giovedì 29 settembre 2022

Maigret - Patrice Leconte

Gérard Depardieu aderisce perfettamente al personaggio, misurato, testardo, disilluso, ormai anziano e acciaccato, il cardiologo lo tiene sotto controllo, non può fumare la pipa.

Maigret lavora per risolvere casi, apparentemente, in realtà se non può ridare la vita (ad una ragazzina senza colpe), può però assicurare i colpevoli alla giustizia, ma più di ogni altra cosa riesce a salvare qualche vita, per esempio quella di un'altra ragazza, che potrebbe essere sua figlia.

si respira l'ambiente dei romanzi di Simenon, e non c'è bisogno di fare le gare con Jean Gabin e con Gino Cervi, ognuno è diverso, meno male. 

non tutto è detto e spiegato, ma questi sono misteri di Maigret.

buona (parigina) visione - Ismaele


 

 

 

 

Con addosso il suo pastrano grigio e un cappellaccio a larghe falde che non toglie quasi mai, neppure nelle scene in interni, il Maigret di Depardieu è una delle incarnazioni più potenti del commissario inventato da Georges Simenon e già portato sugli schermi, tra gli altri, da Jean Gabin e Bruno Cremer, Gino Cervi e Sergio Castellitto. Depardieu non ha né l’autorevolezza di Gabin né la bonomia di Gino Cervi. Fatica a muoversi. Fa muovere gli occhi. Osserva. Scruta. Annusa. Cerca di assorbire l’ambiente. Di immergersi nel teatro del crimine. Di penetrare i meandri e i labirinti della psiche umana. Ma vedendolo al lavoro, così crepuscolare, così contorto e dolente, noi riusciamo a intuire qualcosa anche dei suoi labirinti interiori. L’ossessione che ha per un certo tipo di giovane donna, per la vittima, ma anche per un’altra ragazza che le assomiglia, e che lui cerca di sottoporre a un trattamento da “donna che visse due volte” di hitchcockiana memoria, ci lascia intuire che dentro quel corpaccione apparentemente insensibile c’è un vuoto profondo, e che quelle “figure” di donna non sono che ombre con cui cerca invano di riempire un’assenza. Ma sono anche loro come la pipa: inutilizzabili. Magrittiane incarnazioni di un incolmabile vuoto maigretiano.
Depardieu è davvero – letteralmente – gigantesco. E trasmette come nessun altro la percezione di come tutti abbiamo a che fare con un vuoto, con una mancanza, e con i cadaveri – veri o metaforici – che ci portiamo dentro. Perché di fronte a ogni indagine – che ne siamo protagonisti, lettori o spettatori – è nei nostri abissi che andiamo a frugare.

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Patrice Leconte realizza un giallo classico che rispecchia molto della liturgia del genere, dove l'intuito poliziesco si mescola con il tormento e l’umanità del protagonista interpretato da Gérard Depardieu, la cui fisicità entra in collisione con la sua delicatezza e le cui espressioni ci restituiscono l'emotività e la drammaticità di Maigret e delle sue indagini.

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a una prima visione ci si sentirebbe orfani di quel Mario Maranzana (Lucas) così ammirato dal capo da volerlo quasi imitare fisicamente. E di quel Franco Volpi (il giudice Comelieau) sempre ottusamente spazientito dai metodi del Commissario, per lui incomprensibili. E dell’amorevole Andreina Pagnani (“La Signora Maigret”), pronta anche in piena notte a raccogliere sfoghi e preparare un caffè.

Ma ad una seconda visione non si può che apprezzare il cinema rigoroso e al tempo stesso affascinante del regista francese, privo di ghiribizzi autoriali e ciance engagés. E soprattutto lo si può comprendere nella sua scelta di concentrare il suo film sull’interpretazione di Gerard Depardieu.

L’attore 73enne conferisce al Commissario caratteristiche diverse rispetto ai suoi tanti predecessori (oltre a Cervi i principali furono Jean Gabin, Bruno Cremer, Jean Richard), ma induce lo spettatore a pensare che Maigret non possa essere che così. La sua aria statica e crepuscolare rende ancor più profonda l’anima di un personaggio che dapprima fatichiamo a riconoscere ma ben presto cominciamo a considerare impeccabile. Un Maigret stanco, disilluso, che pare pronto a ritirarsi in campagna.

Tutte le riserve espresse sopra scomparirebbero all’istante se solo il film si fosse intitolato “L’ultima inchiesta di Maigret”. Alle volte basta proprio una minima correzione per rendere perfetto quel che era difettoso.

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È la prima volta che Patrice Leconte e Gérard Depardieu collaborano insieme. L’attore, che ha preso il posto di Daniel Auteuil originariamente previsto per il ruolo di Maigret, offre una delle sue migliori interpretazioni recenti, facendo sentire il passo stanco del suo commissario, che non ha più l’autorevolezza di Jean Gabin, che fa sentire gli acciacchi fisici e la malattia; infatti non può più fumare e spesso non ha voglia di mangiare. Ci sono le sue abitudini nel presente (il modo in cui saluta la moglie prima di uscire di casa) ma soprattutto è un personggio risucchiato nel suo passato. Nel corso dell’inchiesta, è come se fosse avolto dalla nebbia. L’inquadratura finale, sotto questo aspetto, rivela proprio la sua natura e il suo rapporto con un mondo che non riconosce più e da cui non è più riconosciuto. Tranne nella scena del ricevimento del fidanzamento, Leconte gira un film crepuscolare, malinconico. Prima del colpevole, Maigret cerca il fantasma della giovane ragazza assassinata come se lo riguardasse direttamente…

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Questa condizione di immersività e completo disorientamento delle coordinate del tempo ordinario al di fuori di un mistero che tieni svegli la notte, ricorda inconsciamente qualcosa di profondo a chi legge le pagine di un giallo o, in modo ancor più sottile, a chi nel buio di una sala o della propria casa se ne sta sprofondato in un divano, gli occhi fissi allo schermo. Il detective piace allo spettatore perché ne traduce narrativamente l’arresto forzato di fronte all’evento, quello del caso da risolvere così come quello della pellicola che scorre in avanti distogliendo chiunque la guardi (se è un buono spettatore, certo) dal fuori campo della vita.

Qualsiasi commissario, in altre parole, si porta dentro alla storia come voyeur, elemento esterno al contesto, osservatore, e quindi in fondo intruso caparbiamente e provvisoriamente avvinghiato a qualcosa di non suo che prima o poi, risolto il caso, lascerà andare al proprio corso. Solo in apparenza allora il detective è l’eroe che punta il dito contro l’omicida. Se guardiamo più in trasparenza il suo ruolo, costui rappresenta il dispositivo narrativo attraverso il quale allo spettatore viene data la possibilità di affacciarsi sulla realtà privata di un personaggio e sull’intrigo in cui quest’ultimo è coinvolto. I Maigret e i Poirot del caso perdono ogni spessore fisico o narrativo e diventano per noi una pura possibilità di sguardo, che svanisce quando la storia arriva al suo termine. La loro vita è al servizio del punto di vista che permettono a noi spettatori di perimetrare sulla realtà raccontata. In definitiva non esistono, se non per avverare il miracolo, nel tempo circoscritto di una storia, di vedere una nostra proiezione muoversi in un terreno immaginario.

Tutto questo è decisamente evidente nel Maigret di Leconte. Per quanto il suo investigatore abbia la corporeità robusta di Gérard Depardieu, per tutto il film si muove nella storia come un’ombra, spesso silenziosa o che parla a mezza bocca. Nell’indagine è solo, e anche nei pochi momenti in cui si rivolge al suo secondo o alla moglie (la sera, quando torna a casa) il suo sguardo è assente e il fuori della vita gli scivola addosso come se non esistesse. Leconte ci mostra in modo radicale che Maigret non è una persona, è la chiave di volta di una narrazione che ne compromette qualsiasi umana individuazione.

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La soluzione del mistero viene rivelata quasi subito e non ci sono sorprese. Ciò porterebbe a considerare Maigret più come un film psicologico e drammatico piuttosto che un giallo. Infatti, basandosi semplicemente sulla costruzione della scena del crimine, Maigret apparirebbe un film piuttosto debole che fallirebbe nel riuscire a intrattenere chiunque abbia fame di un thriller elaborato. Ma Maigret è molto più di questo. Nel corso delle sue indagine, Maigret incontra una ragazza giovane e amareggiata dalla vita, amica della defunta che riesce a far breccia nella sua corazza emotiva ricordandole la figlia morta che ha segnato indelebilmente la sua vita. Ed è così che grazie al suo incontro trova una rinnovata forza per addentrarsi in una Parigi che assume quasi il significato di purgatorio, cercando di muoversi con cautela senza causare dolore che non sia necessario poiché anche lui stesso è stato toccato dalle ingiustizie della vita. Il finale, esattamente come tutta la struttura del film, è classico e perfettamente in linea con la storia derivante dalla fonte letteraria originale.

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Il corpo di Maigret è già parte integrante del suo senso, della sua visione del mondo, del pensiero che ogni tanto fugge verso memorie poco piacevoli, perfino tragiche. Di nuovo con grande intelligenza Leconte e Tonnerre evitano di entrare con troppa malagrazia nel dettaglio di ciò che davvero agita gli incubi di questo ufficiale di polizia, lasciando allo spettatore il dovere di porsi le domande e darsi le giuste risposte. Il cinema può e forse in determinati casi deve preferire la dissolvenza, il non detto e il non visto, il fantasma che resta nell’inquadratura e la agita, suo malgrado, senza divenire materia. Come Maigret cerca, suo malgrado e con tutti i limiti della logica, di trovare la “verità”, allo stesso tempo Leconte sembra compiere lo stesso percorso con il cinema, rifuggendo il colpo di scena, il cliché narrativo, la prassi del poliziesco e preferendo un sorso di calvados, di birra, o di vino bianco, quel vino con cui il commissario ha iniziato l’indagine e intende portarla a termine. Così Maigret – preciso il titolo generico, quasi si trattasse di una speculazione filosofica sul personaggio, di una ripresa saggistica – non diviene il racconto di un’indagine della polizia, tesa a scoprire chi abbia potuto uccidere così brutalmente una ragazza sperduta, sola, triste e disincantata, ma si tramuta in un viaggio per lo più oscuro nella Parigi che non c’è più eppur c’è sempre, la Parigi dei bistrot, degli abiti presi a nolo, dell’aspirazione di una provincia che vorrebbe ambire al palcoscenico della capitale. Ecco perché il pubblico in parte ha scelto di voltare le spalle a Maigret, preferendogli probabilmente qualche thriller ansiogeno, girato e montato a rotta di collo, a perdifiato. L’unico a perdere il fiato qui è Maigret, per colpa di quei sei piani di scale da superare per scoprire un dettaglio in più di una ragazza morta, un dettaglio in più per comprenderne la vita, i sogni, le illusioni. A Leconte e a Maigret non pare interessare davvero chi l’abbia uccisa (“non sono io a giudicare”, sentenzia il commissario), ma solo che sia morta, che così giovane non abbia più vita in corpo. Tutto muore, e nessuno sembra rendersene conto, sottolinea il film, ribadendolo nella scelta di un’inquadratura finale – e di un montaggio interno – che lascia a suo modo senza fiato.

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Depardieu che, pur incarnando un essere estremamente fisico, pare già (pre)destinato alla dissolvenza, affaticato più che dalla vita quotidiana dalla consapevolezza della vita mortificata dagli (in)umani.

Un essere che portandosi dietro l’antico spettro di un lancinante dolore personale, deambula come un fantasma all’interno di questo limbo immerso perennemente nel grigio-azzurrino. La trama è importante, avvincente, ma Leconte la trascende lavorando su una forma filmica manierata talmente all’estremo da creare un mondo “altro”, statico, dove accademia e sperimentazione diventano quasi indistinguibili. Un mondo dominato comunque da ambienti e personaggi intensi, e per certi versi, in questo, speculare a uno scrittore di genere come Simenon che fu rivalutato – anche da personalità come André Gide – proprio perché trascendeva i codici del genere e lavorava magistralmente su ambienti e personaggi forti.

Il dolore di Maigret è sommesso quanto è grande il suo pudore. E nel restituire futuro a una giovane che tenta senza successo di sedurlo ma che al contempo si aggrappa a lui come a un padre, egli diventa finalmente padre, magari per poco, magari già in dissolvenza proprio come lo è l’effimera esistenza umana. In questo film di fantasmi alla ricerca della vita, se questa risorge è forse perché tutto è invertito ma nel modo giusto, perché una volta tanto – al contrario di Hire – alla fine tutto si fa diritto, il rovescio dello storto. E senza retorica. Come Maigret.

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La Parigi rappresentata è grigia, con qualche luce solare che illumina lo schermo. Ma il più delle volte, questa atmosfera degli anni '50 appare abbastanza malevola, dove la morte di questa ragazza non sembra essere una coincidenza. 

Maigret vaga in questo triste universo di giovani donne che dalla provincia cercano fortuna nella grande città, ma molto spesso devono pagare qualcosa,  specie nell'ambiente del cinema.  

Invaso da una malinconia che pare affaticarlo, il medico teme abbia qualcosa ai polmoni quindi gli farà fare una radiografia che ritrae gli ultimi istanti di un uomo che ha abusato della sua pipa e dell'alcool.  Ma lui resiste e il ritrovamento della giovane morta, porta una speranza nella sua vita come per confrontarsi meglio con i suoi stessi demoni. 

A prima vista la ragazza, chiamata Louise, che indossa un abito da sera, sembra essere come una qualsiasi delle intrattenitrici dei locali notturni, ma c'è qualcosa in lei che fa intuire a Maigret di non essere tale.

Non pare neanche un'aggressione di routine per una rapina. Una teoria successivamente confermata da esami forensi proverà che non è morta a causa della ferite, ma ha il collo spezzato come da una caduta. 

Louise la vediamo all'inizio timida e impacciata mentre si trova in un atelier a provarsi un abito di lusso, ma in affitto, deve recarsi a una festa in un ricco palazzo borghese, sapremo che non ne uscirà viva.   

Al regista Patrick Leconte importa poco della trama e del movente quasi assurdo. Tutta la sua attenzione è concentrata sull' imponente figura di Maigret. La camera lo inquadra spesso da dietro o dall'alto, come una figura mitica. In realtà il film pare messo insieme apposta per Depardieu.

L'attore di fatto regna sul suo personaggio in una complessa miscela di delicatezza, malinconia e durezza. 

È un uomo che ascolta e scruta gli altri, senza considerare se stesso, si interessa alla figura di queste giovani ragazze sbandate dando a una di loro un tetto, e il motivo pare molto personale custodito nel suo tragico passato. 

In questo caso si premura di piazzare un'altra giovane nell'appartamento della defunta rimasto vuoto, senza avvisarla però che apparteneva a una persona assassinata da poco, e per certi versi usandola come esca verso il presunto assassino.   

Il cast eccelle su tutta la linea con Gerard Depardieu al centro, metodico e sempre attento in un caso articolato che sembra significare molto per lui. In un breve colloquio con la moglie al cimitero mentre seppelliscono la povera Louise (Clara Antoons) ricorda la figlia scomparsa prematuramente: ora avrebbe l'età della defunta.

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Lástima que en otros momentos el director se convierta en su peor enemigo y en un intento por darle una aire más “moderno” o de exploración de posibilidades a algunas secuencias caiga en trampas. Ejemplo de ello el abordaje visual del interrogatorio de la farmacéutica, donde sustituye el recurso del montaje en plano contra plano por un ejercicio forzado de plano secuencia con molesto movimiento de cámara, que no encaja ni con el momento ni con el contenido o la intensidad que requiere la conversación.

         Otro tanto podría decirse de la entrada de Maigret en el estudio de cine para interrogar a la actriz, abriendo falsas puertas de decorado que no llevan a ninguna parte, una buena metáfora de su recorrido por el laberinto del crimen que investiga pobremente presentado en lo visual y por tanto desperdiciado, como el cambio del plano general en el interrogatorio de la portera del edificio donde vivía la víctima para pasar a un plano picado sobre los personajes que podría ser interesante si aludiera a la idea de que la investigación de Maigret está siendo contemplada por los ojos de la propia víctima en todo momento, como se insinúa por esa vinculación inicial de ambos, o por los planos de punto de vista subjetivo de Maigret que casi se confunden con los de la muchacha en la escalera del local donde se celebró la fiesta, pero que luchan contra el lastre de una pobre resolución visual y no llegan a materializar esa línea de propuesta de punto de vista compartido en la trama.

         Hay una tendencia del director a dejarse llevar por un efectismo prescindible que es puro efectismo, como la resolución visual final que elige para cerrar visualmente el personaje de Maigret mientras doblan las campanas.

         El resultado de todo ello es una película fallida, fría en muchos momentos, que no acaba de engancharnos, aunque tenga algunos momentos interesantes.

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Lo spleen baudelairiano che caratterizza questo Maigret si riflette nel proscenio del film, nella luce livida che a stento illumina cose e persone spesso isolate, come in un dipinto del realismo americano più che nei ritratti sordidi ma vitali della vita francese tipica di Simenon. Ed è questa la scelta più azzardata e straniante attuata da Leconte. Eliminare quasi interamente la descrizione della Francia del dopoguerra, fatta di bistrot affollati, tavole calde, uffici, vita in strada e la realtà proletaria o piccolo borghese che sono il vero soggetto di questi romanzi – in cui l’indagine è un pretesto per raccontare il cambiamento sociale e culturale di un Paese in evoluzione – viene quasi a snaturare il soggetto stesso da cui il regista attinge.

In pratica Leconte parte da Maigret per rileggerlo, riscriverlo, reinterpretarlo allontanandosi dall’adattamento fedele e forse fuori tempo commerciale per darne una sua personale versione che esula dal personaggio stesso e dal suo contesto a partire dal titolo, che rimanda più all’idea del noto personaggio che al romanzo in oggetto. Come lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, Maigret è altro: riprende la figura principale ma lo rielabora liberamente in un efficace racconto di genere che rimanda all’universo specifico di riferimento pur non venendone a farsi parte integrante. Ecco che la frase “questa non è una pipa”, pronunciata dal protagonista rifacendosi al surreale umorismo del noto dipinto omonimo di René Magritte, racchiude la sostanza dell’operazione di Leconte. Il suo Maigret non è Maigret, è una rappresentazione e come tale non reale: in definitiva una riuscita pur se evidente imitazione.

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Maigret termina mejor que empieza. Sin embargo, eso nada tiene que ver con la investigación criminal en la que se apoya la trama ni con la resolución del crimen, sino con las actuaciones de Gérard Depardieu y Jade Labeste, que convierten el vínculo entre sus personajes en el elemento más humano e interesante de la cinta.

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