e positiva (il mantra è: «ma che facciamo, ci arrendiamo?»). C'è il disorientamento felice e anche un po' incosciente, come se un limbo avesse protetto i cinque fino ad allora da tutto, manca la profondità drammatica: nella riflessione sulla morte dell'amico, nella condivisione della gravidanza di Ilaria, nella fine della storia tra Vincenzo e Francesca. Si avverte sofferenza vera solo nel confronto tra Marta e Andrea. Molto più spazio è dato a un risibile furto (con restituzione) di argenteria, a momenti di puro cazzeggio autoreferenziale - tutti nella doccia, corse tra i girasoli al tramonto - o a gag sovversive e spensierate come cercare la rissa pacifista con un parà o sodomizzare un'anguria per scommessa. Talvolta la leggerezza come principio stilistico rischia di passare per superficialità e attaccamento a quegli anni di limbo di cui molto pubblico può sentire la nostalgia…
                                         
. La bravura di Roan Johnson – autore italianissimo di padre inglese – sta nell’orchestrare i suoi Peter Pan maschili e femminili al massimo della naturalezza e della credibilità, illudendoci che non di rappresentazione si tratti il suo film, ma di vita ripresa e registrata nel suo farsi. La camera è mobile, sinuosa, per scelta di linguaggio e di stile, ma anche per necessità. A mancare è un’adeguata strutturazione drammaturgica: il racconto non ha mai una vera progressione, i personaggi restano sempre al punto di partenza, bloccati dentro se stessi senza mai un cambiamento, una trasformazione seppur minima. Film orizzontale e circolare, dove hai l’impressione di ritornare sempre allo stesso punto…

Nonostante le cose vanno e andranno sempre a testa in giù, la precarietà sarà ogni volta più sovrana e la nostra generazione inaffidabile per definizione, la forza di reagire, di fortificarsi e condividere insieme tutto questo pasticcio che ci assale, è e sarà all'infinito, una delle più straordinarie qualità di cui possiamo vantarci. Così, pur non conoscendo cosa ci riserverà il futuro e come noi saremo in grado di sopportarlo, vedendo i protagonisti di Fino A Qui Tutto Bene non demordere e lottare, separarsi e restare uniti, andare avanti e guardare indietro, ci fa sentire meglio per via di quella positività e speranza secondo la quale siamo tutti passeggeri facenti parte della stessa (piccola) barca.

L’idea per questo film, rivela l’autore, nasce a seguito di un documentario commissionato dall’Università di Pisa sulla vita e le ambizioni degli studenti universitari pisani. I racconti dei ragazzi intervistati si sono rivelati così entusiasmanti e carichi di ambizioni che hanno subito spinto il regista ad ideare un film tratto da quelle storie, una summa di tutti quegli aneddoti, un’opera generazionale ed esistenziale che Johnson decide di auto-produrre insieme a tutti gli attori e tecnici del film. Ne viene fuori un film fresco e leggero che, pur sentendo l’eco lontano di film come I laureati di Pieraccioni o Ecce bombo di Moretti, riesce ad apparire comunque innovativo grazie soprattutto ad un’estetica volutamente grezza e sgrammaticata, ricca di piani sequenza e macchina a spalla utili a donare al film quell’aspetto decisamente real capace di tenere lontana la finzione ed ingannare lo spettatore che davvero finirà per credere che Vincenzo, Ilaria, Andrea, Paolo e Francesca siano degli ex studenti universitari in procinto di perdersi di vista...

questa esperienza garibaldina – così viene definita nei titoli di testa – questo blitz nel melmoso terreno del cinema italiano, porta un po’ di vitalità tanto da spingerci a sperare, forse illusoriamente, che anche i produttori comincino a rischiare qualcosa – e non solo i registi, gli attori, gli sceneggiatori, i musicisti, ecc. -, decidendo di fare affidamento a forze nuove invece che ancora e sempre ai soliti noti.

Tonalità agro-dolci per una commedia molto sentita che è anche un addio alla giovinezza (ormai protratta ad oltranza) di una generazione cresciuta nel ventennio berlusconiano e ora alle prese con la crisi e la disoccupazione. L'umorismo e le situazioni grottesche non mancano, ma il sottotesto è amaro, come l'ombra dell'amico che se n'è andato in maniera tragica…

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