sabato 7 luglio 2018

La vendetta di un uomo tranquillo (Tarde para la ira) - Raúl Arévalo

una sceneggiatura a orologeria rende l'opera prima di Raúl Arévalo un film che non lo molli fino all'ultimo, e allora capisci il titolo, forse.
ritmo lento con accelerazioni che stupiscono tutti, aumentano la suspense.
gran film, per i miei gusti, sarebbe un peccato trascurarlo - Ismaele



Arévalo dimentica consapevolmente l’azione in più di un’occasione, giocando sulla sospensione piuttosto che sull’esasperazione della cadenza narrativa, e riesce a donare al film un’originale discronia sincopata, una fragilità formale che rispecchia la vita a singhiozzo dei personaggi, sempre sospesi su una sorta di baratro esistenziale. La vendetta di un uomo tranquillo sembra obbedire con ostentata diligenza ai canoni tipici del noir ma, disseminando piccoli squilibri, aritmie, brusche frenate e improvvise accelerazioni, regala respiro al racconto e crea, per contrasto, una sorta di ansiogena empatia: un’opera prima ruvida e funerea, che omaggia il genere colorandolo di una rabbia diffusa, malata, insaziabile, terribilmente contemporanea.

Ne La vendetta di un uomo tranquillo è la regia a fare da padrone, impossessandosi di ogni scena senza mai abbandonare un realismo di fondo che ci fa riconoscere, ad esempio, un incidente stradale filmato dall'interno di un'automobile, e che riporta la violenza al suo vero impatto emotivo senza "tarantinizzarla" (nonostante i titoli di testa del film sembrino presi a prestito da Kill Bill). Quella di Arévalo è una regia intima, sensuale, sempre pertinente all'evoluzione della storia e dei personaggi. Una regia che spia attraverso stipiti e spiragli, o "spara" in primissimo piano i volti nudi degli interpreti, modulando la propria scelta stilistica a seconda delle necessità di ciascuna scena...

Arévalo “sfrutta” l’impalcatura archetipica del genere per scardinarlo non solo esteticamente, con m.d.p. a spalla, campi strettissimi sugli sguardi, interni claustrofobici, volti umani e fotografia naturalistica, eliminando quei sotterfugi estetizzanti che in questi anni hanno trasformato la violenza in coreografia, ma ne ha rivoluzionato soprattutto l’etica. Se nel tipico revenge-movie americano lo spettatore si schiera immediatamente con il vendicatore, sempre moralmente giustificato, e la violenza viene sciorinata in progressione multi-level con enfasi catartica fino alla liberatoria morte del supercattivo finale, nella ruvida opera spagnola la vendetta viene spogliata di ogni enfasi e appare per ciò che è realmente: la reazione irrazionale di un uomo disperato, realizzata in modo goffo (niente calci volanti né proiettili infallibili) con armi improvvisate. E, così come nei film di Park Chan-wook, non rende liberi né felici, non allevia il dolore, non onora i defunti, ma rende tutti, vittime e carnefici, uguali ed ugualmente disperati.

La regia è rigorosa, l'estetica particolare, riconoscibile e d’autore, la sceneggiatura è molto ben strutturata e divisa in capitoli. I canoni del genere thriller sono tutti rispettati, ma inseriti in una territorialità molto marcata, come quella madrilena. Gli indizi sui personaggi si accumulano con gradualità, perfettamente piazzati e cadenzati, e lentamente l’atroce quadro del destino, la beffa, viene a galla, esplodendo in tutta la sua atrocità. Come una bomba ad orologeria, dal pieno effetto suspense. L'incipit drammatico e d’impatto, enfatizzato dal forte piano sequenza dell’incidente iniziale, lascia presto il posto ad un noir in cui si muovono sentimenti primordiali: si avverte la presenza di una verità taciuta quanto potente, quasi indicibile, e che non ha ancora esaurito il suo potenziale di devastazione.
La cinepresa resta sempre incollata ai volti dei protagonisti: li segue, li pedina con movimenti incessanti, riprese a spalla, passaggi in steadycam. José, il protagonista, è un uomo perbene, all'apparenza solitario e riservato, ma in realtà prigioniero di un rancore soffocante. La tragedia che alberga da troppo tempo in lui ha nutrito in maniera silenziosa un'insospettabile aggressività e si dischiude in modo progressivo alla comprensione del pubblico. La ferocia, dapprima invisibile, dilaga con un impatto travolgente e spiazzante, ma anche con calcolata precisione. In parte il film è anche un road-movie, in cui le dinamiche si fanno somiglianti a quelle di un western, dando vita ad un film credibile, crudo e vivo: una storia fatta di realismo e tensione, che tiene incollati allo schermo fino all'ultima scena.

… La sua regia è media e mediocre, spesso trasandata, come il montaggio. Non ha certamente le ambizioni che potevano avere i grandi registi più liberi e meditanti (un Bresson, ma anche un Becker o un Truffaut o un Fassbinder, o gli inglesi figliocci di Graham Greene in Europa; un Lang, ma anche tanti piccoli maestri del cinema noir negli Stati Uniti; e alcuni registi giapponesi maggiori e minori eccetera) e si avverte in lui una mancanza di convinzione, un’approssimazione sia formale sia di contenuti, e diciamo pure etica.
Il suo film, dunque, è tipico di un midcult che affronta grandi temi e imita grandi maestri facendone prodotti mediocri, ma abbastanza astuti da compiacere il gusto e la superficialità del pubblico e della critica dei nostri tempi.

2 commenti:

  1. A me è piaciuto abbastanza, e comunque effettivamente il titolo italiano non aiuta ma in ogni caso non è questo un mediocre film ;)

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    1. di Raúl Arévalo aspettiamo il secondo film, che, come dice Caparezza, è quello più difficile :)

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