lunedì 29 novembre 2021

Il tempo dell'inizio - Luigi Di Gianni

nella filmografia di Luigi Di Gianni ci sono tanti cortometraggi, sceneggiati per la tv, documentari (ha affrontato prevalentemente temi antropologici, religiosi e sociali, esplorando, in particolare, l'intreccio tra ritualità pagana e cattolicesimo popolare nell'Italia del Sud, dice wikipedia), e un unico film, Il tempo dell'inizio.

una storia antica e moderna insieme, David Lamda sta in un manicomio e ha ancora la forza di fuggire o voler  fuggire.

è un manicomio vecchio stampo (pre-Basaglia), con medici padroni e pazienti che valgono meno di zero, il manicomio è una struttura non di cura ma di dominio e annullamento della persona.

è un film cupo, pessimista, disperato, non c'è salvezza, si può provare la fuga, la salvezza, ma è impossibile.

i medici e infermieri e infermiere sono come una loggia (massonica?) che governa il mondo, secondo logiche di punizione, paura, esclusione, anelli di un sistema dove alla fine comandano la violenza e le armi.

un film da non perdere - Ismaele

 

 

QUI il film completo

 

 

Girò in lungo e in largo i territori dell’ex-Jugoslavia Luigi Di Gianni per scegliere le location de “Il tempo dell’inizio”, un film di quarantuno anni fa di non facile collocazione nella cinematografia italiana per non dire di quanto sia stato bistrattato.

Ma come Pasolini, che inizialmente voleva realizzare il suo Cristo nei territori della Palestina, Di Gianni si convinse di portare la troupe in Basilicata, tra Craco, Pisticci, Matera e le sue Chiese Rupestri (altra location è il real albergo dei poveri di Napoli).

Dall’ex-Jugoslavia, però, il regista fece arrivare Sven Lasta (1924-1996) – attore teatrale croato molto conosciuto e amato in patria – a cui affidò il ruolo di David Lamda, un internato di un manicomio che tenta la fuga ma viene subito riacciuffato e sedato. L’uomo si ritrova così a vivere un delirio visionario, immagina (o sogna) di muoversi in una realtà orwelliana in cui un sistema di potere (e del male) ben strutturato agisce per cassare la libertà dei sudditi ed imporre un terrore che rimanga impresso nella loro mente. Un girone infernale dilatato a dismisura con la sua popolazione compiacente della sottomissione a cui è sottoposta e che Lamda sembra non voler accettare e cerca una propria salvezza che, naturalmente, non troverà. Il ritorno alla realtà non sarà per lui meno scioccante, il caos anche qui impera, il deflagrare delle armi e l’avanzare di un carro armato che andrà invadere tutta la superficie dello schermo annunciano altre destabilizzanti e deprimenti condizioni.

Con questo trattato claustrofobico Di Gianni segue traiettorie cupe nel cui destino dell’uomo sembra esserci sola la dannazione…

da qui

 

Film d’esordio del regista, ammantato di realismo magico, trasporta Kafka e Orwell in Lucania…
E’ la storia di un giovane di nome Lamda (parente stretto di Samsa de La metamorfosi), chiuso in un manicomio, che sogna di essere vittima di una crudele e cupa dittatura e riconosce nei volti dei suoi persecutori quelli dei medici e degli infermieri…il risveglio dalla sua delirante visione scoprirà una realtà ancora più agghiacciante.
Ricchissimo di significati e girato in un bianco e nero che si ispira a Dreyer, il film dà corpo a un delirio apocalittico e visionario che si rivela come metafora dei dolori e delle ingiustizie patiti dall'umanità.
Grande abilità del regista documentarista con interessi etnologici nello scoprire l’insolito ed il mistero celato nei paesaggi dell’Italia meridionale. E’ tempo di ritrovarlo.

da qui

 

Fuori non si sa cosa ci sia. Le pareti del manicomio sono diroccate, rugose di antichità e di incuria. Ma, dentro, il “metodo” è moderno. Offre una specie di rifugio dalle incomprensioni del mondo, che costringono chi è diverso a sentirsi malato, bisognoso di cure e riposo. David Lamda è finito lì, perché ha gridato alla gente il suo messaggio, dalla cima di un edificio. Voleva parlare a tutti, e per questo è considerato un soggetto antisociale. Ci sono cose che tutti segretamente desiderano, ma pubblicamente disprezzano. Come fare la guerra. Come dare fuoco alle città. Come ribellarsi al potere che opprime e sfrutta, senza dare alcuna speranza. L’appiattimento è chiamato uguaglianza. L’inerzia è chiamata pace. Dire di no significa non stare ai patti. David, nel sonno artificiale indotto dagli psicofarmaci, sogna l’incubo che è già diventato realtà: un regime in cui la follia è dettata dal potere, che trasforma l’utopia in sottomissione ad un ideale fatto di solo ordine ed assenza di pensiero. In quella dimensione immaginaria, i medici e gli infermieri sono artefici di un politica che governa tutti per non avere nulla da governare, per potersi limitare ad incassare i frutti materiali dell’assoggettamento, senza dover risolvere problemi, realizzare obiettivi, inventare mezzi. È il regno di un’operosa tranquillità, diligente ma priva di creatività, che raccoglie anziché costruire: è erede della morte, mentre saccheggia i campi di battaglia, sottraendo rifiuti al deserto in cui niente potrà mai crescere, e tutto, prima o poi, viene sepolto dalla sabbia. Nessuna memoria da conservare. Solo refurtiva da consegnare ai capi. Ma, per David, quella statuina di terracotta non è una semplice “cosa”. È un’immagine viva, il ritratto di una donna colta nell’atto di alzare le braccia al cielo, forse per urlare, per lanciare un’ultima sfida. Vibra di sdegno e di coraggio, invocando aiuto, condannando il male.  Il disagio proclamato a gran voce è il vero anticonformismo: il resto è una rassegnazione estetizzante, che addormenta i sensi, eternando i canoni, perpetuando la seduzione dell’apparire…

da qui

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