lunedì 19 gennaio 2015

Hungry Hearts - Saverio Costanzo

si inizia ridendo e scherzando, con Alba Rohr­wa­cher, così magra che assomiglia a Olivia (la fidanzata di Braccio di ferro) e Adam Driver che assomiglia a Paolo Jannacci, il figlio di Enzo.
come in "Gone girl", di Fincher, c'è un matrimonio in difficoltà, questa volta la causa sembra essere un figlio. Lei non ha quasi conosciuto la madre, e riversa sul figlio una preoccupazione e un'ansia straordinari e ha delle idee su come devono essere nutriti e crescere i bambini, lui capisce che qualcosa non funziona e cerca di nascosto di far mangiare il figlio.
vivono a New York, che non è proprio una città piccola, ma sono soli, non hanno (più) amici, solo la nonna appare ogni tanto.
neanche fra loro due si parla tanto, anzi quasi niente, lei è assorbita totalmente dal figlio, "siamo una famiglia", dice, ma è una famiglia malata, non si sorride mai.
la soluzione dei problemi sarà radicale e definitiva.
le ultime immagini sono bellissime e tristissime insieme.
o Saverio Costanzo non sa come si fanno i film di cassetta, o lo sa benissimo e sceglie di fare altro, che il dio del cinema lo conservi - Ismaele 



…Adam Driver e Alba Rohrwacher sembrano non incontrarsi mai su quel terreno emotivo che, da innamorati, avrebbero dovuto condividere e fin dall’inizio non riescono, entrambi, ad esprimere la potenza di quel legame che salda i destini dei loro personaggi. Paradossalmente ciò che manca a questo film è proprio il motore che avrebbe dovuto muoverlo, quello dell’amore, risolvendosi invece in un movimento meccanico in cui anche la rabbia, lo sgomento o un’esplosione d’ira si cristallizzano in azioni che sembrano voler sfuggire ad ogni empatia, raggelando il pathos naturale del tragico.
Privilegiando il “mostrare” al “raccontare”, Costanzo imprime al suo film una direzione ondivaga, in cui si smarrisce tutto il potenziale del dramma lasciando di esso nulla di più che una mera cronaca, alla superficie del dolore e della follia.
…Hun­gry Hearts poten­zia al mas­simo que­sta sua ten­denza, siamo a New York, la città del cinema, Mina e Jude diven­tano Annie Hall e Woody Allen di Io e Annie, pas­sando poi a Rosemary’s Baby e l’Inquilino del terzo piano, con lo stro­bo­sco­pio che deforma mostruo­sa­mente il corpo di Alba Rohr­wa­cher e la loro casa. E hor­ror, cac­cia, il pae­sag­gio ame­ri­cano dell’immaginario che quasi sovra­sta la nar­ra­zione. Rispetto alle con­ven­zione ormai da fic­tion (brutta) tv a cui rimanda tanto nostro cinema lo sforzo visio­na­rio di Costanzo, come la sua sovre­spo­si­zione, è senz’altro eccen­trico. Quello che gli manca è forse la capa­cità di meta­bo­liz­zare fino in fondo le sue osses­sioni nelle imma­gini libe­ran­dole da qual­che eccesso di pro grammaticità….

…la Rohrwacher è bravissima nel suo essere scialba, stralunata e scheletrica, così come Costanzo ha azzeccato la fotografia, gli ambienti e quelle inquadrature dall’altro che schiacciano i protagonisti. Alla fine versiamo in uno stato ansiogeno tale da provare sollievo per l’arrivo dei titoli di coda.
Non so se il mondo sia davvero tossico, inadatto a crescere un bimbo, non so se sia più giusto un regime alimentare onnivoro o vegano. Non conosco dove sia il confine tra infinito amore materno e ossessione malata. So però cosa fa bene a me e la visione di questa pellicola ha reso la mia giornata migliore. Tre soli attori. Uno spaccato di realtà che fa male. Un fiume di emozioni. Toni asciutti, diretti e mai eccessivi. Un lavoro italiano dal respiro davvero internazionale. Insomma, ho visto un gran bel film.

Nel conflitto mortale ingaggiato tra i due giovani sposi, Mina e Jude, il regista non prende posizione se non usando lo strumento del cinema: il posizionamento della macchina da presa, la scansione dei blocchi narrativi, la routine dei gesti quotidiani e dei silenzi sempre più pesanti, la scelta degli obiettivi. Per sottolineare il senso di disagio e precarietà, ad esempio nella scena girata sulle scale in cui la nonna incontra per la prima volta il neonato, Costanzo posiziona la macchina da presa in alto, sul soffitto, e gira un’unica e lunga inquadratura verticale (come Hitchcock in Psyco), con la nonna che prova più volte ad abbracciare il bambino e la madre spaventata che lo ritrae; per sottolineare la solitudine di Mina, sempre più chiusa in se stessa e al mondo, Costanzo usa ad un certo punto degli obiettivi deformanti che dilatano e allungano spazi e figure (come Repulsion di Polanski). Di fronte ad un amore che muore e crea dolore, Costanzo descrive i comportamenti dei due protagonisti come fossero cavie di laboratorio, li segue nella loro casa e nel loro incubo, nelle loro paure e nei loro inganni. Non ci sono parenti, né amici, né colleghi di lavoro che possono aiutarli. Sono soli. New York, la città in cui vivono, è vista di sguincio, spiata dalla finestra o da una piccola terrazza ricavata sul tetto, che però provoca vertigine e malessere…

Ispirato al romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, Saverio Costanzo conferma con questo film il suo percorso originale e coraggioso, soprattutto se rapportato al cinema nazionale. Un dramma familiare durissimo e claustrofobico che nella seconda parte sfocia in un thriller psicologico dalle tinte horror per come è girato (l'utilizzo ripetuto di ottiche deformanti) e raccontato (i contrappunti musicali di Nicola Piovani tesi a creare un clima di suspense)…

Il cinema di Costanzo è connotato da un rigore raro a formare un’idea di spazio decomposto ed esatto nel quale i personaggi si muovono (o non si muovono) assorbendolo, diventando parte integrante di un sistema di forze che si diramano da un “quadro” centrale e invisibile.
Più che un punto di vista interno che incide e modifica il senso della composizione generale e ne orienta la morale, è nell’irruenza del contrasto tra interno ed esterno, nell’assenza cioè di un punto di vista specifico che possa dare un indirizzo alle opinioni; è nel disorientamento che segue al passaggio da una scena all’altra che progressivamente si (spro)fonda la visione…

Ragionando sulla sottomissione, sulla follia e sul terrore dell’infezione, Costanzo lo fa ribaltando attraverso il cinema tali prospettive: Hungry Hearts è cinema fieramente infetto, che fa della mescolanza di intuizioni, fluidi e malattie la propria arma estetica. Solo nella fusione tra elementi così eterogenei si può ancora trovare un senso alla narrazione, alla storia, all’intreccio; che thriller e vagheggiamenti orrorifici facciano capolino in un dramma da camera – il film è prevalentemente girato in interni, eccezion fatta per un paio di sequenze – non diventa solo interessante, ma persino necessario.
Si sfida l’idea canonica di gusto, si profana il “bello” o ciò che tale viene comunemente considerato, si ammanta il dramma di vie d’accesso secondarie, ci si permette sberleffi tutt’altro che indolori verso ogni tipo di categoria e di facile catalogazione: Saverio Costanzo, forse tra i cineasti italiani uno dei più incompresi (fin dai tempi di Private), porta a termine una fine ed elegante operazione intellettuale, scarto sensibile in direzione di un nuovo approccio alla materia cinematografica.

El no-posicionamiento del autor frente al conflicto, le permite alejarse de la usual exigencia argumental que fuerza la exhibición del rol de víctima y verdugo. De este modo, Saverio Costanzo tiene libertad para centrarse en dos aspectos técnicos hasta ahora desconocidos en su anterior filmografía. Nos referimos a los bruscos e imprevisibles cambios de género, y al uso adecuado de ciertos planos y lentes de la cámara, con el fin de forzar la ansiedad formal a los ojos del público. En cuanto a la alteración genérica, Hungry Hearts se inicia con un plano secuencia en el que Adam Driver y Alba Rohrwacher quedan encerrados en un baño de un mugriento restaurante chino…

Hungry Hearts es una película demoledora. Por su temática, por su formato, por el cambio casi constante de género cinematográfico. Lo que parece va a ser una comedia romántica, con una divertidísima escena introductoria de plano fijo en la que nos presenta cómo se conoce la pareja protagonista (nada más y nada menos que quedando encerrados en el lavabo de un restaurante chino), se convierte en un drama familiar que pasa a thriller psicológico en el que el espectador se decantará sin duda a posicionarse hacia una de las partes, y aunque puede parecer que en todo momento el director nos está decantando a ser partidarios de la postura del padre, en realidad nada más lejos de su intención (el propio Saberio Costanzo confirmará en la rueda de prensa que su acercamiento a los personajes se basa en la forma de trabajar de Cassavetes): salpicará las imágenes de subliminales mensajes que, inconscientemente, nos deberían, como mínimo, hacer dudar del pleno juicio de los dos protagonistas, y sus familias…




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