domenica 14 gennaio 2024

Il ragazzo e l'airone - Hayao Miyazaki

primo, non è un film per bambini, se anche i grandi ne capiscono poco.

e però forse i bambini godranno di più vedendo il film, loro non si fanno domande su metafore e simbologie.

visivamente il film è una gioia per gli occhi, e le avventure di Mahito sono pari a quelle di Ercole e di Ulisse. 

bisognerebbe vederlo almeno due volte, la prima per gli occhi e la storia, e le altre volte per cercare simbologie e mitologie.

almeno la prima volta godetene tutti.

buona (stupita) visione - Ismaele

 

 

 

…"Non avevo idea di cosa aspettarmi". Scrivo spesso questa frase, ma raramente con la stessa pertinenza riservata a Il ragazzo e l'airone, opera preceduta da una campagna di comunicazione tra le più schive e contemporaneamente affascinanti degli ultimi anni. Campagna, oltretutto, che il sottoscritto ha abbracciato in pieno, rimanendo completamente sorpreso tanto dalla trama quanto dalla struttura di un film misterioso solo all’apparenza, ma in realtà sorprendentemente chiaro, dritto, persino premuroso nell’accompagnare lo spettatore un filo attento lungo il percorso di crescita ed elaborazione del lutto compiuto dal protagonista attraverso una vero e proprio rito iniziatico. Miyazaki elabora un’opera sofisticata e allo stesso tempo accessibile, piena zeppa di simboli, esoterismo e mistero, eppure "calda", concentrata com’è sui suoi protagonisti e sulle emozioni che provano; in definitiva, uno dei migliori Ghibli degli ultimi anni e, forse, di sempre.

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Agli appassionati che potrebbero forse desiderare nuova idee-sorpresa, come alla visione di LaputaPrincipessa Mononoke o La città incantata, vogliamo dire che a un maestro del cinema dell’età di Hayao Miyazaki può essere concesso di creare echi tematici e visivi con le sue opere precedenti, come gli uccelli cartacei di La città incantata, la malattia della madre delle protagoniste di Il mio vicino Totoro, il piccolo tunnel, ancora in Totoro, che diviene un grande tunnel dove si perdono i genitori di Chihiro in La città incantata.

Ma questo compendio della sua filmografia, in realtà, per taluni aspetti è il tessuto per creare del nuovo: nel suo viaggio dello spirito e della mente Miyazaki raggiunge David Lynch, riuscendo come lui a fare dell’inquietudine e dell’oscurità, bellezza e dolcezza; dei percorsi qualcosa d’inconoscibile e chiuso (il finale qui non mette fine); l’antro astrale del signore della torre è prossimo alla Loggia nera di Twin Peaks, stanza misteriosa e minuscola che tutto collega e controlla e di confine tra la vita e la morte. E soprattutto i personaggi sono forse doppi, (ir)reversibili e segretamente schizofrenici come in Strade perdute e Mulholland drive: madre e sorella sono forse la stessa persona, così come pure la dolce Himi dai poteri magici e forse addirittura lo stesso Mahito, come sembrano suggerire i nomi della madre morta e del figlio (Mahito-Nihilo).

Gli stati della mente e della psiche si (con)fondono in maniera magistrale con il viaggio al confine tra vita e morte; e inferno, limbo o ade (il non-luogo del dopo morte nel mito greco) trovano una forma meravigliosa e paradisiaca. Aggregando e disgregando le forme dei corpi e della materia, lo spazio e il tempo.

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Ma qual è il vero significato dietro Il Ragazzo e l’Airone? La risposta a questa domanda sembra essere tutt’altro che semplice.
Lo stesso Miyazaki, al termine della proiezione di anteprima ha lasciato un messaggio che recitava pressapoco: “Forse non lo avete capito. Nemmeno io lo capisco.”
Le chiavi di lettura per interpretare Il Ragazzo e l’Airone sono molteplici e, indubbiamente, occorrono più  visioni per poter comprendere al meglio alcuni degli aspetti racchiusi al suo interno.

Già a una prima visione, emerge un approccio autobiografico: l’incubo della guerra, l’azienda di famiglia che costruisce componenti per aerei, il rapporto con la figura paterna, persino la visione di un incendio di un ospedale, sono tutti elementi appartenenti all’infanzia del regista. Il titolo originale del film E voi come vivrete?” è proprio il titolo del libro che Miyazaki, come fa il piccolo Mahito nel film, lesse da bambino durante l’assenza della madre, costretta in ospedale per ben otto anni a causa di una grave tubercolosi.

Facendosi carico di questa dimensione personale, l’animatore giapponese sembra volersi identificare con il protagonista e con il suo viaggio che, non a caso, inizia dopo un atto di autolesionismo. La pietra con cui Mahito si ferisce alla testa rappresenta sotto quest’ottica l’atto di Miyazaki di riaprirsi ancora una volta alla creatività e alla produzione di nuova arte nonostante i suoi ripetuti tentativi di ritirarsi. Un atto per lui doloroso ma, in fin dei conti, inevitabile e necessario.

Immergendosi nei suoi ricordi, il regista cerca di fare i conti con il proprio passato e con la sua interiorità, arrivando ad analizzare varie tematiche a lui care e traendo ispirazione da molte opere legate alla tradizione classica e non solo.

Il viaggio per recuperare la zia/madre riporta alla memoria la discesa di Orfeo negli inferi alla ricerca di Euridice e, contemporaneamente, quella di Dante che si addentra nelle profondità infernali (riferimento reso esplicito persino dalla scritta “Fecemi la Divina Potestate” incisa sia sulla porta della torre sia sulla porta dell’inferno dantesco). L’airone , che nella cultura giapponese simboleggia il passaggio verso l’aldilà, rappresenterebbe il personale Virgilio designato per scortare il protagonista lungo il suo percorso.

Un percorso districato tra varie dimensioni temporali e simboliche in cui si mescolano morte e vita e che porta infine alla scoperta della creazione, rappresentata dalla figura misteriosa del prozio di Mahito, il demiurgo al quale è affidato l’equilibrio dell’universo descritto ne Il Ragazzo e l’Airone.
L’uomo, stanco e affaticato e ormai costretto a costruire continuamente nuove forme (definite da lui tredici elementi semplici) sulle quali fondare il proprio mondo, vuole vedere in Mahito un nuovo erede, il sostituto degno di prendere il suo posto.

E così ci troviamo inaspettatamente di fronte a un bipolarismo interiore racchiuso nell’anima di Miyazaki stesso. Entrambe le figure, sia il vecchio che il bambino, rappresentano la personalità del regista giapponese, divisa in un dualismo in costante conflitto. Se da un lato l’anziano vuole che il mondo si mantenga e che la costruzione resti in equilibrio, il bambino desidera invece fuggire e vivere in libertà, lontano dal peso che quel mondo sembra comportare.

La fuga finale nel mondo vero sembra apparentemente dar forza alla componente più infantile del ragazzo, ma la realtà è forse ben più complessa di quanto sembri. Mahito ha infatti afferrato istintivamente uno dei tredici elementi per portarlo con sé, nel suo mondo. Una mancata rinuncia, sottolineata inoltre dalla cicatrice indelebile sulla sua tempia, simbolo dell’atto creativo violento ma necessario al quale sembra impossibile sottrarsi.

De Il Ragazzo e l’Airone si potrebbe discutere e scrivere molto, essendo questa un’opera stratificata su vari livelli e che cela dentro di sé molti significati nascosti, molti dei quali forse troppo difficili da spiegare.
Questo è forse uno degli aspetti più meravigliosi del lavoro di Miyazaki e della sua magia. Quella particolare magia che non si può né spiegare né raccontare, ma solamente imparare a vivere.

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Per comprendere la bellezza narrativa dell’ultima fatica del maestro dell’animazione nipponica è necessario partire da un presupposto essenziale: ogni singolo elemento utilizzato e mostrato ha un valore altamente simbolico. Questo vuol dire che ogni cosa è diversa da come sembra ma, soprattutto, ha il compito di dare una forma riconoscibile alle problematiche interiori del giovane Mahito. Il ragazzo, infatti, dopo aver perso la madre in un tragico incendio durante i combattimenti della Seconda Guerra Mondiale, si trova trasportato in un mondo che non conosce e rifiuta. Il padre ha iniziato una nuova relazione proprio con la sorella della moglie. La somiglianza tra le due donne colpisce intensamente Mahito ma, al tempo stesso, lo allontana affettivamente ancora di più evidenziato la perdita della madre.

A questo, poi, si aggiunge anche l’estraneità di un nuovo ambiente in cui è stato condotto per allontanarlo dalla grande città in attesa che la guerra finisca. Tutti elementi disturbanti che nell’animo di Mahito producono un distacco assoluto rispetto a ciò che mostra e ciò che sente. Così, circondato da un mondo di adulti accudenti ma comunque assenti, si trova a dover gestire da solo la complicata elaborazione del lutto e la dolorosa ma inevitabile accettazione della morte della madre.

Un percorso che Miyazaki ha scelto di rappresentare attraverso la costruzione e l’utilizzo di un luogo misterioso come una torre, all’interno della quale è custodito un universo parallelo gestito dalla magia. Il confronto, dunque, tra il mondo magico e quello naturale è evidente. Allo stesso tempo, però, si evidenzia anche un altro rapporto speculare. La torre, infatti, altro non è che la rappresentazione simbolica del tormento emotivo di Mahito. Un mondo interiore che cela a chiunque, forse anche a se stesso, in cui l’unica ragione di vita è la ricerca della madre. Per questo motivo, dunque, il solo modo per poter accettare la realtà effettiva è immergersi completamente in quella emotiva, sperando di trovare la motivazione giusta per tornare a vivere…

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