domenica 8 gennaio 2017

La pelle dell’orso – Marco Segato

un film di emarginati, gente che vive ai margini, fra la natura e la civiltà, a cui può capitare di trovare un orso in casa.
guerra, galera, Pietro ne ha viste tante, ha un figlio da crescere, Domenico, quasi un estraneo per lui.
e quando una scommessa difficile può cambiare la vita, si tuffa, e Domenico lo segue. 
un film quasi senza parole, e un po' di cose importanti non vengono dette.
la natura non è solo uno sfondo, è il terreno della sfida, e l'orso è il nemico.
una lotta all'ultimo sangue, senza prigionieri.
che ne sarà di Domenico?
solo un piccolo film, semplice e onesto.
bravo Marco Paolini, a suo agio in un personaggio con un passato difficile e un futuro ignoto.
buona visione - Ismaele







Si respira in La pelle dell’orso un po’ l’atmosfera dei film di Ermanno Olmi (si pensi a un film come I recuperanti), o quella dei racconti e dei romanzi di Mario Rigoni Stern, un’atmosfera rarefatta, di una natura contemporaneamente ostile e accogliente, di adesione ad antichi e dimenticati usi e costumi, di un piccolo mondo antico insomma, che però deve avere i suoi lati oscuri e feroci, altrimenti tutto finisce per apparire inerte. Che Segato non credesse fino in fondo nel mondo che ha descritto lo dimostra in particolare la primissima parte del film, quella in cui ci deve dimostrare che Pietro si merita l’odio della comunità. In realtà ci pare che questi non faccia nulla di male, e se incappa in qualche incidente (come la scena della mina che provoca il ferimento di un altro operaio) è comunque per buona fede e non, come vogliono fargli (e farci) credere gli altri, per cattiveria. Allo stesso modo la scena che dovrebbe essere risolutiva per quanto riguarda il suo isolamento, vale a dire quella in cui viene cacciato dal bar perché molesto e ubriaco, è rappresentata in modo eccessivamente ellittico (non si vede perché lui viene cacciato), venendo dunque anch’essa data per scontata.
Va a finire perciò che, se si fa scattare male il motore primo dell’azione (proprio perché osteggiato, Pietro decide di rifarsi agli occhi dei compaesani mettendosi sulle tracce dell’orso), tutto il resto appare necessariamente depotenziato. E va a finire che, se si decide di ambientare un film negli anni Cinquanta, ci deve essere un qualche elemento atto a dimostrarlo e non che lo si debba scoprire solo dalla lettura della sinossi…

La durezza dei personaggi e dei paesaggi è ben servita da una regia che rifiuta la spettacolarizzazione senza per questo rinunciare all'accessibilità narrativa, e i volti intagliati nel legno dei protagonisti contribuiscono al racconto più delle loro parole scarne e schive. A poco a poco ognuno svelerà i propri segreti, con pudore e sollievo: perché i macigni sulla coscienza non si spaccano con la vanga, ma con la capacità di ascolto.

Il film non è il racconto di formazione del giovane Domenico: si osserva la vicenda con i suoi occhi, ma si capisce poco di lui, dei suoi sogni, perché ci si possa appassionare alla figura del ragazzino, che peraltro sembra già fin troppo “adulto” e responsabile all’inizio. Non è neppure pienamente un film d’avventura: le vicende che vedono protagonisti padre e figlio in caccia sono prevedibili, le tappe dell’avvicinamento alla preda si susseguono lineari fino allo scontro finale, senza vere emozioni e colpi di scena. Infine, non è un film su Pietro: non approfondisce ma sfiora solamente la storia di quest’uomo duro e schivo, un “orso” egli stesso. Oltre questo parallelismo c’è una storia umana che non viene esplorata, ferma restando la buona interpretazione di Paolini, che ben si adatta a un registro minimalista fatto soprattutto di sguardi ed espressività corporea.
In La pelle dell’orso, manca il coraggio di sviluppare a pieno  una di queste tracce, arricchendola di elementi per coinvolgere maggiormente lo spettatore e portare l’intero lavoro ai livelli di alcune sue parti.
…Domenico che vuol crescere, che sa sparare ma non conosce l’uccisione e le donne, che scoprirà cosa significhi esser adulto: la vera perdita, il dolore, la gioia, una profezia che si avvera nel ciclo naturale.
Pietro che si libera dei suoi fantasmi, abbattendoli, e vedendosi allo specchio, ammazzando la sua immagine, liberandosi da essa al prezzo di perdere se stesso. La libertà della sua storia che diventa viva, non un peccatore ma un marito ferito, non un carnefice, ma una vittima; il perdono e il figlio riconquistato con cui diventar padre per pochi attimi prima del divenire delle cose.
Il gioco di tre sorrisi, quello di un amante che ghigna anche da morto, quello di un padre che gioca con il proprio figlio orsetto in riva a un lago, e quello di un cacciatore, libero dal passato, finalmente senza più ombra sul viso, lo stesso volto rimasto senza parole e senza colpi qualche attimo prima. Assenza.
Domenico che finalmente è Sieff… adesso uomo, senza più nessun peso su di sé, ora comparso alla luce, tra montagne meravigliose, immutate al mutare della storia dei piccoli uomini tra le valli.
Marco Paolini, un attore, ma molto di più: un uomo che conosce le montagne che in una parte di questo personaggio rievoca quel verismo viscontiano de La Terra Trema in cui gli uomini recitano se stessi. Un personaggio e un metaruolo realista, il primo fruitore della storia prima ancora che il primo interprete.
Marco Segato, che con la sua regia espone un mondo vero, anni ’50, differente in parte da quello narrato nella storia originale di Matteo Righetto, che strizza l’occhio al genere western, richiamando la tensione mozzafiato del leggendario Sfida a White Buffalo con Charles Bronson.
La pelle dell’Orso non è un film, è un viaggio geografico e temporale, un opera 4D, in grando di trasformare gli astanti in valligiani, per 92 minuti o una manciata di battiti.

...Il film scorre meditabondo e silenzioso come un grosso fiume, come spesso sono le storie di montagna. I dialoghi sono rarefatti e schivi. Si lascia spazio ai paesaggi, ai tramonti mozzafiato ma scevri di ogni velleità cartolinesca, alla sofferenza sorda del protagonista, bestia prigioniera di se stesso, quasi tutt’uno con le rocce da cui è circondato. Paolini ci regala un’interpretazione intensa, vera, perfettamente calata in questa storia ruvida e pulita. Per spiriti riflessivi.

Se l’ambiente rimane impresso nella mente dello spettatore, lo stesso non si può dire per i due protagonisti. Domenico e Pietro sono al centro di un complesso rapporto padre e figlio e contemporaneamente di una relazione più estesa che vede l’incontro/scontro tra uomo e natura. Tali tematiche, però, non sono argomentate dalla sceneggiatura ridotta ai minimi termini: non si riesce ad empatizzare con il giovane ragazzo o con il padre perché i dialoghi non lo permettono e le pochissime scene che mostrano un confronto tra i due non lasciano molto spazio alla parola. Una scelta stilistica ben precisa e a suo modo compiuta che, tuttavia, se affiancata a una storia prevedibile in tutti i suoi sviluppi, può essere particolarmente rischiosa.

…Il Pietro che Paolini interpreta con una ruvida e laconica intensità è un personaggio che non riconosce più il suo mondo, che sente l'odore di cambiamenti ai quali non si potrà mai adeguare, che trascina il peso dei suoi errori ma tenendo sempre la schiena dritta.
Come Pietro, La pelle dell'orso è un film dalla morale profonda e radicata, e dalla grande dignità, anche nell'errore. Un film felicemente fuori moda, portatore di istanze antiche e tutte da recuperare: quelle dell'attesa, dell'ascolto, di un'avventura e di una ricerca lontani dal clamore e dall'attenzione altrui che è prima di tutto quella dentro di sé.

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