mercoledì 28 febbraio 2018

La violenza: quinto potere - Florestano Vancini

tratto da un'opera di Giuseppe Fava, il film è ambientato in un'aula di tribunale, dove il dibattito processuale è vivissimo, sia per la materia che per i bravissimi attori.
Enrico Maria Salerno, Ciccio Ingrassia, Gastone Moschin, Riccardo Cucciolla, Mario Adorf e Mariangela Melato (unica donna del film) interpretano un film che non ti dimentichi.
musica di Ennio Morricone.
un piccolo capolavoro da non perdere - Ismaele



QUI il film completo


Florestano Vancini è stato un buon artigiano della macchina da presa ed ha spesso saputo darci opere in equilibrio tra la denuncia sociale e la spettacolarità cinematografica. Secondo alcuni in questo film ha prevalso il secondo aspetto, ma, a parer mio, siamo nell'ambito di un discreto prodotto d'impegno, realizzato grazie all'apporto di validissimi professionisti. Forse è vero che il copione prevede, più che veri personaggi, semplici funzioni narrative, affidate ad interpreti di valore affinché le riempissero di contenuti "umani" ed è pur vero che la procedura penale italiana (soprattutto prima della riforma entrata in vigore nel 1989) non si presta alla spettacolarizzazione come quella americana, ma la messinscena è più che decorosa, la narrazione serrata, gli assolo intonati e i fatti raccontati, purtroppo, sono piuttosto credibili. Gli interpreti ci aggiungono del loro, dal pubblico ministero appassionato di Enrico Maria Salerno all'istrionico avvocato difensore Gastone Moschin, dal boss sbruffone Mario Adorf a quello gelido di Georges Wilson. Ma tra gli attori si segnalano due comprimari della vicenda, cioè un Ciccio Ingrassia per la prima volta e più che credibilmente in un ruolo drammatico e Guido Leontini, uno che di questo genere cinematografico è stato un piccolo pilastro e che forse avrebbe meritato più spazio: qui, in ogni caso è bravissimo a tratteggiare il personaggio di una delle tante vittime/carnefici di cui è costellata la storia infame della mafia.

Florestano Vancini, regista recentemente scomparso, ha sempre dato una particolare attenzione all'impegno sociale. I suoi migliori risultati li ha ottenuti nel genere storico: pensiamo a "La lunga notte del 43", "Bronte" e "Il delitto Matteotti". Qui siamo di fronte alla descrizione di un processo contro uomini accusati di connivenza con il mondo mafiosi e che resteranno impuniti grazie alla protezione loro offerta da alcuni "amici" importanti. L'unico privo di protezione (peraltro poco sano di mente) sconterà le colpe degli altri. Un altro poi verrà spinto al suicidio per evitare ritorsioni contro la sua famiglia. Un film un po' plateale, reso agiografico grazie alla performance di attori famosi o comunque molto conosciuti (Salerno, Moschin, Adorf e addirittura un Ciccio Ingrassia in versione drammatica) ma che resterà facilmente impresso nella mente dello spettatore.

All'interno dell'onorevole e suggestivo filone del cinema 'civile', a fianco di nomi di registi e di titoli sicuramente più blasonati o memorabili (il Cittadino sopra ogni sospetto di Petri o Le mani sulla città di Rosi, per dire due dei lavori più rappresentativi), anche Vancini ha un suo posto. E questo La violenza: quinto potere, tratto da un'opera teatrale di Giuseppe Fava, è una delle pellicole che in definitiva lancia il poliziesco - che poi degenererà in poliziottesco, assumendo in sè la componente comica - nel cinema italiano degli anni '70. La struttura della narrazione è molto semplice, ma tenuta insieme efficacemente dal regista ferrarese; si tratta soltanto di un processo per mafia, raccontato attraverso le deposizioni di tutti gli imputati. Per ciascuno di essi partono i debiti flashback, che aiutano anche la visione allo spettatore, evitando di rinchiudere il racconto nel claustrofobico ed immobile ambiente del salone del tribunale. Di questo lavoro colpiscono essenzialmente due fattori: il primo è formale, ovverosia la scelta di mostrare una giustizia gambizzata, annichilita, sovrastata dal potere occulto della mafia (più volte accostata alla politica); l'emblema sostanziale di tale caratteristica è tutto nell'intervento della vedova (la Melato) di un uomo ucciso e fatto scomparire dalla mafia perchè testimone di un altro omicidio: mentre lei urla la verità, nota a tutti i presenti ('non ho nemmeno un cadavere su cui piangere', additando l'imputato che si professa chiaramente innocente), le guardie sono costrette a portarla fuori dall'aula. Sempre in linea con tale impostazione troviamo l'assassinio finale del giudice, affiancato dalla nascita di un nuovo 'picciotto' che perpetuerà il cancro della mafia nel tessuto politico, istituzionale, economico, sociale. Secondo fattore, ma questa volta tecnico, di tutto risalto è il cast: è soltanto da pazzi, lasciarsi sfuggire un film in cui gli avvocati sono Enrico Maria Salerno (mostruoso) e Gastone Moschin, l'imputato principale è Mario Adorf, il giudice è Turi Ferro e fra i testimoni sfilano Mariangela Melato (che, per questioni di accento, è però la meno credibile della combriccola) e Ciccio Ingrassia, qui chiamato - altro enorme merito di Vancini - per la prima volta ad un ruolo drammatico (complice uno degli estemporanei litigi con il partner artistico Franco). Un film importante. 7,5/10.
da qui

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