giovedì 21 giugno 2018

El castillo de la pureza – Arturo Ripstein

Gabriel Lima sembra un bravo padre di famiglia, che è una piccola impresa familiare che produce, in nero, topicida.
il padre è un padre padrone, e col passare dei minuti si scopre cosa significa il concetto che la famiglia è una prigione.
il padre è fuori di testa, solo lui tiene i rapporti con l'esterno (bisogna pur vendere il topicida), la madre è suddita e complice, piove sempre, i bambini giocano fra di loro, sanno che esiste un fuori, ma sono rassegnati.
l'idea del film è straordinaria, ma nella realtà quella storia era già successa, in Messico.
il film è sconvolgente e unico, insomma, un capolavoro.
guardalo, non te ne pentirai, promesso - Ismaele



QUI il film completo, in spagnolo, con sottotitoli in spagnolo



“El Castillo De La Pureza” è un modello di cinema grezzo che colpisce a fondo nell’animo, un lungometraggio diretto non dal primo sprovveduto, ma da un regista che già in passato aveva collaborato con Luis Buñuel: Arturo Ripstein ci regala un’opera tra le più importanti di quel decennio, una linea oscura che segna non solo la scuola messicana del periodo, ma anche le avanguardie del nuovo millennio. Un film quasi perfetto.

Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino.
Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: El castillo de la pureza ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, Dogtooth di Yorgos Lanthimos e Miss Violence di Alexandros Avranas. Un’informazione che ha iniziato a diffondersi sotterranea dal 2011, anno della candidatura all’Oscar come Miglior Film Straniero di Dogtooth,  nel momento in cui il cineasta Arturo Ripstein ha fatto pervenire a Lanthimos il polemico messaggio “I hope we’ll win” (“Spero che vinceremo”). Questo perché la Grecia non ha mai ammesso di essersi ispirata al film di Ripstein, negando persino ogni possibile influenza. Eppure El castillo de la pureza ha fatto la storia recente del cinema messicano, scuotendo all’epoca l’opinione pubblica in virtù della sua aderenza a fatti realmente accaduti. Nonostante ciò – e nonostante il regista sia stato uno dei più brillanti collaboratori di Buñuel – di questo classico del New Mexican Cinema si sono poi curiosamente perse le tracce…

…Ripstein affronta un tema altre volte dibattuto, quello della rappresentazione dell’essere umano come un dio e un diavolo allo stesso tempo. Cosa è buono e cosa è cattivo? Chi può affermare che v’è davvero una netta separazione tra le due cose? Non è forse vero che il bene e il male sono due concetti che l’uomo stesso ha creato per esorcizzare le sue paure, che non sono leggi di natura e assumono forme diverse nelle diverse società? La moralità e l’immoralità non sono solo dei punti di vista, perfettamente intercambiabili tra di loro? E quanto e in che modo il fine giustifica i mezzi? Volendo inquadrare “El castillo de la pureza” dal punto di vista del protagonista maschile, c’è sicuramente un vago raziocinio alla base del suo comportamento. Peccato che quando bene e male si avvicinano troppo, formando un tutt’uno incontrollabile, qualsiasi proposito di integrazione non possa che andare a rotoli, sfociando nel patologico e nella conseguente devastazione del sistema. Sì, perché alla fine è l’oste che serve il conto e non importa se i piatti di portata non sono stati gli stessi di cui avevamo fantasticato leggendo il menù. Mai sottovalutare le variabili in gioco: sono quelle che alla fine ti fregano.

A l'épicentre entre Buñuel et Pasolini, Ripstein réussit un film sulfureux et moite qui vous laisse un sale arrière-goût de malaise et de déviations sexuelles (et c'est un compliment). Dès les premières images, un splendide travelling qui montre une cour intérieure de demeure en friche, battue par une pluie torrentielle, on est plongé dans une sorte de malaise qui ne nous quittera plus jusqu'à la fin. Très vite, on comprend que la maladie mentale s'est installée dans le film : cette demeure est la prison dans laquelle vit une famille, menée par l'austère et déviant paternel. Obsédé par la gabegie que constitue le monde extérieur, il a enfermé femme et enfants là-dedans, si bien que les petits n'en sont jamais sortis. Leurs journées sont faites du travail pour l'entreprise familiale (la fabrication de mort-aux-rats...) et de jeux innocents qui, avec la puberté, deviennent moins innocents... Peu à peu, la tentation de l'interdit s'installe dans cette communauté cabossée, au grand dam du père, qui pète peu à peu un boulon sous la pluie battante…

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