venerdì 20 gennaio 2017

Arrival – Denis Villeneuve

inizia come District 9, alcune astronavi appaiono, senza nessun preavviso.
si scatena il panico, e ci sono le due opzioni, distruggerle o cercare un contatto; miracolosamente prevale la seconda, ma non per troppo tempo, il mondo decide di fargli la guerra, ma succede qualcosa di straordinario (che non dico, naturalmente).
Denis Villeneuve sembra cadere in citazionismo (penso a Malick, tra gli altri) ma è una paura infondata, è troppo bravo e capace per fare il suo cinema.
nella storia il tempo non è quello cronologico, riesce anche ad essere circolare, come comunicano gli alieni.
l'istinto è eliminare quello che non si capisce, o che è troppo diverso da noi, che potrebbe minare le certezze acquisite nel tempo.
la storiella del canguro è proprio un aneddoto sulla comunicazione.
per quanto il film potrebbe sembrarvi strano vi piacerà, non serve capire tutto e subito, contano le sensazioni che il film lascia, e certi momenti sono emozionanti ed entusiasmanti.
per questo non perdetevi questo film, non è fantascienza (lo dico per quelli che la fantascienza la aborriscono, e neanche sanno perché), è "solo" grande cinema, e basta. 
e qui finisce la recensione, solo la prima parte però.
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è che mi torna in mente la fine di Enemy.
un essere enorme copre anche i palazzi, la città intera, un ragno pare, qualcosa di opprimente.
gli "alieni" del film mi sembrano "parenti" di quell'enorme ragno, ma al contrario, non per opprimere ma per liberare.
e se quegli "alieni" non fossero altro che una creazione dell'inconscio collettivo (nel senso di Jung, credo) di milioni di persone disperate, vinte, arrese, ma non del tutto.
e se gli "alieni" fossero lo strumento per ricominciare a vivere una vita che ne valga la pena?
e se Louise fosse il tramite fra la triste realtà e la possibilità di ricominciare? - Ismaele








...Amerete Arrival in qualsiasi caso perché è un film universale, un gigantesco gioco di specchi fatto per piacere agli appassionati di fantascienza – che accetteranno senza battere ciglio un paio di soluzioni poco ortodosse in cambio di un’ora e quaranta di xenolinguistica –, a quelli che nel cinema cercano il sempre imprescindibile Elemento Umano – che vengono introdotti a due ore di xenolinguistica dal più classico dei melodrammi familiari, con la promessa di ritornarci –, a quelli che vanno al cinema perché lo schermo è grosso e la sua ragione di esistere è ospitare strutture volanti altrettanto enormi, agli esteti, ai cinefili, a chi è cresciuto con gli Urania e a chi è cresciuto con Spielberg.

Arrival è un film affascinante e coinvolgente che si dipana lungo due piani temporali distinti ma che si confondono senza che ce ne accorgiamo. Si potrebbe pensare a un Villeneuve in fase spielberghiana. Niente di più sbagliato...
...Così come qualcuno potrebbe criticare il regista di La donna che canta di aver cercato di emulare Christopher Nolan. Errore. Villeneuve è un regista con una sua visione e una sua idea di cinema ben precisa e Arrival ne è l’ennesima dimostrazione. Attraverso una colonna sonora potentissima e un immaginario fantascientifico originale ed estremamente realistico, Arrival ci fa sprofondare in un viaggio dell’inconscio che, attraverso la metabolizzazione dell’amore e una traslitterazione dei sentimenti, ci dice cose nuove sul cinema e su noi stessi. Non è un film facile, Arrival, ma con l’aiuto dei codici del genere e il ritmo sostenuto che sa infondergli Villeneuve arriva al cuore e alla mente anche di coloro che pensano di aver perso per strada alcuni pezzi.
da qui

Villeneuve, nonostante l’oscurità del plot, vero punto di fragilità dell’operazione, ce la fa a condurre in porto un fantascientico colossale come esige il mercato senza scadere nella giocattoleria, e invece attenendosi a quel filone nobile e glorioso della sci-fi umanistica che ormai sembrava eclissato dalle mostrerie varie con uso e abuso di CGI e quant’altro. Rispetto alle figurine piatte e bidimensionali, da graphic novel prontamente riporodotta su grande schermo con la stessa mancanza di profondità, dei vari reboot di Star Wars e Star Trek e dei pur rispettabili supereroistici Marvel, Arrival più che raccontare di alieni va a scavare nelle nostre alienazioni, nella gente che sta da questa parte del cosmo, mostrandone corpi e menti dove stanno incapsulati ricordi angosciosi. Quella fantascienza che abbiamo conosciuto e amato tra anni Sessanta e Settanta, da Kubrick fino al meraviglioso Tarkowski di Solaris cui questo Arrival qua e là somiglia, e di Stalker
da qui

Amy Adams è la scelta perfetta, ha una gamma di espressività vasta e ed è capace di sovrapporre la tensione della paura, alla tensione dell’eccitazione, la voglia di andare avanti con il timore che ci spinge indietro. Tuttavia non basta la bravura. Solo qualche anno fa il ruolo protagonista, quello quello dello scienziato che lotta con i militari per capire l’altro, sarebbe stato affidato ad un uomo. Sarebbe stata una parte buona per Dustin Hoffman, Richard Dreyfuss o Jeff Goldblum a seconda delle annate, e del resto non è diverso da quello di Matthew McConaughey in Interstellar, eppure qui va ad una donna, che lotta contro i maschi per imporre la propria volontà come fa Jessica Chastain in Zero Dark Thirty.
Non è poco, in un film in cui bisogna capire gli alieni che ci sia una donna al centro di tutto che cerca di imporsi. Non è normale e non è usuale. Nelle mani di Villeneuve poi, è anche molto bello.


Dopo pochi minuti, gli ingranaggi di una sceneggiatura non perfettamente oliata iniziano a stridere: se la cinematografia statunitense nella sua declinazione più smaccatamente hollywoodiana ci ha abituati a spiegazioni frettolose, dialoghi esplicativi e didascalici per non far perdere lo spettatore in possibili tecnicismi o passaggi elevati, in Arrival si segnalano sequenze che rasentano l'auto-parodia. Perché non può non far sorridere lo sguardo fisso e serissimo con cui il colonnello di Forest Whitaker attende una risposta dalla professoressa, dopo averle chiesto a bruciapelo cosa venisse detto in quella serie di versi e suoni che, da "Alien" al serial "Stranger Things", si susseguono indistinguibili per rappresentare l'espressione vocale extraterrestre. Ci rendiamo conto, altresì, che la semplificazione fa parte del cinema e, in particolare, di quello fabbricato a Hollywood, ma da un'opera con una simile impostazione e nemmeno troppo velate ambizioni, è lecito attendersi un trattamento che lavori più di cesello, visto che non tutto può coprire la perizia visiva del regista. Non possono essere solo casualità e bisogna mettere in conto che la sceneggiatura di Eric Heisserer, tratta da un racconto pluripremiato di Ted Chiang, "The Story of Your Life", scricchioli e ceda laddove una più forte tenuta avrebbe consentito al film un impatto più potente e una riuscita totale…
La maggiore suggestione cinefila è data da quello schermo abbagliante assimilabile a uno schermo cinematografico, così come la mano che appoggia la Banks, in attesa della reazione dell'extraterrestre, rima con una delle immagini-simbolo del bergmaniano Persona. Il regista riesce a corporeizzare lo spaesamento che si prova di fronte a un qualcosa che fino a un momento prima sembrava inimmaginabile e che, invece, si staglia maestoso davanti a noi, ed è da questo versante, quella del genuino sense of wonder spielberghiano (e che almeno nella prima parte innervava anche la super-produzione di Nolan), che il lavoro di Villeneuve trae il suo punto di forza.
E questo squilibrato, imperfetto esperimento di fantascienza è probabilmente l'opera americana più sentita del suo autore, soprattutto se confrontato ai ben più quadrati ma forse inerti thriller che l'hanno preceduto. 
L'ottavo lungometraggio del regista canadese, combinando riflessione umanista e filosofica, si focalizza su due punti solo apparentemente lontani: la comunicazione tra specie diverse e l'amore nella sua declinazione filiale. Se le suddette e fin troppo sbrigative definizioni vi fanno venire in mente il melodramma esploso di Incendies (2010) non state errando perché, per certi versi, è il film di Villeneuve che più si avvicina al cuore pulsante di "Arrival". E perché anch'esso ha come twist un'agnizione profonda che ricalibra la percezione della realtà, degli affetti e dell'esistenza, che forse vale più la pena vivere che tentare di cambiare.

2 commenti:

  1. Io, devo ammetterlo, l'ho trovato molto faticoso nella prima parte (che sviluppa - molto meno bene, a mio avviso - gli stessi concetti di "Contact" di Zemeckis). Però man mano che ci si avvicina all'epilogo indubbiamente ti "rapisce" e ti conquista, risultando perfino toccante. Film forse imperfetto, ma assolutamente da vedere.

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    1. certo, non è perfetto, come tutte le cose vive, ed è vero che parte piano e poi cresce piano piano, a livelli davvero alti, ma chi non lo vedrà mica lo saprà :)

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