venerdì 13 aprile 2018

Charley Thompson (Lean on Pete) - Andrew Haigh

Charlie è un bravo ragazzo, un po' sfortunato, senza madre e con un padre che c'è e non c'è.
Charlie si trova un lavoretto da un padrone di cavalli da corsa, e diventa amico di Pete, un cavallo che diventa suo amico, l'unico, al quale racconta tutto quello che nessun altro ha mai ascoltato.
ci si muove molto, nel film, Charlie fa jogging, pulisce la cacca dei cavalli, guida il furgone, fa centinaia di chilometri a piedi con Pete, qualcuno lo ospita, come due ex soldati un po' fuori di testa, o un barbone.
è un film di sottoproletari, che cercano di arrivare alla cena, e domani sarà un altro giorno.
mi ha ricordato Bill, il ragazzo di Oltre il confine, di Cormac Mc Carthy, che salva una lupa e si crea un rapporto profondo fra i due, come accade a Charlie e Pete.
ottima fotografia e regia, il film non annoia mai, non perdetevelo, se siete vicini a una delle 13 sale che lo programmano - Ismaele





…Per il primo film americano il regista inglese Andrew Haigh (Weekend45 anni) ha deciso di adattare il romanzo di Willy Vlautin edito in Italia da Mondadori con il titolo La ballata di Charlie Thompson e ambientato in Oregon. Che Haigh sia inglese e abbia deciso di raccontare una storia tipicamente americana, oltre che archetipica, non è poca cosa. L’essere estraneo a certi fatti e luoghi gli ha infatti permesso una distanza che è la cifra del racconto e la vera fortuna del film.
Quella di Charlie e Lean on Pete è una storia di dolore, perdita e solitudine, una chiara metafora di una parte America sempre più povera e abbandonata a se stessa. Ma dove un regista americano avrebbe potuto lasciarsi andare a patriottismi, sentimentalismi e retoriche, Haigh mette in scena con il suo inconfondibile naturalismo un’opera classica e struggente, severa emozionante, mai patetica…

Si può leggere Lean on Pete come un ennesimo bildungroman, formazione di un giovane uomo in un’America deprivata e derelitta. Come un western dell’anima. Tutto déjà vu. A fare stavolta la differenza è la regia, invisibile, delicata quanto potente e assai consapevole. Andrew Haigh ha una profonda, sincera compassione e un rispetto assoluto per i suoi personaggi (lo aveva dimostrato anche in Weekend e 45 anni), e per Charley in modo speciale, che è di pochissimi autori oggi. A me ha ricordato il più grande Vittorio De Sica, quello di Ladri di biciclette, di Umberto D, della Ciociara, e l’Ermanno Olmi tra anni Sessanta e Settanta. La macchina da presa non è mai aggressiva, diversamente da quanto succede tanto spesso nel cinema giovanottesco, ma si pone come in attesa dei personaggi e del loro agire o non agire. Tempi dilatati, rallentati, ma non estenuanti, e niente esibizionismi, niente piani sequenza interminabili a maggior gloria del suo autore. Qui il tempo della mdp è, semplicemente, quello dei personaggi e della storia, in una sincronia che sa restituire il senso del vero. Della vita. E mi viene in mente anche certo Richard Linklater, inrimis quello di BoyhoodLean on Pete ci coinvolge fino allo strazio, dificile resistere impassibili all’odissea di Charley. Epppure non c’è mai sentimentalismo, nessuna bassa exploitation. Film etico, esempio di un cinema umanista in via di estinzione. Il ragazzo Charlie Plummer (vista quache mese fa quale Gatty rapito in Tutti i soldi del mondo) è una rivelazione, e giustamente a Venezia gli han dato il premio Mastroianni come migliore promessa.

…A colpire forte, in Charley Thompson, è la maestosa sinergia che lega gli elementi della tradizione classica del cinema americano (del resto, l’impianto principale è quello del road movie) ad alcune sfumature moderne che emergono in termini di narrazione, di tecniche e soprattutto di magistrale dribbling antiretorico.
Avendo poi ancora negli occhi le insopportabili, ruffiane evasioni alla Into The Wild e dintorni, non posso che accogliere Charley Thompson con le trombette: come un romanzo picaresco, perfettamente fotografato dal danese Magnus Jønck, la struggente solitudine di Charley e del mesto Pete è sempre lirica, mai patetica, simile alla vita nel suo risolversi a cavallo (è proprio il caso di dire) tra sogni, apprendimento e tragedie.
La progressione del distacco di Charley dal resto del mondo è fagocitante, ma la decisione non è mai né semplice né del tutto salvifica. Questa morale, insieme alla sensibilità antispecista del giovane eroe, contagia e stritola lo stomaco.
Soprattutto quando la sceneggiatura di Haigh, con esemplare modus operandi, si abbandona alle spalle tutti gli altri personaggi per coccolare e seguire il quindicenne senza famiglia e senza casa, che antepone la salvezza di un cavallo in là con gli anni alla sua.
La traversata di Charley diventa così un rito di passaggio, una brusca iniziazione, un dramma profondo ma con risalita e via d’uscita.
Suoni malinconici e sintonie folk accompagnano splendidamente l’itinerario.

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