domenica 16 settembre 2018

Sulla mia pelle - Alessio Cremonini

Alessandro Borghi è Stefano Cucchi, 
il film segue Stefano, per paura o per orgoglio non dice quello che è successo.
in una settimana lo lasciano morire, sembra che nessuno capisca quello che sta succedendo.
come alla scuola Diaz e a Bolzaneto, ma non solo, fra i tutori dell'ordine, fra chi deve proteggere tutti,  ci sono assassini, sadici, e delinquenti violenti oltre ogni dire.
Alessandro Borghi si spegne come una candela, nell'indifferenza di tutti, non è un film urlato, anzi, spesso è solo sussurrato, le immagini parlano da sole. 
il film non è perfetto, ma è necessario.
nonostante Netflix, buona visione al cinema - Ismaele



ps: nel 2015 Costanza Quatriglio gira un film (che si può vedere QUIsull'omicidio di Francesco Mastrogiovanni (qui e qui, per chi non si ricorda), che viene lasciato morire, come Stefano Cucchi.






E tra i molti carnefici di questa orribile storia italiana uno è sicuro oltre ogni ragionevole dubbio: la burocrazia. Ottusa, feroce, letteralistica, disumana. Burocrazia che impedisce ai familiari di vedere Stefano già quasi agonizzante: i genitori apprenderanno della sua morte solo quando si sentiranno chiedere da un carabiniere l’autorizzazione per l’autopsia. In questo dramma della disumanità, ma più ancora dell’indifferenza e del cinismo, sono stati molti i responsabili, non solo i picchiatori. Il film non è così piattamente veterotelevisivo come qualcuno tra i corridoi e le scale dl festival di Venezia, dov’è stato presentato a Orizzonti, l’ha subito bollato. Alessio Cremonini getta sulla tristissima storia uno sguardo che prima che denunciante è di partecipazione e dolore, e privo di ogni voyeurismo e sospetto di sensazionalismo. Imprimendo al racconto un andamento meditativo, perfino solenne, che fa tornare alla mente il Pasolini di Accattone e ancora di più di Mamma Roma (soprattutto il finale). Ed è il secondo film romano che nel giro di pochi mesi mi fa ricordare quel Pasolini, l’altro era La terra dell’abbastanza dei gemelli D’Innocenzo. Come in La terra dell’abbastanza anche qui c’è come padre disorientato e travolto dagli eventi un misurato e dolente Max Tortora. Jasmine Trinca è la sorella, colei che dopo la morte di Stefano solleverà il caso e lo imporrà all’attenzione dei media. E c’è Alessandro Borghi, impressionante per mimetismo, non tanto e non solo per l’aderenza fisica, ma per come replica il malessere del suo personaggio di tagliato fuori, e ormai morto tra i vivi, con la voce, la postura, il linguaggio del corpo. Un corpo da martire da pittura seicentesca.

Impossibilitato a incontrare i suoi genitori o anche solo a parlare con l’avvocato, Stefano d’altronde trova conforto solo in brevi dialoghi con altri detenuti, comunicando magari anche da una cella all’altra. Ed è a loro che confessa la verità sul pestaggio, è solo con loro che trova un terreno di condivisione e di empatia. E ciò connota ulteriormente Sulla mia pelle come un film umanista, molto riuscito quando si concentra proprio sul dolore di Cucchi, un po’ meno in alcune sequenze in cui mostra i genitori e la sorella, dove la regia appare un po’ troppo scolastica. Ben più espressive sono invece quelle inquadrature che mostrano Cucchi a letto, come dei quadri di morte e disperazione che possono lontanamente ricordare una rappresentazione cristologica tra Pasolini e il Mantegna. E Alessandro Borghi nel ruolo del protagonista si dona totalmente…

…Un film del genere, oggi, non sarebbe stato possibile senza che ci fosse stata prima la cruda e furiosa violenza mostrata in Diaz di Daniele Vicari, come forse sarebbe stato più difficile avere casi come quello di Stefano Cucchi se non ci fossero stati prima i massacri della scuola Diaz e di Bolzaneto, e l’impunità che ne è seguita. Dove la legge e la giustizia non sembrano riuscire a dare una risposta, il cinema ha ancora il coraggio e il dovere di intervenire, per mostrare ciò che vorrebbe essere tenuto nascosto. Se quello di Vicari era quasi un horror, quello di Cremonini è un dramma oscuro e silenzioso, senza grandi pianti o urla, che si consuma in disparte.
Anzi, se c’è una parola d’ordine in Sulla mia pelle, questa è “disinteresse”. Il disinteresse di praticamente tutti i personaggi che Stefano Cucchi incontra nella sua Passione e che sembrano ignorare i segni sul suo volto, o almeno non concepire chi possa averglieli fatti. Dal carabiniere che lo vede tumefatto, capisce, ma preferire stare zitto, ai poliziotti della Penitenziaria, interessati solo a che non passi per colpa loro. Dai medici, che preferiscono lasciar perdere invece di capire la situazione, al giudice, che lo condanna senza nemmeno guardarlo in faccia. Dall’avvocato d’ufficio, che gli sta faccia a faccia senza nemmeno accorgersi degli ematomi, fino al carabiniere che ne notifica la morte alla madre e subito dopo le chiede la firma sui documenti dell’autopsia. Tutti mossi da un unico pensiero: non è un mio problema. Un mondo completamente disumanizzato, stretto nella morsa di una malsana burocrazia – la stessa che impedisce ai genitori di Stefano di andarlo a trovare in carcere – in cui un ingranaggio si è stortato, e una persona a caso ci è rimasta schiacciata dentro.

…Cremonini non fa di Stefano un santo, tantomeno un martire ma, con lucidità e senso della misura, percorre le tappe del suo tormento che, giorno dopo giorno, lacera la pelle di un corpo già fragile e provato. Non vi è, né vi può essere, alcuna lettura “cristologica” in questa tribolazione (alla domanda “Sei credente?”, Stefano risponde con un amaro “So’ sperante”) andata ben oltre il “semplice” fatto di cronaca (anche se, disgraziatamente, non l’unico) per diventare lo scellerato esempio di quelle spaventose crepe che si aprono su un apparato di giustizia che dovrebbe garantire, ad ogni soggetto che le si affida, la tutela scevra dal pregiudizio ma anche quella pietas, non nel senso religioso del termine, intesa come espressione etica dei doveri che gli uomini hanno verso gli uomini.
Se, a causa della condotta di alcuni, si commette l’errore di generalizzare colpevolizzando un’intera categoria è altrettanto dannoso non accorgersi del modo in cui certi individui disonorano la divisa che indossano commettendo azioni che, in rapporto ad essa, hanno lo sfrontato ardire di legittimare. Per questo Sulla mia pelle non giudica, né condanna ma racconta, alla luce plumbea dello svolgimento dei fatti, il decesso in carcere numero 148 dell’anno 2009, una cifra impressionante (che solo due mesi dopo salirà a 176) tanto quanto il “trattamento” al quale Cucchi è stato sottoposto.
Un film duro ma necessario in cui la disperazione è un grido sordo, senza catarsi, né poesia. E le parole non bastano o, forse, non ci sono perché, come scriveva Seneca, “il grande dolore è muto”.

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