sabato 11 febbraio 2017

El club - Pablo Larraín

intanto è da tenere d'occhio lo sceneggiatore Guillermo Calderón, ha lavorato a pochi film, ma tutti di altissimo livello.
El club dicono che sia un film di denuncia contro i preti pedofili, ma molto aldilà di questo.
con una sceneggiatura formidabile Pablo Larraín ci regala un film che è una sorpresa continua, imprevedibile, preti che muoiono all'improvviso, preti che si appassionano alle corse dei cani e ne allevano uno, una suora che fa da madre superiora a uno stano appartamento-convento di reietti, mandati laggiù, in una villetta davanti all'oceano, in un villaggio anonimo, dimenticati dal mondo e da Dio, ma non dai rappresentanti di Dio in terra.
i preti devono espiare una colpa, niente galera, solo l'esilio.
finché non appare Sandokan. e tutto il tran tran quotidiano viene sconvolto.
come affrontare il problema nessuno lo sa, ma l'inviato gesuita ha un'idea incredibile, geniale e (de)stabilizzante, che crea un equilibrio diverso, non sapremo fino a quando, magari per sempre.
attori in stato di grazia, fotografia livida e grigia, dialoghi necessari, e non di più, per un film bello e terribile, di quelli che resteranno nella storia del Cinema.
impossibile raccontarlo, cercatelo e soffritene/godetene tutti - Ismaele






…Película dura, durísima, explícita en el relato verbal de las perversiones de que son autores los curas y sobre el «cambalache» que se ha montado para sacar de la circulación a ese puñado de criminales. Pablo Larraín, el excelente director de Tony Manero (2008) y No (2012), crea una atmósfera realmente tenebrosa. Un cartel, al inicio, del film cita textualmente al Génesis: «Dios separó al principio la luz de la oscuridad». Pues bien, en transcurso del film no saldremos del reino de las tinieblas. La mortecina lumbre del sol austral apenas alcanza a esclarecer unas vidas en sombras, unos rostros que fluctúan entre la memoria de sus vicios y la culpa latente de sus desvaríos cuando no dan lugar a torticeras justificaciones de sus brutalidades. Impresiona la excelente fotografía de esa luminosidad difusa. Es una atmósfera lúgubre que tiñe todos los diálogos y escenas de este terrible pero magistral film, tonalidades que nos recuerdan obras del cine nórdico y que también son frías cuando no heladoras en sus historias.

Larraín ci regala il suggello geniale, perché, usando un particolare obiettivo russo già utilizzato a suo tempo da Tarkovskij, fa debordare l’immagine dal suo contorno, riprendendo in controluce e facendo scontrare luce e buio in un orizzonte indistinto, dove non è mai davvero giorno e mai davvero notte e si fatica a mettere a fuoco l’oggetto della visione. E chi ragiona sulla natura stessa del mezzo e lo deforma e trasforma per farlo rivivere in prospettive inusitate – lo sguardo con cui si assiste a Il Club è simile al concetto di “voler vedere le cose per la prima volta” di cui parlava un tempo Wenders – merita davvero di rientrare tra i grandi della storia del cinema.

El club è un lavoro di grande bellezza e solidità, che oltre a reggersi su una sceneggiatura e su una regia eleganti, può contare su un gruppo di attori la cui forza si esprime sia nella chimica d’insieme sia nelle singole interpretazioni. Anche questa volta, il regista cileno affida al suo attore di punta Alfredo Castro la parte di un uomo complicato, dalla storia e dalla psiche labirintiche. Insieme a lui ritroviamo anche Antonia Zegers, anch’essa presente in tutti i lavori precedenti di Larraín e Roberto Farías, già apprezzato in No – I giorni dell’arcobaleno, nel ruolo di Sandokan, un vagabondo che scompagina gli equilibri del club destabilizzando allo stesso tempo anche le coordinate interpretative con cui lo spettatore si aspetterebbe di poter interpretare il suo personaggio di vittima di abusi.

da Santiago verrà mandato un ispettore, un giovane prete, un gesuita aspro, disincantato, affilato, e bello, con l’incarico di indagare sul quel covo di serpi e, se necessario, di bonificarlo e chiuderlo. Di eliminare quella cellula impazzita dal corpo della Chiesa. Sottoponendo tutti a un interrogatorio, molto apprenderà, ma molto gli resterà oscuro. Il gruppo cercherà di difendersi, di depistare. Ci saranno sviluppi da vero noir, in un crescendo che sfocerà in un finale spiazzante. Tutto nel clima livido e malato cui Larrain ci ha abituato con Tony Manero e Post Mortem (No è un’altra cosa). Confermando di essere un autore unico, assai personale, capace di prendere i materiali bruti dalla cronaca e dalla storia per trasformarli – ed è soprattutto il caso di El Club – in storie infernali e claustrofobiche, in cupi rituali controriformistici. Ballate barocche e insieme glaciali di morte. Danze di spettri. Con in El Club (almeno) una sequenza che ci lascia tramortiti, la confessione dell’uomo violentato da bambino dai preti il quale descrive quello che la sua mente infantile aveva elaborato. Un delirio in cui sesso e sacro, violenza e estasi si mescolano in un groviglio inestricabile. Ecco, son cose come queste a farci capire di che statura sia Larrain. Basti paragonare El Club a un film sullo stesso tema di qualche anno fa come Il dubbio per capire la distanza siderale. E please, diamoglielo un premio. Si rivedono gli attori feticcio del regista cileno, Alfredo Castro e Antonia Zegers.

Portato dall’esterno e attento a non carbonizzare simbolicamente una materia già intrinsecamente incendiaria, lo sguardo di Larraín configura un microcosmo spaziale che riformula grottescamente e causticamente la retorica visiva dei reality show (non sembri fortuita la concomitanza della prima materializzazione di Sandokan con la visione del reality trasmesso dalla Televisión Nacional, così come la minaccia di Madre Monica a Padre García di chiamare la televisione nell’eventualità della chiusura della casa). Ma questa volta il Grande Fratello è nientemeno che Dio, l’onnisciente e onnipotente regista dello spettacolo che si svolge all’interno casa, spettacolo in cui i religiosi non sono altro che marionette, pupazzi eterodiretti, infantili e inconsapevoli agenti della sua volontà (“Dio è l’unico che sa. Lui sa. Noi siamo bambini, per questo non capiamo. Ma Lui è il Padre. Ed è il solo a sapere”, sussurra Madre Monica al singhiozzante Padre Vidal, disperato per la soppressione di Fulmine). Confessionali, dinamiche di alleanza e cospirazione, ostilità strisciante, sessualità vigilata ed esacerbata, sorveglianza permanente, ferree regole di condotta, infrazioni segrete, pasti collettivi nei quali si consumano chiassosi litigi: il repertorio narrativo e spettacolare del reality tintinna crudele in tutta la sua vitrea e narcotica trasparenza: “Todo modo para buscar la voluntad divina”.

…La visione apparecchiata da Larrain è schietta, fuor di metafora,  l’occhio resta fisso sul paesaggio dei volti e la tensione dei lineamenti, la pietà scolora in ironia, il cinismo attizza la suspense. Cinico, che in greco significa canino, proprio del cane, il levriero appunto, ennesima vittima sacrificale, innocente perché nei testi sacri dell’universo mondo si immolano innocenti, gli innocenti sono proprio un succulento pallino per gli dei, innocenti come l’orchetto verboso con la sindrome di Tourette, mandato alla mattanza  per mano dei fedeli catechizzati a dovere. Potrebbe finire tutto a schifìo, come un film danese, come un film di Vinterberg, invece questo è un film cileno, ed è di Larrain, la beffa ai perdonisti deve essere grandiosa, universale, serve quindi un nuovo equilibrio, un nuovo status quo, dove vittime e carnefici vivano insieme, dentro quattro mura accoglienti, lontano dal mondo e dal clamore dei media, tra tentazioni e psicofarmaci. Parola del Signore…

In un finale di perfezione assoluta lo psicologo va via.
Lascia ai lupi un agnello sacrificale, una tentazione, un lascito che porterà per forza a qualcosa.
Se i lupi mangeranno l'agnello saranno condannati per sempre.
Se lo lasceranno vivere e lo accudiranno, forse, la via verso la redenzione e il pentimento sarà finalmente intrapresa.
Ma come in una storia che parlava di una rana ed uno scorpione la sensazione è che la propria natura, alla fine, viene sempre fuori.
E un lupo è un lupo.
E non basta una suadente voce femminile, non basta un canto, non bastano parole di amore e pietà per togliergli dal naso l'odore della preda.

El buen rendimiento de un perro de carreras requiere un entrenamiento de disciplina inquebrantable. Palo y zanahoria. Así lo testimonian las escenas de El club en las que el padre Vidal ejercita a su galgo a base de hacerle perseguir sin descanso un reclamo atado al extremo de una vara. El cánido se emplea a fondo dando interminables vueltas en círculo alrededor del religioso, obcecado en atrapar de una dentellada el premio que nunca dejará de escapársele. Al servicio de un amo ambiguo entre lo amoroso en su relación con el animal y lo abusador en su forma de utilizarlo para su propio beneficio en el canódromo. Ahora bien, imaginen por un momento que ese perro deja de comportarse como un perro y se rebela contra el amo. Renuncia a su adiestramiento ciego y, quemado por años de abuso, se convierte en una mala bestia. Un ser de planta salvaje que parece dispuesto a soltar el mordisco rabioso en cualquier instante. El perro difícilmente terminará en eso, porque, como ya contó Bresson en El azar de Baltasar, se puede buscar en los animales domesticables una especie de santidad que los dispone a aguantar estoicamente los golpes. A asumir sin rechistar su condición de criaturas a merced de la mezquindad y la violencia humana y cerrar su existencia cuando es más útil acabar con ellos que aprovecharse de sus servicios. Pero si ahora hacen el esfuerzo de imaginar a un colega de profesión del padre Vidal que aplicó la estrategia del palo y la zanahoria con un monaguillo en lugar de con un galgo (y con intenciones más sórdidas), entenderán cuál es el cogollo de la nueva película de Pablo Larraín. La bestia humana (de la que cuesta imaginar que un día fue un niño inmaculado) que vuelve para pedir cuentas al causante de su condición degenerada. Al cura que le obligaba a dar vueltas en círculo en pos de una santidad quimérica atada a lo alto de un palo, siempre al son de la misma melodía: «Métetela en la boca. Trágate sus fluidos. No es pecado si son fluidos santificados por Dios»…

La scabrosità da cui deriva l’enorme questione morale posta dal film non risiede nell’oggettività delle immagini, ma nella soggettività di discorsi che possono portare, alternativamente, l’essenza di verità irriferibili o la menzogna continua dell’auto-assoluzione. Ad essere messo in pesante discussione non è la tendenza dell’essere umano a commettere peccato, incontrovertibile e per questo trattata dal cineasta cileno persino con l’amarissima ironia scaturita da una consapevolezza intangibile, ma le sovrastrutture che dovrebbero controllare l’operato degli uomini e alle quali essi dovrebbero rispondere dei proprio errori. O, meglio, orrori. Sbaglierebbe infatti in maniera grossolana chi vedesse ne Il Club solo un lungometraggio visceralmente anticlericale: l’obiettivo di Larraín è in realtà assai più alto, riguardando in generale ogni forma degenerata di potere temporale. Dalle mostruosità generate dalla dittatura di Pinochet – esaminate con spaventosa capacità riflessiva e differenti sfumature nel trittico comprendente Tony Manero (2008), Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno (2012) – alle atrocità della pedofilia in ambito cattolico, c’è un filo rosso evidente a collegare il tutto. E questo trait d’union si chiama degenerazione del Potere. Lo stesso che prevede, come per insopprimibile istinto, la prevaricazione del teoricamente forte sull’apparentemente debole…

…El mayor acierto de El club es su capacidad para incomodar, no solo a los que se puedan sentir partícipes o compañeros de estos personajes, sino también a cualquier persona que alcance a asimilar la auténtica gravedad de lo aquí reseñado. Nunca había sonado el canto religioso ¡Perdón, oh Dios mío! de forma tan perturbadora. Sin pelos en la lengua, el director chileno firma su apoteosis cinematográfica, que contiene el estilo ácido e hiriente, de espíritu combativo, que nunca decepciona en el cineasta. Con todo, lo más fascinante de este film no es lo tremendamente escalofriante que es (que lo es), sino cómo entrará por las retinas de los espectadores. Cuál será la reacción ante lo infrahumano. Si se preguntarán ¿por qué? y cómo recibirán que el film conteste con el más inquietante silencio.




2 commenti:

  1. E' incredibile la regolarità con cui Larraìn ultimamente riesce a girare capolavori assoluti... questo, insieme a Neruda e Jackie raggiunge vette altissime di un cinema (forse) per pochi ma di sublime bellezza.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. da noi sarebbe ancora una giovane promessa, intanto è uno dei più grandi al mondo, senza essere mai prevedibile, come Denis Villeneuve, pur avendo entrambi iniziato a girare con i dollari Usa

      Elimina