sabato 30 maggio 2020

ricordo di Michel Piccoli









- Monsieur Piccoli, ci racconti i suoi esordi teatrali.
A nove anni i miei genitori mi mandarono in collegio. Non era un posto molto esaltante, però si allestivano delle piccole rappresentazioni teatrali realizzate dagli studenti. Ricordo la prima volta che partecipai ad uno di questi spettacoli; interpretai una parte in un testo di IbsenLa vita meravigliosa di un re, recitando di fronte a parenti ed amici. E' la storia di un re che deve fare una sfilata per la città, ed affida il compito di cucire il vestito a tre sarti diversi, ed io interpretavo uno di loro; alla fine questo vestito non c'è ed il povero re rimane nudo davanti ai suoi sudditi. Benchè fossi un ragazzino molto timido, alla fine dello spettacolo dissi a mia madre che non avevo avuto paura e mi convinsi pian piano che il palcoscenico non era poi così male. Quell’esperienza rappresentò per me una vera e propria nuova nascita, tanto che alcuni anni dopo, compiuti i diciotto anni, dissi ai miei genitori che volevo diventare un attore. Loro non mi ostacolarono, ma mi misero alla prova. Non era quella di certo un'epoca facile per chi voleva intraprendere questo mestiere. Oggi un giovane che esprime tale desiderio viene incoraggiato dai genitori, soprattutto in vista dei facili guadagni che un eventuale successo potrebbe portare. Tuttavia, se mi guardo indietro, mi ritengo fortunato ad aver iniziato in un’epoca in cui i soldi non erano poi così importanti. A diciannove anni cominciai a frequentare i piccoli teatri parigini, entrando in contatto con grandi personaggi come Jouvet e Pitoeff. Erano dei registi squattrinati, ma l'esperienza fatta con loro fu per me molto importante, soprattutto perché mi permetteva di avere un contatto nuovo con il pubblico; infatti, benché mi trovassi spesso davanti ad una sparuta platea di sette spettatori, io ero contento lo stesso: comunque erano sette persone che erano venute a vedere lo spettacolo. Ricordo che gli anni immediatamente successivi alla fine dell’occupazione nazista furono densi di fermenti straordinari: era l'epoca del quartiere St. Germain, in cui si faceva teatro ovunque, soprattutto nei piccoli ambienti, e il cabaret la faceva da padrone. La gente non aveva un soldo in tasca, ma SartreCamus e Vian frequentavano quell'ambiente e fu proprio allora che li conobbi. Il Teatro Babilon era uno dei luoghi più d’avanguardia della città. Fu lì che interpretai i primi testi di Beckett Ionesco. Ricordo un episodio curioso di quegli anni; vennero ad assistere ad uno spettacolo due critici teatrali de Le Figaro, che allora come oggi è il più importante quotidiano francese. Diedero dello spettacolo due giudizi diametralmente opposti: uno lo stroncò, l'altro scrisse che era una grande e positiva scoperta. Fu allora che capì quanto il pubblico fosse strano e quanto perciò bisognasse stare attenti. In seguito conobbi Barrault e le critiche positive che accolsero i nostri spettacoli mi diedero una grande fiducia; ciò mi permise di lavorare in seguito con grande libertà.

- Per il pubblico italiano lei resta l’indimenticabile interprete di due film capolavoro di Marco Ferreri, Dillinger è morto La grande abbuffata. Come conobbe il regista milanese e quale fu il vostro rapporto all'inizio?
Negli anni in cui continuavo a frequentare l’avanguardia teatrale conobbi anche i giovani autori di cinema, tra cui Marco Ferreri, ma il nostro fu incontro davvero casuale. Il mio agente intermediario voleva impormi di fare un film con Alain Delon perché il mio nome sarebbe comparso poi sul cartellone del film, e ciò mi avrebbe dato una grande visibilità per il futuro. Ma la sceneggiatura di questo film non mi convinceva fino in fondo. Un giorno vidi Ferreri arrivare sul set, mi diede nove cartelle da leggere, un racconto sostanzialmente, e mi disse che ci saremmo rivisti all'indomani. Lessi subito quelle pagine e ne rimasi colpito profondamente: era una bozza del copione di Dillinger è morto. Lasciai il mio agente e andai in Italia con Marco a girare il film. Lui era uno di quei registi che durante le riprese non dicono nulla e ti lasciano libero di creare. La sua presenza però era talmente magnetica che riuscivo a capire dal solo sguardo che cosa voleva. Ricordo che anche Luis Buñuel aveva questa immensa forza.

- Che tipo di rapporto si stabilisce a teatro tra un attore come lei e un regista?
Quando interpreto un ruolo cerco sempre di comprendere sia il personaggio scritto sia quello che vuole il regista. C'è sempre una sinergia forte tra i due, ma l’attore deve avere sempre la libertà di creare. Certamente gli slanci creativi vanno discussi con il regista, ma per fortuna non mi è mai successo di lavorare con dei demiurghi. Ci vuole molta tenacia, molta pazienza per costruire un'osmosi tra attori, regista e produttori. Quello dell'attore è un lavoro molto profondo perché devi stabilire una sorta di intimità segreta sia con l'autore che con il regista, come nel caso di Ta main dans la mienne, in cui mi confronto con due grandi come Anton Cechov e Peter Brook. Il mestiere dell’attore comporta un continuo e stretto confronto con i propri partners, con il regista e con il pubblico. Il teatro è come una bottega, e noi attori siamo come quei negozianti che cercano, nel migliore dei modi, di vendere la loro merce. C'è un'unica differenza, però: a teatro la seduzione è molto più pericolosa. Se l’attore diventa troppo seduttore può perdere la propria anima.

- Questo vale anche per il cinema?
Credo di no, anche se ora gli attori di teatro amano fare cinema e quelli di cinema spesso calcano i palcoscenici teatrali. Anche io anni fa feci tre film da regista, perché ad un certo punto della mia carriera ero diventato curioso di confrontarmi con ciò che sta dietro la macchina da presa. Quando si gira un film, sul set ci sono decine e decine di addetti ai lavori, il loro numero è sempre maggiore rispetto a quello degli attori. Il teatro è diverso ed è molto profondo, ad esempio, lo scarto che c’è tra le prove e poi la rappresentazione di uno spettacolo. Durante le prove l'attore è come un bambino che va guidato dal regista, perché è lui a sapere tutto. Ma durante lo spettacolo i ruoli si invertono: davanti al pubblico è l'attore che crea, mentre il regista prova uno strano senso di perdita dietro le quinte. Gli spettatori arrivano così a pensare che spesso è l’attore il vero autore dello spettacolo. Al cinema è tutto diverso, però, malgrado la differenza, mi piace fare ancora il ''gigione'' davanti alla macchina da presa.

- Quando ha conosciuto Peter Brook?
Avevo avuto modo di apprezzare il suo lavoro teatrale già molto prima che ci conoscessimo, soprattutto Il vicario, che lui realizzò in un vero e proprio tribunale. Aveva visto giusto: che cosa c'è di più teatrale di un processo in un'aula di giustizia? Quindici anni dopo mi contattò per un suo nuovo spettacolo. Sai come successe? Un giorno mi chiamò al telefono chiedendomi se il giorno dopo ero libero. Io lo ero e mi presentai subito da lui. Mi confessò che mi aveva chiamato in sostituzione di un altro attore, che aveva abbandonato le prove perché non riuscivano ad interagire tra loro. Grazie a "quell’imbecille" che non aveva capito il metodo di lavoro di Peter Brook mi ritrovai a fare Il giardino dei ciliegi per questo grande regista inglese, al fianco di Natasha Parry. Oggi, a vent'anni di distanza, ci ha richiamato tutti e due per questo spettacolo, che mette in scena proprio il carteggio amoroso tra Cechov e l’attrice russa Olg
a Knipper. E' strano, ma sembra davvero una continuazione ideale con quel vecchio Giardino. E' sempre un gran piacere lavorare con Peter Brook perché è un regista continuamente creativo: continua a mettere mano alla commedia anche quando siamo in tournée. Credo che lui sia uno dei pochi ad aver capito che a teatro l'attore non è un re assoluto e ha continuamente bisogno del regista che lo controlli e lo guidi.

- Qual'è il suo rapporto personale con il pubblico?
Il rapporto con il pubblico è capitale per ogni attore. Credo sia la cosa più importante cercare in ogni modo di coinvolgere gli spettatori e di farsi, per così dire, "piacere". Ma questa forma di edonismo ha spesso dei limiti: l'attore deve credere nella parte che recita anche se al pubblico non piace. Nella stessa maniera è essenziale per l'attore, soprattutto quando si diventa delle celebrità, conservare la modestia sia nel lavoro che nella vita. Nelle due esistenze che egli vive: la realtà e il palcoscenico.

- Per un attore è sempre molto importante riuscire a guardarsi intorno, cogliere modi e gesti vissuti delle persone che incontra, per poi poterle portare in scena. Ma come si realizza l’equilibrio tra questo tipo di esperienza e la creatività personale?
Come dici, è fondamentale per un attore osservare quello che c'è intorno a lui: gli altri, la vita, i mestieri. Gli attori sono degli psicanalisti di loro stessi. Con il tempo poi ognuno costruisce un suo vero e proprio dizionario della memoria, da non confondere con quello strettamente legato al lavoro. Naturalmente più si invecchia più questo dizionario diventa ricco. Ma non penso che l'età conti molto, anzi non conta affatto. Gente come Manoel de Oliveira o Peter Brook, ad esempio, benchè siano persone anziane, sono in realtà molto giovani, perché piene di creatività.

- Stupisce il fatto che lei, uno dei più grandi attori europei, non abbia mai tentato di fare fortuna anche in America, ad Hollywood. Se potesse ritornare indietro, farebbe diversamente?
No, perché in America non hanno bisogno degli attori europei. Tra gli anni Trenta e i Quaranta del secolo scorso hanno avuto una generazione di attori sublimi. Ora hanno solo marionette. Sublimi anch'esse, certo, ma sempre marionette. E poi il pubblico americano, non amando affatto gli attori che non pronunciano bene la loro lingua, non vogliono altro che film americani. Hollywood è una gigantesca macchina produttiva e di potere, ma è molto autoreferenziale. E ciò si riflette anche nella distribuzione dei film stranieri, che negli USA è quasi nulla. In Francia invece si possono vedere film provenienti da tutto il mondo. Questo di certo non aiuta il commercio del cinema francese, ma fa molto bene all’intelletto.

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