sabato 31 maggio 2014

Somers town – Shane Meadows

una storia di esclusi, di scarti umani, girata con occhi bellissimi.
dura solo un'ora, ed è un tempo perfetto per questo racconto.
non è una fiaba, anche se è una storia di amicizia e di bellezza.
e bello è l'affetto sconfinato di Tomo e Marek verso Marie, come una specie dimamma per i due ragazzini, nella loro mente.
da non perdere, naturalmente, è Shane Meadows - Ismaele

ps: Marie mi ha fatto venire in mente "Marie" di Marian Handwerker, ma forse l'ho visto solo io, era passato a Fuoriorario, penso, e mi era piaciuto moltissimo, anche lì una Marie e un bambino, in viaggio.




…Due ragazzi, uno inglese (il bravo Thomas Turgoose già ammirato in "This is England") e l'altro polacco si incontrano casualmente a Londra. Entrambi provengono da situazioni di disagio sociale: l'inglese dalle (sempre presenti nei film di Meadows) Midlands, Nottingham, dove ha lasciato una non-famiglia e delle non-amicizie con un biglietto di sola andata; il polacco vive, con qualche stento, col solo padre che lavora come manovale.
Si innamoreranno entrambi di una bella ragazza francese più grande di loro, che lavora in un bar dove vanno ogni tanto, e quando lei dovrà tornare a Parigi coltiveranno il sogno di riuscire ad andarla a trovare...
Piccolo affresco in bianco e nero delle persone che la società ignora spesso che esistano.
Con un dolcissimo finale a colori 16mm.
Belle anche le canzoni, tradotte nei sottotitoli.

…La colonna sonora, composta in gran parte da brani voce e chitarra, è in realtà un elemento imprescindibile nel cinema di Meadows, da aggiungersi e da mettere al pari degli altri. Come, del resto, la direzione degli attori. Thomas Turgoose, già protagonista nel bellissimo "This is England", offre anche in questo caso una prova ottima e Perry Benson, con un accento inglese tutto suo, risulta perfetto nel ruolo di “venditore di qualsiasi cosa si possa vendere”, tanto da riuscire a ritagliare all'interno della pellicola momenti inaspettatamente divertenti e che, nel loro piccolo, contribuiscono alla spontaneità e alla naturalezza di cui si scriveva in precedenza.
Anche se la sceneggiatura di "Somers Town", diversamente delle precedenti, è opera di Paul Fraser (comunque collaboratore di vecchia data del regista inglese), Shane Meadows è un autore completo, uno di quei registi che ancora scrive le sue pellicole oltre a dirigerle. Ciò, osservando il suo cinema, si avverte chiaramente. Si avverte chiaro il respiro della sua Inghilterra.
Che la distribuzione italiana l'abbia ignorato è cosa davvero triste. A chi legge, pertanto, si consiglia di fare esattamente l'opposto.

I connotati della dimensione umana, l'affetto e il dolore, le botte e le carezze, il pianto e le risate, si caratterizzano come l'unico piano realmente autentico e fertile nell'ottica di una catarsi, di un riscatto, mentre i manufatti urbani se ne distaccano, bieche proiezioni divenute ormai entità a sé, che tritano e consumano prima la carne e poi l'anima. Le note di Clark infatti lasciano l'amaro in bocca, così come amaro e volutamente posticcio si rivela il finale del film dove il colore pastello bruciato si estende sul livido bianco e nero con cui Meadows riprende i sobborghi di Somers Town, alla periferia di Londra. L'abbondanza di campi medi e lunghi, i pochi primi piani e l'immobilità pressoché constante della macchina da presa schiacciano i personaggi tra le fauci di cemento della città, che è la vera protagonista. La viva impressione che si avverte è proprio quella dell'impotenza, dell'inadeguatezza, dell'impossibilità di un qualsivoglia miglioramento sociale. Somers Town non è una storia di città, è una storia nella città; i personaggi vi approdano come bestie in fuga, e solo nella fuga sembrano trovare una soluzione, banalmente, meno grigia…

Le film est doté d'un beau noir et blanc, astucieux, dont on comprendra - ou du moins interprétera - l'utilisation à la fin. Il n'est pas seulement un bel effet de style mais évoque celui qu'ont pu utiliser un Jim Jarmush ou un Woody Allen, ou comment rajouter une pointe de nostalgie, l'impression d'une époque révolue dans un temps actuel. On notera la présence de Thomas Turgoose, déjà présent dans « This is England », et confirmant ici que sa collaboration avec le cinéaste Shane Meadows fonctionne toujours à merveille (le tandem acteur ado / cinéaste adulte fait penser au Léaud / Truffaut des « Quatre cents coups »).
Au final, tout ce qu'on reprochera au film est sa brièveté: une heure dix seulement. Mais n'est-ce pas la définition même du bonheur: non pas un état constant mais des instant furtifs qu'il faut savoir saisir au bon moment ?
Alors, qu'on se le dise: la sensation de bonheur furtif s'appelle « Somers Town » et le bon moment à saisir, c'est à partir du 29 juillet 2009 

The realism mixed with the dreamy feel sits just right with the random turns of the story, such as Tomo stealing a bag of clothes from a Laundromat because he doesn’t have anything to wear, or when the pair are paid to sit in deck chairs. There’s a constant feeling that the boys are overcoming their dreadful circumstances by adding as many banalities to their lives as they can, as happiness is not an attainable goal. Even Tomo’s thievery isn’t a matter of creating danger and excitement so much as an odd way to meet people (and it results in dialogue from a heavyset older gentleman angered by their noise and disruption in a “private” area, “I’ll remember your face, I’ve got a photographic memory and everything”)…

…El film está lleno de momentos divertidos y llama mucho la atención la capacidad del director para emocionar con imágenes aparentemente vulgares, pero a las que él sabe dotar de un fuerte tono lírico, de una inusual belleza. Quizá debido a la escasa duración y a la falta de mayores ingredientes, la película no alcance en conjunto una excesiva entidad, pero desde luego estamos ante cine de gran altura, con momentos muy logrados, como la conversación entre Marek y su padre o el maravilloso paseo con la silla de ruedas. Las preciosas y emotivas canciones de Gavin Clark contribuyen a transformar las imágenes –sobresaliente la fotografía en blanco y negro de Natasha Braier– en un bello cuento de amistad, en una pequeña joya de poesía urbana.
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venerdì 30 maggio 2014

Giraffada - Rani Massalha

un bambino e le giraffe, è amore.
dalla tragica realtà nasce una fiaba che non perde di vista la realtà.
qualcuno dice che gli agli israeliani non li si dipinge in una bella luce. 
avete mai visto i soldati dei check-point abbassare le armi e fare i balletti?
non è un film storico, solo una storia d'amore di un bambino che diventerà vegetariano, se Allah esaudirà le sue preghiere.
adatto per grandi e bambini, bravi, come sempre, padre e figlio Bakri.
poche sale, ma c'è al cinema, perché annoiarvi a casa? - Ismaele






La dimensione fiabesca si intreccia con il conflitto politico, la commozione con la rabbia. Un padre vuole insegnare a suo figlio a non smettere di sognare. Ed è pronto a tutto per questo. Il bambino dagli occhi chiari bistrattato da ragazzini più duri di lui, sa cosa vuole e crede nella possibilità che suo padre compia dei miracoli, aiutato dalle sue preghiere genuine fatte a voce alta e mani innalzate verso il cielo. Come in uno specchio la giraffa femmina è incinta ma sarebbe pronta a morire pur di non essere costretta a vivere da sola; i due protagonisti hanno vissuto un’intera vita senza una donna di cui sentono ardentemente la mancanza - una madre, una sposa - subendo le regole della morale per cui la sofferenza e la perdita vanno superate, elaborate, dimenticate. Invece tutto il vissuto lascia delle tracce e i due uomini, quello piccolo e quello adulto, hanno un grande vuoto da colmare. Lo farà la nuova famiglia animale, il piccolo giraffino che nascerà o la generosa fotografa europea attratta fatalmente dagli occhi blu del veterinario? Dove potranno trovare una giraffa di sesso maschile per ricomporre un nucleo dove accogliere il futuro nascituro? si trova in un unico posto, che purtroppo si trova a Ramat Gan Safari Park, in Israele. 
Un percorso a tre nel deserto a fianco dell’erbivoro chiazzato dal collo lungo, che uno dei balordi che gironzolano attorno allo zoo definisce "il figlio di un cammello e un leopardo", una sorta di famiglia primigenia ricomposta (la sequenza più poetica della film), conduce ad un finale drammatico che non si poteva in nessun modo evitare. Ma nel cuore dello spettatore resta un senso di calore perché non può lasciare insensibili la dimostrazione che la pace può esistere, anche laddove le armi e la violenza sono gli unici strumenti di comunicazione.

Giraffada, liberamente ispirato ad eventi realmente accaduti nel 2002 a Qalqilya, racconta una situazione di cattività, quella degli animali dello zoo, come specchio della situazione in cui vivono i palestinesi dei territori occupati. Il muro che li separa dai coloni israeliani è coperto di scritte che sono grida di aiuto (in inglese e francese: dunque dirette alla comunità internazionale) e di murales che raffigurano le violenze continue nella zona. 
I coprifuochi, i controlli, i bombardamenti rendono la quotidianità quasi invivibile e fortemente surreale. E quale animale può rivelarsi simbolo migliore di questa assurdità di una giraffa, con il suo collo sproporzionato e il suo incedere goffo?...

What better animal than a giraffe – majestic and absurd all at once – corresponds to the absurdities of daily life in the West Bank, where a veterinarian may have his forceps confiscated and a young boy may be confronted by a knot of machine gun wielding soldiers at any moment? And what better place than a zoo where the beasts mill about waiting for the arrival of the carrot truck could better illustrate the frustrated existence of the Palestinians behind the separation wall? No matter your personal politics, Massalha’s beautiful Griffada cuts to the heart of the existential dilemma of the Israeli-Palestinian conflict and the human costs involved in a geo-political tug-of-war, reminding us that it’s 10-year-old boys and giraffes that suffer the most…

le rythme du film dérange. Assez étrange et mêlant des personnages différents et peut être trop poussés dans les clichés, qu'ils soient trop comiques ou trop antipathiques, il installe un récit saccadé. Et cela entraine la difficulté pour le spectateur de s'attacher à n'importe lequel de ces personnages. On aurait souhaité les connaitre un peu mieux, pas seulement voir leur caractères principaux poussés à leur paroxysmes. Il manque un peu de psychologie ne serait-ce qu'aux protagonistes. On ne sait pas vraiment ce que fait cette journaliste, interprétée par Laure de Clermont, sur le territoire palestinien. Et bien que Ziad boude une bonne partie du film et que son père aborde brièvement la mort de sa femme, on a du mal à sentir leurs émotions et par extension on leur porte difficilement de l'intérêt. Ce rythme bizarre et ces personnages un peu fades apportent donc un désintérêt pour l'intrigue et une certaine monotonie qui dessert malheureusement une histoire qui aurait pu faire rêver certains d'entre nous.

mercoledì 28 maggio 2014

Jacob's Ladder (Allucinazione perversa) - Adrian Lyne

il titolo non c'entra niente, ma visto che Adrian Lyne aveva girato prima due film come "9 settimane e 1/2" e "Attrazione fatale" chi ha scelto il titolo italiano era un folle.
il film è una sorpresa, con tanti colpi di scena e tante cose che sembrano incomprensibili, alla fine si capirà tutto. Tim Robbins è perfetto, e anche Elisabeth Peña è davvero brava (l'avevo già vista, bravissima, anche qui, in un gran film di John Sayles), come pure Danny Aiello, tutti indimenticabili.
il Vietnam è lo sfondo del film, è un buco nero nella storia degli Usa, e la base di molti grandi e grandissimi film.
"Jacob's Ladder" è difficile, a tratti doloroso, e però è cinema grandissimo, un capolavoro, per i miei gusti, con una sceneggiatura alla quale non si sfugge - Ismaele




A lesser film would have ended with some dumb denouement in a courtroom, or some shootout with government security guys. This is a film about no less than life and death, and Jacob seems to stand at the midpoint of a ladder that reaches in two directions. Up to heaven, like the ladder that God put down for the Biblical Jacob in Genesis. Or down to hell, in drug-induced hallucinations. This movie was not a pleasant experience, but it was exhilarating in the sense that I was able to observe filmmakers working at the edge of their abilities and inspirations. Not every movie has to be fun.

…Il film è un'agghiacciante indagine sugli scherzi della mente umana e sugli orrori della guerra, per molti versi premonitore (Il sesto senso e altri film "a finale sconvolgente" nascono praticamente da qui), che riesce ad attraversare vari generi (horror, psicologico, thriller, di guerra) senza appartenere totalmente a nessuno di questi.
Tim Robbins è nella parte, e riesce perfettamente a rendere lo stato di un uomo che scivola nella "scala" della follia. I riferimenti sono molti, dalle allucinazioni lynchiane alle mutazioni deformi alla Cronenberg fino alla Divina Commedia dantesca, che si susseguono fino alla "rivelazione" finale che rispetto alle visioni dei due registi sopracitati è molto meno enigmatica e molto più "realista", pur mantenendo quell'alone di ambiguità di fondo.
In definitiva un piccolo grande cult rovinato dal titolo italiano, non esente da pecche ma fondamentale per la nascita di molto del cinema futuro, nonché vera e propria tappa obbligata per coloro che amano Silent Hill (moltissime le citazioni che il gioco ne ha tratto: l'ospedale, gli uomini che si contorcono spasmodicamente, gli amorfi appesi alle grate, il finale...) e i film a "scatole cinesi".

… Discorso assolutamente opposto bisogna dedicarlo a Lyne.
Il regista riesce a reggere il film su ottimi livelli per tutto l'arco della narrazione, regalando anche alcune sequenze difficilmente dimenticabili. Oltre alle già citate scene dell'ospedale e della metropolitana, risulta essere perfetta dal punto di vista registico la scena del ballo demone-Jezebel, la quale gioca in maniera ambigua e ammiccante aiutandosi con le luci psichedeliche della festa.
Molto bella anche una ripresa in cui viene messa a fuoco una ragnatela tessuta da un ragno su delle foglie; una scena che fa da fortissimo contrasto con le sequenze precedenti, e che quindi "informa" lo spettatore che sta ricominciando un flash-back sul Vietnam.
Il film dal punto di vista dei contenuti non può essere classificato in maniera netta e univoca. Sicuramente si riscontra una fortissima preponderanza del genere horror, la quale regala probabilmente le sequenze migliori dell'intero film.
Però non si può non sottolineare anche la componente thriller, che si assume la responsabilità di menzionare e approfondire il tema della droga e dei complotti governativi atti a far passare sotto silenzio una tristissima pagina della storia americana.
Infine il film è inquadrabile anche in un genere drammatico, soprattutto a causa della condizione di Jacob e della soluzione finale che mescola tutte le carte in tavola…

Jacob, come in un incubo dal quale non riesce a svegliarsi e la cui unica via d’uscita è continuare a vivere il sogno fino in fondo, scende nell’inferno abbacinato della sua coscienza che Adrian Lyne popola di demoni credibili, caratterizzati da volto umano. È proprio qui che risiedono la bravura e il coraggio del regista: egli ci mostra demoni che ci assomigliano e dotati di corpi deformi che evocano un ambiente malato e insalubre. Lo spettatore ne rimane turbato perché vi si riconosce ma, allo stesso tempo, prova ribrezzo perché scopre il lato corruttibile e caduco di ciò che lui stesso è. Tutto questo orrore, causato presumibilmente dagli effetti collaterali delle droghe assunte in Vietnam (e fornite dallo stesso Stato Maggiore americano) o forse dovremmo dire proprio grazie ad esso viene messo a nudo l’animo del protagonista i cui sogni, le fobie, gli amori, i desideri carnali più reconditi e l’attaccamento che mostra per le persone che ama ci permettono di percepire il suo intenso desiderio di vita. Ecco perché noi spettatori ci aggrappiamo alla figura di Louis (un bravissimo Danny Aiello) amico intimo e fisioterapista del nostro filosofo che, come una sorta di maestro spirituale, “un cherubino cresciuto un po’ troppo”, gli rivela delle semplici ma fondamentali verità sulla vita e sulla morte senza il supporto delle quali il panico è d’obbligo. Fortunatamente il processo di autocoscienza di Jacob, possibile solo accettando anche il lato oscuro di sé che risulta essere quello più umano, trasforma le sue paure e i suoi demoni in angeli guida e muta, di conseguenza, la discesa in ascesa permettendogli, proprio come nel sogno del patriarca Giacobbe – cui si riferisce il titolo stesso del film -, di salire i gradini di quella scala che lo condurranno alla pace. Sullo sfondo di uno scandalo militare americano tenuto troppo spesso sotto silenzio, Jacob’s Ladder (permettetemi l’utilizzo del titolo originale) è un film commovente e terrifico allo stesso tempo. 
Adrian Lyne riesce abilmente, in diversi momenti, a ridurre noi spettatori a uno stato catatonico per le scene di alta tensione, le quali affidano alla nostra immaginazione il compito di colmare il vuoto tra la realtà e la finzione, lasciandoci completamente basiti nel coup de théâtre finale in cui termina il nostro visionario viaggio nella mente di un uomo.

Definirlo un film drammatico è veramente riduttivo. Trattasi di un film che va molto al di là del semplice dramma, e il tutto è sminuito a partire dal titolo italiano: Allucinazione Perversa.
Questo suona infatti come un qualcosa che sta a metà tra il giallo vecchio stile e il softcore. Siamo completamente fuori strada. Il titolo originale è Jacob’s Ladder, e ci troviamo di fronte a un’ulteriore manifestazione dell’immotivato scempio traduttorio perpetrato da noi contro il cinema internazionale.
Ma andiamo con ordine. Il film è del 1990, diretto da Adrian Lyne e interpretato da un giovaneTim Robbins. La storia allucinante che vi sto per raccontare era stata scritta da Bruce Joel Rubin già nei primi anni 70, ma solo dopo l’apporto di Lyne l’autore riuscì a vederla trasformata in un film.
E questo è stato un bene. Jacob Singer (Tim Robbins), reduce del Vietnam, lavora alle poste insieme alla sua compagna Jezebel (Elizabeth Peña). La guerra non è l’unico dei massi piombati a tradimento sulla schiena di Jacob: qualche tempo prima ha perso suo figlio Gabe (Macaulay Culkin), falciato via da un automobilista…
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lunedì 26 maggio 2014

Il dottore tedesco (Wakolda) – Lucia Puenzo

Eichmann (qui) e Mengele al cinema nello stesso anno.
l'Argentina ha accolto, via Vaticano, qualche criminale di guerra nazista, qualcuno gli da la caccia. Mengele riesce a fuggire, la la caccia è solo una parte piccola del film, la parte più importante è nel rapporto fra il dottore tedesco e una famiglia dove lui ha in affitto una stanza, in Patagonia.
Il padre, Enzo, diffida, con ragione, e però è affascinato da un gioco di bambole, Lilith, la ragazzina di 12 anni, con la quale Mengele lega, a suo modo, è oggetto di una cura per la crescita, col consenso della madre, e la madre, alla fine del film, partorisce due gemelli, una tentazione per il dottor Mengele.
Lucia Puenzo, figlia d'arte, ha girato pochi film, molto belli, e anche qui si sente la sua mano.
è un film trattenuto, sembra, non urlato, non è il suo migliore, ma merita di suo - Ismaele  





…"Wakolda" tiene varias líneas argumentales (quizás demasiadas para sus 93 minutos) que se entrecruzan y en algunos casos se potencian entre sí: la llegada a Bariloche de Josef Mengele (Brendemühl) con la cobertura de una red clandestina que opera dentro de la comunidad germana; la relación que él establece con una pareja (Oreiro y Peretti), que también arriba a la zona para reabrir una hostería familiar a orilla del lago Nahuel Huapi en la que el ex jerarca nazi decide hospedarse por seis meses; y -sobre todo- la mutua obsesión que se produce entre el protagonista y la hija del medio del matrimonio, Lilith, de doce años, que tiene problemas de crecimiento por haber nacido prematura. Hay más temas y subtramas: el despertar sexual preadolescente, la dinámica escolar en el colegio alemán, la fabricación de unas muñecas de porcelana (de allí e título del film), la caza de nazis por parte de agentes israelíes y, claro, los experimentos genéticos que hicieron tristemente célebre a Mengele.
Más allá de la acumulación de capas (es un verdadero rompecabezas y hay momentos en que al relato le cuesta respirar), hay que indicar que Puenzo maneja la mayoría de ellas con precisión, rigor, recato y delicadeza, apoyada en un sólido elenco que sortea con muchísimo profesionalismo el desafío del idioma (el 60 por ciento de la película está hablada en alemán y varios de ellos se aprendieron los diálogos por fonética). 
La película tiene un arranque impecable en la presentación de los personajes y el contexto; en el medio la narración se "ameseta" un poco para recuperar su aliento en un desenlace a pura tensión y suspenso, cuando el melodrama familiar cede lugar a elementos propios del thriller. Con una narración más clásica que en sus dos films anteriores, Lucía Puenzo demuestra que puede abordar temas espinozos y provocadores sin caer en lugares comunes ni golpes bajos. Bien por ella.

…La regista Lucia Puenzo dissotterra con merito certo uno scampolo di storia della più immonda Armata delle Tenebre mai esistita. Amor di verità, tuttavia, ci porta ad affermare che Wakolda non è grande cinema: avrebbe potuto essere buona televisione, ha sceneggiatura ritmi ed interpretazioni che ricordano gli sceneggiati Rai della fine degli anni 70, ma la superficialità ed anche il modo gratuito di saltare alcuni snodi fondamentali danneggiano la visione, tanto che la forma dell’opera soccombe rovinosamente sotto il peso del suo ingombrante contenuto, nemmeno salvata dalla presenza di bambole meccaniche che strizzano occhi e cuori meccanici a Fritz Lang.
Wakolda racconta senza troppo inquietare e senza troppo disturbare, restando opera necessaria, da divulgare nelle scuole elementari e medie del nostro Paese, ché l’ignoranza è tantissima e le Giornate della memoria non bastano mai.

…El acontecimiento que despertará la persecución de Mengele en Bariloche, por parte del Mossad, va a ser en el relato literario y cinematográfico, la denuncia telefónica que hace una empleada judía de la ciudad, en realidad una espía del mismo servicio secreto israelí, que reconoce al criminal pues, de muy joven, había estado internada en el campo de concentración de Birkenau donde, por orden de Mengele, había sido esterilizada... Tal hecho acelera el desenlace del film en el mismo estilo dramático de sugerencia que subraya la maldad típica de la tragedia, según la "Poética" de Aristóteles, y que justifica la huida constante del criminal y luego su catástrofe. En resumidas cuentas, un filme de gran calidad por el que hay que felicitar a su directora y al cine argentino.

…Si no fuera porque la cinta es hispanoparlante, “Wakolda” daría para confundirse con una producción hollywoodense, ya que la estética en general es bella y profesional, destacando los amplios planospanorámicos del paisaje, que resplandecen junto a la banda sonora, tan lastimera como simple. Al mismo tiempo, los primeros planos de los rostros de los actores rebosan expresividad, debido a que las actuaciones, en especial de los protagonistas, son solidísimas, en especial Àlex Brendemühl, tan calmo como perverso, y Florencia Bado, encarnando la inocencia e inseguridad características de la pubertad.
A lo largo de toda la película, la tensión va aumentando constante pero sutilmente, al nivel de que ni siquiera es necesario que se pronuncie el real nombre del médico, sino que queda de manifiesto desde el principio que su identidad e intenciones no pertenecen a una menteequilibrada. Quizás el único defecto que muestra la cinta, es la sensación de que el último tercio se apura demasiado, ocurriendo los sucesos desmesuradamente seguidos, llegando a veces a tropezarse unos sobre otros…

Tal reversión de los acontecimientos resulta intrigante y puede llegar a ser provechosa si el rechazo al dramatismo más burdo y enfático desplaza el poso dramático hacia esferas más amplias y sutiles. Pero aquí la decadencia no está suficientemente bien punteada, no asistimos de una u otra forma a la desmoralización de unos hombres que deben purgar sus pecados, como si ocurría por ejemplo en el filme de Hirschbiegel. El descenso físico o moral se ve de hecho sustituido por un ascenso final, el de un avión en dirección desconocida que pretende que el espectador también se contagie de algo de ignorancia. No creo que Puenzo desee que nosotros también miremos hacia otro lado durante su disfrutable película, pero la misma, en ese final y en otros momentos del metraje, también corre el riesgo de caer en la banalidad.

La tension de ce drame est entretenue par la progression des expérimentations du docteur, l’agacement que la lenteur des résultats lui procure, mais aussi par la traque dont il est la cible par le gouvernement israélien (qui avait mis en place un réseau d’agents secrets pour retrouver les nazis en fuite). Une course contre la montre pour une fillette dont le traitement doit lui permettre de grandir, pour un médecin en quête de résultat et pour un pays en quête de justice, le tout dans un paysage magnifique de montagnes, au climat tourmenté, parfaitement exploité par une mise en scène sobre et ample.
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domenica 25 maggio 2014

Fat city (Città amara) – John Huston

i primi minuti e gli ultimi minuti sono di una bellezza e di una potenza che lasciano senza parole, in mezzo c'è solo grandissimo cinema, quello di John Huston.
è un film sul pugilato, ma sopratutto sul sogno americano ("uno su mille ce la fa", cantava Gianni Morandi).
grandi interpreti, Stacy Keach e Jeff Bridges sono straordinari, come è straordinario il personaggio del pugile messicano, che ha colpito forte Roger Ebert, pugile silenzioso e vittima sacrificale, è apparso solo in questo film.
Sixto Rodriguez si chiama, quello che Roger Ebert non sapeva è che quel nome è lo stesso del protagonista di "Sugar man".
non perdetevi "Fat city", c'è il Cinema dentro - Ismaele





…In questa ballata dai toni malinconici, Huston non risparmia niente a nessuno. “Fat City” è uno dei suoi film migliori: un ritratto del mondo del pugilato feroce e disperato, diretto con una lucidità impressionante, ottimamente interpretato sia da Stacy Keach (Billy Tully) che da Jeff Bridges (Ernie Munger). Magnifica la fotografia di Conrad L. Hall, i cui colori incorniciano impietosamente le facce dolenti dei protagonisti e gli ambienti miseri nei quali gli stessi si muovono.
Sui titoli di testa, Kris Kristofferson canta la bellissima “Help Me Make It Through The Night”. “Fat City” è un film amarissimo.

The Stockton in his film exists in an America we tend to forget about these days. It is the other side of the image preferred by chambers of commerce. The characters live their lives in fly-stained walk-ups with screen doors that bang in the wind. They hang out in the kind of bar that advertises in its window the price of a shot and a beer. They know in their bones it will take a miracle to get them out of their lives, because they know (accurately) that they don't have what it takes. So they dream, and bank on long shots. Even after all the hours of training and roadwork and pep talks, the boxers in "Fat City" feel little confidence in themselves. They substitute brag for optimism…
…The one performance in the movie I'm sure I will never forget comes from Sixto Rodriguez, an actor who doesn't have a single line of dialogue. He plays a Mexican fighter, who once, briefly, had a reputation, and is brought in by bus to fight Tully. He comes to the stadium surrounded by a vast silence and loneliness. He urinates, and there is blood, and we know his secret. He is in such pain he can barely stand. But he goes out and fights and loses, and gives Tully a moment of glory that (we know) is so small as to hardly be measurable.
A few critics of "Fat City" found it too flat, too monochromatic. But this material won't stand jazzing up. If Huston and Gardner had forced the story into a conventional narrative of suspense, climax and resolution, it would have seemed obscene. There just isn't going to be any suspense, climax, or resolution in the lives of these people: Just a few moments of second-hand hope that don't even seem worth getting very worked up about at the time.

En la contemplativa y muy inspirada caligrafía de Huston, y en la temperatura templada que a las imágenes confiere la estupenda labor del operador lumínico Conrad Hall, uno termina por darse cuenta de que, a la postre, Fat City no se limita a la radiografía de unos personajes y una coyuntura (la del perdedor), y quizá se está atreviendo a ir mucho más allá, a reflejar el paso del tiempo y su peso inescrutable. Se está refiriendo a la condición de la existencia humana, en toda su espesura, que abraza lo trágico tanto como lo ordinario, lo trascendente tanto como lo inane. O en cualquier caso abraza, sobre todo, lo irremediable de su curso.
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venerdì 23 maggio 2014

Inside I'm Dancing (Il mio cuore balla) - Damien O'Donnell

Damien O'Donnell sarà ricordato per un capolavoro che è "East is east", qui non siamo a quelle altezze, e comunque è un film che merita, di argomento difficile, trattato senza pietismo.
i personaggi sono belli e abbastanza realistici, anche se ci sono delle situazioni un po' surreali.
non è un film eccezionale, solo un bel film, ma a me è piaciuto abbastanza.
nessuno si aspetti "East is east", quello era un gioiello unico - Ismaele





Rory O'Shea Was Here is a subtle masterpiece that occasionally slips into sentimentality but overcomes its slight flaws and eye-rolling contrivances with a powerful script, a terrific cast and a poignant conclusion that is guaranteed to move all but the most stone-hearted…

Their story is a fight for freedom. Trapped in a care home, Rory persuades Michael to make a break for it, not "over the wall" in the time-honoured tradition of high security escape movies - it would be impossible in their condition, anyway - but legally through the proper channels…

 Il mio cuore balla è un film sull’amicizia. La storia è quella di due disabili gravi che rifiutano la compassione e le restrizioni per cercare in tutti i modi che la loro dignità e i loro diritti siano riconosciuti, appoggiandosi l’uno su l’altro. Ispirato ad una storia di Christian O’Reilly – che ha lavorato all’interno di una struttura per ospiti disabili – il film in verità è più banale di quello che appare: portare al cinema queste tematiche è scelta coraggiosa e O’Donnell non si tira indietro nel seguire due personaggi gravemente disabili e renderli protagonisti in tutto e per tutto. Tuttavia la narrazione segue percorsi (pratici e psicologici) prevedibili, e dove passa con troppa disinvoltura su alcuni aspetti della vita da disabile (ma vi pare che una commissione per l’assegnazione di aiuti alla Vita Indipendente possa funzionare così come è descritta?) ha invece piede pesante nel pestare il pedale della lacrima facile. Sembra di assistere ad uno di quei film a cui molti difetti vengono perdonati per il tema trattato: non è forse una forma di pregiudizio anche questa? In ogni caso il cast – attenzione, non disabile – vale il prezzo del DVD.

…Rory wants to get out of the institutional world and into independent living. A well-meaning board of supervisors doesn't think he's ready for that yet, not with his disabilities combined with his recklessness. Michael is perfectly prepared to spend forever in the home, until Rory blasts him loose and uses him as his ticket to freedom. He persuades Michael to apply for independent living, and after Michael's application is approved by the board, Rory adds sweetly that of course Michael will need an interpreter.
They'll also need a caregiver, and they interview the usual assortment of hopeless cases. There should be a Little Glossary entry about the obligatory scene where a job interview or an audition inevitably involves several weirdly unacceptable candidates before the perfect choice steps forth…

The unevenness of Rory O'Shea Was Here makes it difficult to recommend. Two similar yet superior movies come to mind. The first is My Left Foot, which shouldn't be difficult to find in a well-stocked DVD store. (The presence of Brenda Fricker in both movies strengthens the connection.) The other is Dance Me to My Song, which features an incredible performance by real-life cerebral palsy sufferer Heather Rose. As a feel-good movie about disabled youths, Rory O'Shea Was Here gets the job done, but it isn't interesting or daring enough to make it worth a trip to a theater.
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giovedì 22 maggio 2014

Victoria para Chino - Cary Joji Fukunaga

Cary Joji Fukunaga è il regista di "True detectives", per chi non conosce ancora quel gran pezzo di cinema.

mercoledì 21 maggio 2014

In grazia di Dio – Edoardo Winspeare

sembra un'opera prima riuscita, poi ho visto il nome del regista.
non ci sono attori famosi, non c'è un centro forte nella storia, ci sono tante piccole storie che sono legate fra loro, e alla fine tutto si tiene, il film è realistico, senza pesantezze, è leggero e ci sono tanti fili che non sempre terminano.
alla fine le donne della casa che si fanno forza e solidarizzano insieme sembra vogliano dire che solo insieme si va avanti, un messaggio di solidarietà per affrontare il futuro.
non sarà un capolavoro, ma sono due ore ben spese, e al cinema è meglio, se si riesce a incrociare una copia - Ismaele





Non c'è personaggio che giunga a quella che comunemente chiameremmo "una chiusa", non c'è sottotrama che si possa dire realmente compiuta, nè carattere che subisca una reale evoluzione, tutto è in un continuo divenire e In grazia di Dio sa suggerire che questo continuo mutare non si ferma con la fine del film. E sebbene il "ritorno alla natura" non sia la più sofisticata delle riflessioni sul contemporaneo (c'è più d'un insistente riferimento all'attualità, dall'audio molto alto e molto "entrante" dei notiziari fino ai riferimenti ad Equitalia) è indubbio che il modo che Winspeare ha di guardare e far guardare questa regressione che diventa evoluzione è contagioso. 
È questo probabilmente il cinema più complesso da fare oggi, quello che molti cineasti europei, in una maniera o nell'altra, stanno affrontando cercando di superare le parabole narrative convenzionali senza rinunciare ad una forma semplice (e quindi classica) del racconto. Forse l'unico cinema in grado di annullare le divisioni ideologiche e le banali posizioni di buono o cattivo, bene e male, per giungere a rappresentare il reale per com'è, accettandone la complessità invece di semplificarlo per renderlo comprensibile. In grazia di Dio è un buon esempio di questo nonchè un buon film in assoluto.

Con uno sguardo semplice, davvero pari a quello dei narratori di storie classiche, Winspeare dipinge quadri agresti, in cui la bellezza riluce e si confonde con la stessa terra e con il colore dei suoi frutti. I luoghi sono abitati dalla trasparenza di figure che si muovono nella lentezza tipica della vita dei campi, dilatati, quasi senza tempo. In questa parte di terra il senso religioso è altissimo, divino, sebbene della religione, anche in questo film sia messa in bella mostra il suo retaggio culturale popolare. Non proprio positivo. E’ bellezza l’idea della incompiutezza, un rischio che il regista si assume, visto che, alla fine del film, nessuna esistenza si risolve, si compie davvero: tutto è un continuo divenire, allo stesso modo del ciclo naturale della vita della natura, compresa quella umana.
Il film di Winspeare emoziona, perché tutto il cast, ha potuto sperimentare quello stato di grazia che è tipico di coloro che “ci mettono il cuore quando fanno le cose”, parole che si esprimono nello stesso film. Ma che Winspeare fa diventare l’essenza di una vita, dedicata al cinema che crede nel cambiamento delle nostre miserie.

Non c'è dubbio che, influenzato dagli ultimi lavori di Malick, anche Winspeare adatti il suo cinema alla tendenza minimalista di tanto cinema attuale, ma ciò non accade mai spontaneamente: l'opera, infatti, forza il racconto per produrre uno stile, senza che nessun personaggio maturi realmente, che si creino sottotrame, e il riferimento ad Equitalia appare pretestuoso, quanto non immotivato. Presunzione di forma, dunque, ma non giustificata dal progetto: per cercare di rappresentare il reale così come esso appare, purtroppo, occorre mistificarlo attraverso una dimensione epica. Superare il classicismo narrativo cercando di assecondare un racconto con una forma elementare richiedeva una sceneggiatura forte: l'assenza di uno script degno di nota, al contrario, e la mancanza di un tema centrale universale, invece, rendono questo film un' inutile visione, che nulla aggiunge al percorso filmico dell'autore nato a Klagenfurt. Neppure le musiche vibrano di nuovo: chitarre troppo ascoltate, suoni insistenti, voci di vento come in un film di Franco Piavoli, amplificano il senso di poco coinvolgimento dello spettatore, regalandoci una pellicola fredda e banale. Delusione gigantesca, quindi, perché poco attesa. Peccato!

Il regista Edoardo Winspeare non vuole drammatizzare, non vuole educare, denunciare. Racconta e basta. C’è il sole meridionale, c’è la pietra. Tricase, Corsano, Leuca. Ci sono parole, le salentine sonorità di Grecia e Bisanzio. Ci sono debiti, e ancora debiti, fabbriche che chiudono, la casa svenduta, pensioni saccheggiate che fanno vivere figli e nipoti. L’onestà pagata a un prezzo d’usura.

…A raccontarlo, il film più sembrare schematico e retorico (idem a leggere le note di regia delpressbook). Niente di più lontano dal vero. Lo sviluppo non banalizza alcuna delle suddette difficoltà sociali né semplifica le tensioni relazionali: i caratteri spigolosi non vengono certo smussati.
In crescendo, e malgrado qualche ridondanza (la durata, anomala per analoghi film italiani, di 127 minuti è però indice di autonomia produttiva e di coraggio), Winspeare firma un affresco di notevole senso del realismo e sensibilità antropologica…
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martedì 20 maggio 2014

Die Wand (The wall) - Julian Pölsler

tratto da uno straordinario romanzo di Marlen Haushofer (qui), in forma di diario di una sopravissuta a qualcosa di terribile e misterioso, e prigioniera in una valle, all’interno di pareti trasparenti e impenetrabili.
interpretato da Martina Gedeck (“La vita degli altri” – “La banda Baader Meinhof”), davvero brava a rendere la disperazione e la forza di una donna che vive nella paura e nella solitudine, con un cane eccezionale, una mucca e una gatta.
è un film dove non ci sono dialoghi, solo lo sforzo di vivere senza prospettive, senza speranze.
il libro è diverso ed eccezionale, e si trova in italiano, il film purtroppo non è mai uscito da noi, ma merita davvero di essere visto – Ismaele

ps: nel film c’è un errore nel montaggio, una distrazione (“goof”, in inglese), trovato?




Gedeck’s performance is thouroughly absorbing, and intelligently played. Her ‘report’ expressing her feelings and observations is lain over the whole film, and has an almost hypnotic quality to it, although a sparser use would be more effective.  The woman herself (never named) is a classic Austrian stoic; she does not rage against the wall, and only briefly falls into despair before adapting to her situation. As Aristotle said ‘Man is a social Animal’, so the woman takes to caring for her animals and nurturing her herd instinct. Without company or caring for others, it’s implied that we lose our souls or what it means to be human…

It's not a movie for the masses. I'd say, it's a movie for only two audiences: fans of the book and arthouse aficionados - but these two audiences will (probably) fully embrace it. "Die Wand" is a very slow, very quiet drama about the urge to survive, the positive and negative sides of loneliness, the carelessness of nature and the expendability of humanity, including some serious criticism on the patriarchal society, and social criticism in general…

… Non ci sono guerre interne, lotte per il potere, misteriose apparizioni. C’è invece una donna, sola e isolata dal mondo, che si trova a dover dare un nuovo senso alla propria vita. Prima è solo sopravvivenza, con i disperati tentativi di superare il muro e l’affannosa ricerca del cibo, poi è la ricerca di un nuovo modo di vivere, grazie alla scrittura di un diario e all’amicizia con gli animali che la circondano. Proprio l’uso del diario come stratagemma per ovviare alla mancanza di dialoghi in una sceneggiatura con un’unica protagonista è l’elemento che rende il film stesso quasi un’opera letteraria, in grado di comunicare perfettamente con le potenti immagini della natura scelte dal regista e con un sonoro (sia quello dei rumori della montagna, che quello delle musiche) che è sempre al centro dell’attenzione...

Sealed in a natural environment, with only her friends' dog and some other animals as company, the woman begins a descent into a state of nature not unlike that of Vincent Gallo's own nameless protagonist from Jerzy Skolimowski's more psychologically rich Essential Killing.
Just as Pölsler, who at times resorts to a heavy-handed use of slow motion to overemphasize the dramatic nature of the story's events, exhibits too little trust in his visuals to convey the film's message, he shows even less trust in the audience's ability to follow both the plot and the implications of his protagonist's actions without quick, sometimes even preemptive explication. Gedeck's heroine has little recourse but to hunt for her food; however, she can't get rid of her disgust for doing so…

…I have very mixed feelings about this one, and it’s tough to write about.  I was very grateful to have this be a movie club selection, because the discussion afterwards was valuable in sorting my thoughts.  It was also more stimulating than the film itself.  Maybe this is the mark of a great film?  But I don’t feel in my heart it was a great film.  There are interesting things about it, and it did promote good discussion… but I had some problems with the execution.  What some saw as intriguing ambiguities I saw as a lack of direction.  Despite my somewhat low rating here, I’m glad I saw it and got a chance to talk about it with others.

…Sur un rythme soporifique, "Le Mur invisible" s’enferme progressivement dans l’univers qu’il a créé, fermant sa porte aux spectateurs, rendant le film ainsi profondément hermétique. Martina Gedeck (connue dans nos contrées principalement pour "La Vie des Autres") réussit pourtant une prouesse artistique époustouflante, mais en vain… La voix-off omniprésente – la protagoniste principale n’ayant aucune réplique, tous ses dires sont délivré par le biais de la voix-off – finit même par gâcher la poésie de l’image. Le poids des mots écrase alors la magie que voulait créer le réalisateur, et le réalisme méticuleux de la mise en scène finit par agacer. Certes, Pölsler nous livre une œuvre mystique et atypique, tout en parvenant à magnifier la nature, mais il oublie de convier le spectateur à ce voyage initiatique. Dommage…
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domenica 18 maggio 2014

The Temptation of St. Tony - Veiko Õunpuu

il film si apre con l'incipit de "La Divina Commedia", e Tony è uno che non si ferma, attraversa tante esperienze (gironi?), frequenta brutta gente, non si sa se gli capitano tutte a lui, o se il mondo (il sistema) è così.
Tony appare gentile, fuori posto, in un mondo alla deriva, oltre l'orlo dell'abisso, che casualmente corrisponde al nostro mondo, per troppi particolari.
uno splendido bianco e nero, con mani tagliate trovate in campagna, e sesso e giochi di morte.
mi ha ricordato il Buñuel de "L'age d'or", "13 tzameti", qualcosa di Bartas, e anche di Leos Carax, via Denis Lavant, il film estone è un piccolo capolavoro da vedere e rivedere - Ismaele





Püha Tõnu kiusamine (2009) è un film di folgorante bellezza.
Basta poco (un bizzarro corteo funebre di herzoghiana memoria) per capire che il regista estone classe ’72 Veiko Õunpuu ha talento da vendere. Come il suo collega e quasi connazionale Sharunas Bartas, egli propone una carrellata di esseri umani che difficilmente sembrano appartenere a tale categoria. Ma la tipica malinconia bartassiana qui viene sostituita da un surrealismo che incamera sequenza dopo sequenza misteriosi interrogativi a cui non è possibile dare risposta. Vieppiù che la regia di Õunpuu risulta incredibilmente diversificata, per cui l’immagine passa da una sospensione piano-sequenziale degna del miglior Tarr a rabbiose accelerazioni estetiche che mozzano il fiato…

… Pretender analizar esta obra requeriría de una extensión de texto muchísimo más larga que este artículo, y creo que la experiencia del visionado particular supera en este caso, con creces y sin palabras, de una forma infinitamente más íntima y propia, la más rica explicación que pudiera dar un monográfico sobre la misma. Dicho en cristiano: Sírvanse ustedes mismos.

…The Temptation of st. Tony è un'opera di una bellezza sconvolgente ; un'esperienza dirompente, metacinematografica. Un film che tiene sospeso lo spettatore tra l'astratto e il concreto, tra l'invisibile e il visibile. Una catarsi indecifrabile, avviluppata da un bianco e nero asfissiante e necessario. La regia è straordinariamente "differenziata" : si passa dall'Immagine ipnotica e atemporale relativa ai piani sequenza tipici del cinema tarriano, a sequenze esplosive, immagini nervose, impazzite, quasi zulawskiane - la visione stessa diventa sepolcrale, ultima. Atmosfere Oltre. Una pellicola incredibile e spiazzante ; impossibile non pensare (almeno un po'), oltre al già citato Tarr, a Herzog, Bartas,Tarkovskij e, perché no, a Manuli. Alcune sequenze oniriche e angoscianti potrebbero pure far pensare alle atmosfere lynchiane, ma, a proposito di David Lynch, sembrerebbe più opportuno citare Eraserhead : Tony pare essere la versione anagraficamente più adulta, che tenta di collegarsi all'attuale realtà societaria, di Henry Spencer ; entrambi appaiono smarriti, fuori posto e fuori tempo, sembrano vagare nell'incubo, perennemente insicuri, dubbiosi. E' solo l'inizio della fine. 

There's no better cinematic praise than to be evocative of Béla Tarr's tour de force Werckmeister Harmonies. And The Temptation of St. Tony is just that. Veiko Õunpuu has weaved an existential rumination on Eastern European temporality, where work is waiting and waiting is work, and a visually stunning critique of the exacerbation of difference that post-communist times have to offer. A nouveau riche class fascinated by its newly imported sense of sophistication and superiority is so in love with itself that getting a glimpse of the lower classes is as unbearable as staring at Medusa right in the eye…
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venerdì 16 maggio 2014

Kosmos – Reha Erdem

una comunità chiusa, appare un uomo strano, accettato come ospite per aver salvato dalla morte un bambino.
è uno diverso, Kosmos, parla per metafore e massime spirituali, davvero strano, ma la comunità ha un debito verso di lui.
gira indisturbato par la cittadina, ha un ricovero di fortuna, ha dei poteri che guariscono. 
ma solo la sorella, Neptun, del bambino salvato dalle acque può davvero comunicare con lui, con un linguaggio sconosciuto, linguaggio di uccelli, o di angeli, chissà.
poi qualcuno fa dei furti in qualche negozio, per Kosmos si mette male, un bambino muore, e lui viene ritenuto colpevole, alla fine fugge,in mezzo alla neve, come era arrivato.
è una storia senza tempo, Kosmos forse non ha età, è come un profeta prima accolto e poi perseguitato, riapparirà da qualche parte, sarà il diverso, l'enigma, l'animale da sacrificare, come tanti, ma lui può fuggire.
la fotografia è bellissima, oltre al resto, è un piccolo capolavoro da cercare, misterioso e incantatore - Ismaele
 







…L’ambientazione sembra fatta apposta per dare a Kosmos un luogo in cui esistere. Con elementi di Gesù, Robin Hood e Yoda, il personaggio è il più singolare, originale e interessante apparso sugli schermi negli ultimi anni. E nella costruzione di un’atmosfera incantata, bizzarra, cupa ma ottimista insieme intorno all’uomo, Erdem si pone come l’autore più autentico del cinema moderno turco. Forse troppo autentico, a giudicare dall’assenza di riconoscimenti festivalieri per questo straordinario e sconcertante capolavoro.

Solo Neptun, il nome che si dà per lui la ragazza del fiume, sorella del bambino salvato, entra in sintonia con la sua dimensione, la loro è una ricerca continua l’uno dell’altra, fatta di corse nella neve, un dialogo che usa il linguaggio degli uccelli, nessun contatto fisico, solo sguardi, silenzi  e canto, e poi gli immensi sorrisi di Kosmos che illuminano la scena come una luce, mentre il buio scende al suo urlo lacerante che vede morte dove voleva ci fosse vita e felicità.
E dunque dovrà fuggire, di nuovo, passando da quella porta che Neptun apre per lui, verso quella pianura innevata fino all’orizzonte lontanissimo, e solo allora capiremo da dove veniva, da chi fuggiva all’inizio del film, fuggiva dagli uomini.

From out of a snowy, barren landscape, a man appears. He's running, though from what we do not know. The valley ahead holds a large town, modern in convenience but ancient in design. Just before reaching the town, the man (Kosmos) hears the screams of a girl (Neptun) from the other side of an icy river. Neptun's younger brother has fallen into the swift waters and drowned. Kosmos pulls the boy from the river and revives him with his mysterious, healing powers. Grateful for this heroic feat, the townspeople welcome Kosmos as an honored guest…
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giovedì 15 maggio 2014

Locke - Steven Knight

per una parte del film ho chiuso gli occhi e ho provato a vederlo come se fosse cinema alla radio, e funziona benissimo anche così.
Tom Hardy è molto bravo, è l'unico interprete del film di cui si veda la faccia, ed è davvero convincente, nel suo tormento morale, nel dover fare tanti conti e svolgerli onestamente, in un'ansia di verità e di giustizia. 
è uno che non lascia, che non fugge, che (sop)porta il peso della responsabilità, che cerca di conciliare quello che sembra impossibile.
dopo un po' si scopre come alla base ci sia il bisogno di riscattare un'ingiustizia subita e di non ripeterla, qualunque sia il prezzo, i conti con la propria coscienza e col passato hanno prezzi alti.
da non perdere, non ve ne pentirete - Ismaele





Locke ci impartisce una straordinaria lezione di vita, quella di uomo “normale”, con passioni semplici, senza pose intellettuali, che commette un errore. Nulla di più comune e semplice. Ma Ivan Locke fa qualcosa di eroico che lo distingue da molti suoi simili: mostra lucida onestà intellettuale e morale. Per dirla con Kant: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.  Le conseguenze non contano, perché quelle della menzogna e dell’inganno sarebbero certamente peggiori. Locke non mente nemmeno al suo datore di lavoro che quasi lo implora “ma perché non hai detto che eri malato, non avresti perso il posto…”. Ma la risposta è disarmante: “perché non è vero, io non sto male”. Perché non è vero. E se non è vero non si dice. Semplice.
Un film a suo modo straordinario, una sceneggiatura di ferro dove i personaggi e gli eventi emergono poco a poco a chiarire un quadro inizialmente oscuro, un one man show di Tom Hardy che si rivela un interprete straordinario, capace di reggere un film, una posizione, un’inquadratura per novanta minuti, coadiuvato da voci, visioni e fantasmi…

il film poggia interamente sulle spalle dell’ottimo Tom Hardy, che sarebbe quasi certamente stato premiato con la Coppa Volpi se la pellicola fosse stata in concorso. La riuscita della sua interpretazione non può però prescindere dalla bravura di Knight nel girargli attorno senza mai stancare e soprattutto di costruire un personaggio convincentissimo grazie a dialoghi chiari e non banali, con l’unico difetto del modo in cui è affrontato il rapporto tra Locke e suo padre. Nelle sale passerà sicuramente inosservato, ma Locke conferma appieno il talento di un autore che ci saprà senz’altro regalare altre perle, in futuro.

A riscattare, però, Locke da una natura puramente letteraria (viene alla mente un altro portentoso viaggio in macchina su carta, "Wyoming", firmato da Barry Gifford) è la performance di Tom Hardy, per la prima volta spogliato delle maschere che l'hanno imposto all'attenzione internazionale e messo alla prova nei panni di un uomo medio, dall'aspetto medio, nell'attimo della sua esistenza che fa la differenza. Nel modo in cui Hardy increspa le onde del testo, suscitando tanto l'ironica commedia quanto l'umana tragedia, con poche battute e il proprio volto come unici strumenti, si conferma il bravo attore, ma nella scelta di adottare esclusivamente i toni bassi, impedendosi l'appiglio anche solo una volta alla scena urlata o al sussurro autocommiseratorio, sta il contributo d'eccezione…

No hace mucho comentaba Javier Marías en uno de sus artículos (Juro no decir nunca la verdad) el firme propósito que se autoimpuso su padre de no mentir bajo ninguna circunstancia. El propio escritor desconoce si el Sr. Marías —fallecido en 2005— cumplió rigurosamente su promesa hasta el final de sus días, lo que está claro es que semejante iniciativa parece cuando menos improbable en estos tiempos que corren, donde el embuste es el dialecto más hablado y extendido del siglo XXI y se busca la cooperación ciudadana para un “entendimiento” mutuo basado en la distorsión de la realidad. De esta manera, las personas —con este arraigado y dudoso sentido de la franqueza— sienten la necesidad imperiosa tanto de mentir, como de ser mentidas, buscando la adulación falaz y llegando a considerar, en ocasiones, la verdad como una falta no sólo de discreción, sino también de educación. Locke, que toma el nombre de su único protagonista (físico), Ivan Locke, muestra precisamente un hombre que se ha propuesto, aunque sea exclusivamente por una noche, incurrir en este desconsiderado comportamiento con el objetivo de redimirse por un fallo —único— que cometió y mantiene atormentada su conciencia…

E' facile entrare in sintonia con un personaggio come Ivan Locke. Ne vieni subito rapito per questa sua spiccata rettitudine morale che viene resa in maniera straordinaria da una delle migliori interpretazioni di Tom Hardy, lontano dalle fisicità di Bronson o Warrior. Stretto nell'abitacolo Hardy mette a nudo il suo personaggio, ci fa scoprire gradualmente i lati della sua personalità con un'interpretazione misuratissima senza gigionerie inutili…
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