sabato 6 marzo 2021

Meek's Cutoff - Kelly Reichardt

la conquista dell'America da parte degli emigrati europei oltre le proprie inospitali frontiere verso la nuova Frontiera non fu una passeggiata.

gli indiani erano già emarginati, ma era la loro terra, e danno una mano a quella povera gente sui carri, con solo le lacrime per piangere.

erano quelli che rubavano loro le terre, quegli europei, ma non capivano, forse, che lo stavano facendo.

una traversata durissima verso l'Oregon, con le donne che prendono in mano la situazione, verso la salvezza.

un film senza vincitori, solo con molti vinti.

Kelly Reichardt è una sicurezza, si astengano i fans di Tarantino, troppo poco sangue e poco rumore, per loro, per noi tante piccole cose, sguardi, movimenti, relazioni, conflitti, per un gran film.

buona visione - Ismaele



 

 

 

Il senso di Meek's Cutoff va ricercato nella dialettica implicita dei protagonisti con gli spazi, i vuoi, i silenzi; nella lenta emersione delle figure femminili del film, che da silenziose figure dedite solo all'ascolto dei loro uomini si fanno, nel personaggio di Michelle Williams, vere protagoniste attive e coagenti; nella testarda volontà della regista di accettare e abbracciare l'ignoto. La dilatazione del tempo e dello spazio assume in questo contesto un valore da un lato sovversivo e dall'altro di accesso ad una dimensione poetica e ideologica nella quale le posizioni dei personaggi trascendono la loro evidenza: e Meek's Cutoff diviene un lucido trip metafisico, dove la mancanza di riferimenti certi costringe a ripensare e ripensarsi. Ben oltre un finale sospeso ed enigmatico che dilata il film oltre i suoi spazi fisici.

Bollato da alcuni come punitivo o noioso, Meek's Cutoff è in realtà un film di enorme fascino e di inusuale spessore, che oltre a questo ha anche il merito di "assicurare una selezione darwiniana dello spettatore", per dirla con le parole di un collega.

da qui

 

E' il 1845, sono i primi giorni dell'Oregon Trail e una carovana di tre famiglie ha assunto Stephen Meek perché li accompagni fino alle montagne di Cascade. Affermando di conoscere una scorciatoia, Meek guida il gruppo su un sentiero non tracciato, attraverso un deserto sugli altipiani. Quando un nativo americano incrocia la loro via, i pionieri si troveranno a dover decidere se riporre ancora fiducia nella loro guida oppure, affidarsi al "nemico". Firmato da una poetessa del cinema indipendente statunitense, Meek's Catoff è una singolarissima rivisitazione del mito della frontiera che ne scardina alcuni elementi costitutivi, per creare invece un West tutto al femminile, composto di silenzi e spazi vuoti.
Significativa, a tal proposito, nelle prime battute della pellicola, la lettura da parte di una coppia di coloni del brano sulla cacciata di Adamo ed Eva. Rovesciando l'immaginario di una sorta di Eden terrestre, vagheggiato dai primi pionieri che si avviavano verso le "terre promesse", armati di Bibbia, Kelly Reichardt, ispirandosi alla figura realmente esistita di un uomo che condusse una carovana di duecento carri in una zona priva di acqua, sceglie un paesaggio desertico…

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Tre coppie – ci sono Michelle Williams e Paul Dano per l’appeal commerciale, si fa per dire… – sono chiamate ad ascoltare la voce di uno che grida nel deserto: Meek, che guida senza comandi, già perduto ma pronto a perdersi e perdere nuovamente, oppure l’indiano, il nemico di sempre, quello “che non è come noi”? Dovranno scegliere, e sceglie pure il film: lo fa Meek, senza mollare le dinamiche servo-padrone – “Comanda lui”, l’indiano, si rassegnerà a dire – e lo fanno questi pellegrini per caso. Per eguale necessità e, forse, per differente, altrui virtù.  
Sono questi gli sparuti eventi, che mancano al film come l’acqua ai personaggi: mancano, ovvero sottraggono, tolgono stilemi e topoi al genere eccelso del cinema americano, il western. Scrittura cinematografica e riscrittura dell’immaginario: questo è Meek’s Cutoff, che conferma come saper eliminare l’inutile costituisca la forza del genio…

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Più dell’evoluzione dell’esile soggetto la regista si concentra sui suoni, spesso fissi e prolungati, capaci di insinuare l’inquietudine, e sui rumori d’ambiente, sia della natura che del quotidiano (una ciotola lavata nell’acqua, un cucchiaio che raschia un piatto, un coltello che segna un legno). Tale minimalismo contemplativo entra in conflitto con le esigenze del racconto. Esigenze lecite, date le premesse che comunque pongono interrogativi, e disattese alla luce della chiusa che non va nella direzione che ci si aspetta. Scelta forzata ma incisiva, perché avrebbe distolto da ciò che evidentemente preme alla regista. Poco importa, quindi, che l’indiano sia buono oppure no. L’importante è che la sua presenza abbia comportato un’evoluzione nella percezione dell’altro da parte dei personaggi. L’acqua potrà essere vicina o lontana, ma nulla, in ogni caso, sarà più come prima. Ed è da questi piccoli passi, la Reichardt ci fa intendere, più che dai grandi eventi a essi conseguenti, che ha preso forma l’America come la conosciamo oggi.

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