mercoledì 31 luglio 2024

Sto lyko - Aran Hughes, Christina Koutsospyrou

gli ultimi fra gli ultimi, vivono facendo i pastori di capre.

in Grecia la trojka ha deciso di punire il popolo greco, e quella famiglia di pastori va a fondo.

non ci sono troppe spiegazioni e un finale agghiacciante per un film di disperazione.

i soldi sono spariti e nessuno compra più le bestie, che ignare pascolano nelle campagne del paese.

più documentario che film di finzione, non lascia indifferenti.

cercatelo, in mezzo a tanti film inutili e /o inoffensivi, Sto lyko non si dimentica, sicuro.

buona (pastorale) visione - Ismaele



tornando al film l'unica cosa che posso dire è di esser rimasto come ipnotizzato.

Il primo gregge ripreso per 5 minuti buoni, con quei versi che, sentiteli, sembravano i lamenti della loggia di Eyes Wide Shut. Quelle colline così spoglie, quegli interni così spogli, quei dialoghi sul nulla. Lente carrellate a passo d'asino, una donna che calcia un riccio morto, un'altra che non riesce a star ferma su una sedia ripresa per altri 5 minuti.
E intanto si parla sempre più di crisi, e intanto quel'unico agnello che si doveva vendere non si vende più, e intanto rimane solo pane raffermo da mangiare, e intanto ci si avvina verso la fine.
E anche uomini che sembravano aver lasciato, durante gli anni, gli ultimi brandelli di umanità e pulsione lungo le strade polverose di una vita senza strade laterali ad un certo punto hanno occhi che sembrano bagnati.
E il film finisce così, e ti è sembrato già bellissimo.
Poi c'è un'ultima inquadratura ferma che sembra la solita natura morta dove scorreranno i pochi titoli di un povero film.
E poi senti il primo, e poi il secondo, e poi il terzo, e poi il quarto e poi il quinto e poi il sesto e poi il settimo e poi l'ottavo e poi il nono.
E urla di cani e pecore.
Il raggelante finale di un film magnifico.

da qui

 

Nato come documentario sul quotidiano di un remoto villaggio greco, Sto lyko finisce per scegliere di registrare l’accanirsi della crisi sugli ultimi: sui margini rurali, su chi vive a stretto contatto con le materie prime, su chi abita agli antipodi del simulacro finanziario e la cui economia è fondata, da sempre, sulla mera sussistenza. Nessun romantico ritorno antimodernista allo stato di natura, nessuna narrazione espiatrice. Chiari strumenti di fiction organizzano quadri da documentarismo etnografico, scene in cui il gusto geometrico per la composizione, l’agonia della durata e la cura del sound design pesano concretamente sulla tragedia del reale. E la fanno pesare: s’innesca una dialettica sconcertante tra la miseria crescente e incontrovertibile di questa Grecia che s’estingue e le forme di un cinema arty impoverito, che sa di non poter redimere il mondo e dunque lo sfrutta, estetizzandolo in questo paradossale barocchismo della sottrazione e dell’immersione, riducendo il film all’irrecuperabile progress di una natura morta, definendo questo mondo in un finale allegorico d’effetto, che è l’evidente sineddoche di un’apocalisse.

Giulio Sangiorgio

da qui

 

Sono sempre più affascinato dalle opere capaci di mettersi dalla parte “sbagliata”, dall’incoscienza e dal coraggio di passare per opportunisti o, peggio ancora, sciacalli. Per questo ho trovato piuttosto interessante il documentario di finzione diretto Christina Koutsospyrou e Aaran Hughes.
Il set è quello di un isolato villaggio fra i monti Nafpaktia nella Grecia occidentale, i soggetti sono due famiglie di pastori in lotta per la sopravvivenza in uno scenario desolato e in un epoca storica disgraziata per tutto il Paese. Il film illustra la loro vita umile, il lavoro e le attese, gli stenti e le difficoltà economiche al limite della sussistenza, la disperazione. L’idea che muove gli autori è quella di raccontare un angolo marginale della Grecia contemporanea con occhio documentaristico e su questo “romanzare” una drammatizzazione della crisi economica che ha prostrato la nazione.
Koutsospyrou e Hughes trasformano in attori gli stessi soggetti “naturali”, mettendo in scena una drammatica escalation d’insensata violenza capace di giungere a un finale di rara inquietudine (non poi tanto distante, nel suo cuore drammatico, al cinema del regista greco più interessante che oggi ci sia in circolazione: Yorgos Lanthimos). Ovviamente tutto questo durante la visione non è comprensibile: lo spettatore osserva un documentario all’interno del quale solamente in alcuni frangenti la recitazione diviene evidente. La finzione è esterna al film, in esso tutto è esposto con uno stile documentaristico inducendo la convinzione di assistere a fatti reali. L’operazione è di indubbio interesse e di sicura scabrosità perché moralmente al limite, e proprio in questo risiede il fascino di Sto lyko (To the Wolf). •

Alessio Galbati

da qui




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