martedì 27 settembre 2022

Stray Dogs – Tsai Ming Liang

un film nel quale un padre cerca di tirare su, da solo, due bambini, facendo lavoretti di merda, e vivendo da homeless negli anfratti bui e abbandonati della metropoli.

appaiono la mamma dei bambini, che non sta con loro, e un'impiegata di un grande supermercato che si affeziona a quei miserrimi bambini.

un film, lento, disperato, dentro l'abisso.

un film estremo e ottimo.

buona (lentissima) visione - Ismaele


 

 

il film completo, con sottotitoli in portoghese, si può vedere qui:

qui la prima parte

qui la seconda parte


 

…Tsai, più moderno di ogni moderno,  è una forza del Passato. Solo nella tradizione è il suo amore. Studio esatto del quadro, della durata e dell’attesa, l’immagine precipita in una tensione statica che misura la disperante forza di grevità di un corpo solo, in costante caduta. Una composizione visiva di coerenza perfetta che controbilancia, nella sua armonia, la disperata eccentricità delle situazioni. L’ossessione liquida domina, come sempre, una quotidianità vera, fatta di gesti il cui significato è da rintracciare al di là dello scheletro tramico. L’immagine acquista durata, fin quasi a immobilizzarsi, per dare allo sguardo il tempo necessario a decodificare più elementi possibili, per raccogliere segni, tracce, e per immaginare altre visioni, per dialogare attraverso gli occhi. Il soggetto vedente si rispecchia nell’oggetto visto; accade ad esempio che i frantumi dei laterizi di un palazzo in costruzione abbandonato sfumino fino a diventare parte di un disegno su un muro, pietraglia di un paesaggio campestre, con tanto di fiume ed alberi: accade che la donna, allora, rapita dalla visione, si accovacci per terra e inizi ad urinare, come se fosse arrivata in riva, a tentare una sorta di vicinanza liquida con lo scorrere dell’immagine.

 

A mancare è l’incontro fra soggetti, il dialogo sembra impossibile, se non attraverso la mediazione dell’immagine. A mancare è l’altro, del quale resta un feticcio, una testa di cavolo dipinta come il pallone di Cast Away: se nel film di Zemeckis Tom Hanks, esasperato dalla negazione di ogni possibilità di comunicazione che non fosse un monologo, non poteva che calciare il feticcio, restituendolo alla sua funzione primigenia (ed entrando così realmente in rapporto con esso), allo stesso modo in Stray Dogs Lee Kang-Sheng mangia disperato il cavolo, fino a provarne nausea, per stabilire una relazione con l’oggetto, intuendo l’impossibilità di raggiungere il soggetto rappresentato.

 

Stray Dogs è un film sull’incanto della visione. L’operazione anticommerciale di Tsai Ming Liang (o se si preferisce senza retorica politica: il suo grido disperato e inascoltato – sebbene il grande magazzino sia subito riconosciuto come territorio nemico, mentre il corpo viene ridotto a palo che sostiene l’insegna pubblicitaria) cerca di ricondurre l’immagine alla sua temporalità premoderna, quando un’opera d’arte figurativa veniva contemplata per ore e per quello che era, ovvero l’epifania del trascendente e non, come nel contemporaneo, assimilata a prodotto di consumo, preferibilmente vorace, in modo tale da poter divorare altre figure, altre percezioni. I soggetti vengono ammaliati dalla visione, come gli spettatori di un film, che guardano i personaggi guardare qualcosa fuori campo, ma legati dallo stesso incanto.
In Goodbye Dragon Inn era la sala vuota a fissare quella piena; ora non resta che la visione della visione, in un rimando infinito, un accumunarsi nella stessa aura visuale, negazione e attestazione dell’unico abbraccio possibile che si vorrebbe non finisse mai.

da qui

 

I corpi tra le rovine di una società già post-globale sono presenti anche in Stray Dogs ma in una forma se si vuole ancora più radicale e radicata, come se facessero parte di un flusso del tutto interiore, che scardina anche in questo caso la retorica del racconto temporale: quel vicolo cieco dentro il cantiere che finisce sulla visione scopica di un orizzonte disegnato, tanto da far pensare ad una finestra finta, un paesaggio iper-reale che si apre dall’angustia di molte camere, sembra il simulacro di una sala Cinematografica, un’immagine del commiato scagliata contro di noi, uno schermo che riceve immagini da un non tempo, direttamente nella caverna, semplici riflessi la cui origine risiede oltre il tempo presente di una metropoli in rovina. Kang-sheng Lee si guadagna da vivere con una serie di espedienti e passa le giornate a reggere cartelloni pubblicitari in mezzo alla velocità urbana per due spiccioli e ad accudire i figli nel modo migliore che può. Taipei è tutt’intorno, città incongrua, città discarica con i cani randagi che non fanno una vita così diversa da quella di Kang-sheng Lee. Tre donne forse, la madre, la figura che compare nel giorno del compleanno e la donna del supermercato che si affeziona ai due bimbi; la più piccola comprerà una grande verza e truccata come una bambola, la terrà come compagnia immaginaria per il sonno, “Miss Tette”, la ribattezzerà il fratello. Proprio “Miss Tette” sarà dilaniata da Kang-sheng Lee completamente ubriaco; prima soffocata con un cuscino, poi mangiata, con un senso estremo della persistenza che nel primo cinema del regista Taiwanese apriva molte porte, conteneva più registri, dal sublime al grottesco, dal tragico allo slapstick, ma che in Stray Dogs ha una consistenza più feroce, ancora meno mediata se possibile, con gli occhi di uno straordinario Kang-sheng Lee che si gonfiano nel tempo “presente” del pianto, oppure il naso, che cola lentamente muco mentre l’uomo è esposto alle intemperie, durante il suo lavoro quotidiano. In un universo senza dimensione e senza alcun limite di tempo, il cinema di Tsai Ming Liang, colloca nel presente della città martoriata, l’aberrazione della sofferenza che si nasconde sotto i grandi insediamenti urbani, come “grandi cimiteri sotto la luna”; oltre questo spazio, non era proprio possibile spingersi.

da qui

 


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