lunedì 17 settembre 2018

Un affare di famiglia - Hirokazu Koreeda

Hirokazu Koreeda continua a fare film con al centro la famiglia, o quello che sembra esserlo, e a volte anche meglio.
nella casa dei ladri tutto funziona, a suo modo, ciascuno riceve le attenzioni di cui ha bisogno.
grandi e bambini vivono insieme, fuori dalla legge, certo, ma felici, alla loro maniera.
quando vengono scoperti sorprende la superficialità e la freddezza della burocrazia, tutto il mondo è paese.
le cose durano poco, bisogna essere felici, per quel poco che può durare.
che cosa impossibile definire una famiglia, quella vecchia sembra morta, la nuova è in culla.
gran film, non perdetevelo - Ismaele




Il titolo originale Manbiki kazoku tradotto letteralmente significa famiglia di taccheggiatori. Un affare di famiglia è un film che sussurra, è fatto di dettagli, attimi, sguardi e sorrisi. C’è un’amoralità di fondo nel comportamento dei 4 adulti, ognuno di loro ha segreti. Di sicuro insegnare a due bambini a rubare, negandogli la scuola “solo i bimbi che non possono studiare a casa vanno a scuola”, scalza in secondo piano tutti gli altri misfatti e occultamenti.
La nitida quanto disinvolta regia si prende tutto il tempo necessario per far riflettere sui rapporti sociali e di famiglia, dinamiche che, analizzate, divengono paradossali (Juri è sì salvata da una situazione di abusi famigliari e benché ora sia amata e felice, pur rubando, è comunque stata rapita!), sul profondo e straziante concetto di padre e di madre (se non partorisci non puoi essere madre?).
Ma Kore’eda critica anche la società lavorativa giapponese; attraverso il lavoro di Nobuyo parla dell’iniziativa della “condivisione”: fondamentalmente, ai lavoratori viene chiesto di alternare turni di mezza giornata in modo che vengano pagati di meno. Il risultato è, secondo le parole di Osamu, “tutti diventano un po ‘più poveri di giorno in giorno”. Kore-eda ha dichiarato in un’intervista che l’ispirazione per questo film giunge da notizie su come i famigliari imbrogliano, abusano e talvolta addirittura si uccidono a vicenda, spingendolo a chiedersi se le famiglie in Giappone (dove il ricorso al furto è raro e particolarmente vergognoso) sono ora legati da crimini piuttosto che dall’amore.
da qui

tutto ciò che il mondo lì fuori condensa come esperienza contingente diventa elaborazione sentimentale all’interno di quello spazio. E la vita scorre. Sino a quando Osamu trova per caso la piccola Yuri, una bambina fuggita dai violenti genitori e rannicchiata in un angolo di strada: il gruppo la accoglie, la cura, la coccola, diventando in pochi giorni una nuova sorellina. Insomma: un po’ per caso, un po’ per scelta, queste persone segnate da un doloroso passato si sono riconosciute assegnandosi dei ruoli e dei compiti al di là di ogni regola civile e di ogni convenzione sociale…

E' una famiglia di "taccheggiatori": così va tradotto il titolo internazionale "Shoplifters", che espunge l'altro termine presente nel titolo giapponese, il quale per esteso dovrebbe suonare "famiglia di taccheggiatori" (edulcorato nel titolo scelto dai distributori italiani). Sono, in effetti, dei ladri. Vivono di espedienti, ai margini o fuori dalla legalità. Dei fuorilegge, dunque. Non solo per il modo in cui si procurano il cibo (a proposito: si mangia spesso e di gusto). Anche dal punto di vista sociale, questa "famiglia" si colloca in condizioni di consapevole clandestinità rispetto al consesso civile. Così come il regista indica chiaramente i limiti morali del microcosmo che descrive (a più riprese ad esempio pone l'accento sull'equivocità di educare dei bambini al furto), non disdegna neppure tocchi di ironia, nel tratteggiare gli stessi limiti morali: come quando si sofferma sul disappunto della "nonna" che, contati dei soldi che le son stati elargiti, manifesta disappunto trattandosi di una cifra per lei troppo bassa…

“I figli devono crescere con le mamme” asserisce l’assistente sociale che sta interrogando Hatsue, fermata per sequestro di minore e forse anche per omicidio – la nonna-che-nonna-non-è è stata sepolta in giardino nel tentativo disperato di mantenere il segreto e non far trapelare la verità. La donna risponde, con un triste sarcasmo “È proprio quello che vogliono credere le mamme”. Qui, come nel paradosso di aver tolto una bambina a due genitori amorosi solo perché finti per restituirla ai legittimi padre e madre che la picchiano e la snobbano, risiede il vero centro del discorso di Kore-eda, e l’acme tragico di un film che racconta una società impossibile da redimere, e incapace di scorgere l’umano al di là del legale. Esistono affetti che maturano al di là di ogni ragionevolezza, o senso, ma il consesso civile non lo tollererà mai. Forse mai, neanche nello sguardo tutto infantile – e costretto alla distruzione – del miracoloso Nobody Knows, Kore-eda si era dimostrato così disperato, tragico, privo di qualsivoglia speranza. Una tragedia che è, per quel che riguarda l’interpretazione del concetto di famiglia, parte integrante dell’intera storia del Giappone, e non è un caso che il pin del bancomat della nonnina sia 1192, in riferimento all’anno in cui Minamoto no Yorimoto ricevette il titolo di shōgun e fondò il primo bakufu. Se c’è felicità è solo nell’instabilità effimera, come i fuochi d’artificio che illuminano una notte su Tokyo, dalle parti del fiume Sumida. Per il resto si può tornare alla vita di tutti i giorni, ma non si avrà il coraggio di salutare come ‘papà’ colui che si ritiene l’unico e vero padre. Oppure ci si fermerà con lo sguardo nel vuoto, come la piccola Rin abbandonata di nuovo a se stessa, agognando forse di essere salvata un’altra volta. Sognando di avere di nuovo una famiglia.

chi siamo noi per giudicare? Per giudicare, intendo, una famiglia che cresce sì come ladri i suoi virgulti però garantendo loro una protezione dagli orrori del mondo là fuori? Si resta avvinti a questo mirabile racconto che, con precisione geometrica e massima sobrietà e pulizia di stile, pone l’eterna ma sempre cruciale questione: chi sono i veri genitori? E quanto contano i legami di sangue? Quanto si può eluderli? Kore-eda aveva già affrontato la questione in Like Father, Like Son lanciato qualche anno fa sempre a Cannes, ricevendo anche un premio dalla giuria presieduta da Steven Spielberg: neonati scambiati nella culla e allevati nelle famiglie sbagliate. Ma davvero sbagliate? Come allora, anche adesso il regista non offre risposte, pone solo domande. E le ultime scene, così pudicamente strazianti e nipponicamente misurate, non fanno che porci altre domande e altre ancora. Un film semplice e terso, che è puro Kore-eda e ne conferma la statura di maestro. Sacrosanta Palma d’oro.

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