giovedì 11 febbraio 2021

Rams – Storia di due fratelli e otto pecore - Grímur Hákonarson

un film semplice e universale, lo capiscono in tutto il mondo.

nelle deserte valli islandesi ancora vive qualcuno, qualche pastore di pecore, che ama più gli animali degli umani.

i rapporti con gli altri umani sono difficili, rancori mai sopiti rendono la vita ancora più solitaria.

e alla fine una sorpresa.

un buon film, promesso - Ismaele



 

 

 

descrive con grande efficacia un mondo ridotto all’osso, in cui la pastorizia è l’unica fonte di sostentamento e le pecore sono al centro della vita (e degli affetti) di un’intera comunità. La regia spartana racconta una terra scarna abitata da personaggi di pochissime parole e pochi gesti legati alla sopravvivenza quotidiana. La nudità occasionale dei due fratelli, che si rivelerà una potente chiave di lettura dall’inizio alla fine della storia, diventa il simbolo di quell’essenzialità scoperta e vulnerabile che caratterizza le vite di entrambi, e la loro solitudine assoluta. I due attori protagonisti sono efficacissimi nel narrare attraverso espressioni minimali e una fisicità sofferta, levigata dalla fatica come dal vento del nord: in particolare Sigurður Sigurjónsson, attore comico e cabarettista nel suo Paese, è una sorpresa nei panni dello stoico Gummi.
Purtroppo la trama di Rams – Storia di due fratelli e otto pecore è esageratamente minima e i tempi dilatati della narrazione, che hanno incontrato il favore del pubblico festivaliero, sono appunto troppo “da festival” per tener desta l’attenzione di un pubblico generalista, abituato a ritmi più sostenuti e a vicende più complesse. La linearità della storia è dunque da un lato la forza del film, poiché corrisponde esattamente alla natura laconica e rarefatta della vita che racconta, e la sua debolezza in termini di appeal cinematografico per lo spettatore medio.

da qui

 

Hakonarson, apprezzato anche come documentarista e qui al secondo lungometraggio, si dimostra piuttosto abile a bilanciare il registro tragicomico della vicenda, tanto che talvolta si pensa a maestri scandidavi come Kaurismaki e Andersson. Nell'ultima parte il regista abbandona il tono modulato che aveva dominato tutto il film in favore di un'impennata di ritmo che accompagna ad una conclusione tronca ma comunque suggestiva e nella quale ai modelli già citati si vanno ad aggiungere Kurosawa, il nostro Ermanno Olmi e tanta letteratura nordica (dalle saghe mitiche ad alcuni recenti autori popolari). Alla riuscita del film contribuiscono gli egregi contributi dello scenografo Bjarni Massi Sigurbjornsson, del compositore Atli Örvarsson e soprattutto del direttore della fotografia Sturla Brandth Grøvlen (acclamato per il suo lavoro nel film tedesco "Victoria" di Sebastian Schipper), grazie ai quali si riesce non solo a sfruttare la rinomata bellezza dei paesaggi islandesi ma a cogliere negli interni una quotidianità meglio di altri acclamati film recenti.

da qui 


La conclusione è quanto di più commovente si possa vedere al cinema in questo momento, perché vera, assolutamente non forzata da sentimentalismi gratuiti. Questo vale per tutto il film, tanto che, nonostante la drammaticità e una certa cupezza di fondo, nonché una cappa di nera malinconia, non sfocia mai nella depressione più soffocante. Tutto l'opposto: c'è un lento ritorno alla vita che passa prima da una presa di coscienza e poi da un'azione radicale. Abbiamo usato la parola “azione” non a caso: il riscatto passa dall'agire, dal movimento, dalla rottura di una staticità sia esteriore (la vallata isolata da tutto, la fattoria antica, la vita dell'allevatore che procede identica a se stessa per decenni) che interiore. Ne risulta un'esperienza cinematografica appagante, che si chiude con una grande vittoria dell'animo umano e, nonostante tutta la cupezza di cui sopra, ci lascia in uno stato d'animo positivo.

da qui



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