sabato 17 dicembre 2016

E' solo la fine del mondo - Xavier Dolan

i film di Xavier Dolan sono grandissimi, ormai lui è uno dei grandi del cinema.
i suoi film non ti lasciano mai indifferente, inizi a guardare e sei parte della storia, un osservatore che gioisce (alcune volte) o soffre (quasi sempre) con i suoi personaggi.
guardando il film mi è venuto in mente un libro di David Cooper del 1972, intitolato La morte della famiglia.
le famiglie di Dolan (e non solo), anche in questo film, sono campi di battaglia, dove i deboli devono cedere o fuggire, vivi o morti.
gli attori sono tutti straordinari, quella merda del fratello, quell'infelice della cognata, quella fuori di testa della madre, e Suzanne, la sorella che ha sempre avuto bisogno di Louis.
qualcuno di loro l'abbiamo incontrato tutti nella vita, e questo ci coinvolge oltre il dovuto, oltre il politically correct, e ci coinvolge senza trucchi, né ricatti.
tutti i film di Dolan oscillano fra il bellissimo e il capolavoro, e questo non fa eccezione.
i silenzi di Louis sono (stati) anche i nostri, certe volte, e lo sentiamo come un fratello.
è in poche sale, naturalmente, ma cercatelo, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele







La musica è tutto (dai Blink 182 alle esuberanti sinfonie del compositore di fiducia Gabriel Yared), i primi piani sono pura erotizzazione della recitazione (mai stucchevole però; come cavolo fa???), il tempo del presente un incalzante concerto vissuto in prima fila mentre i flashback nella mente del malaticcio Louis diventano uno struggente viaggio nella memoria dove capisci che lui si è perso e dove senti che lui vorrebbe tornare (il fratello lo portava sulle spalle; ora gli vuole spaccare la faccia).
La sorella lo rimprovera perché potevano essere anime gemelle. Il fratello è dilaniato dal complesso di inferiorità. La mamma cerca un equilibrio poetico nella saggezza politica.
La cognata (siamo noi) li guarda atterrita e forse… è l’unica che capisce che il ritornante è un morto che cammina.
Louis tace sempre.
Noi no: “È UN CAPOLAVORO“.
Urlandolo a squarciagola.

…Il diritto di poter essere padroni, per quanto possibile, della propria vita, di condividere la propria morte.
Parlare della propria morte come testimonianza della propria vita.
Il diritto di esprimersi.
Il diritto di poter riassaporare, rivedere e riascoltare i frammenti della propria vita, sparsi ma raccolti. Lontani, ma ancora raggiungibili. Fino al limite estremo.
Il diritto di rivangare non tanto il passato, quanto la memoria di quel passato.
Il desiderio di rivedere la “vecchia casa maltrattata dal tempo”. Ricordi di miseria e tempi duri, ma quando la vita passa davanti, tutta, sapere di aver vissuto in un posto che malgrado tutto è lì, meta e non solo punto di partenza, appartiene alla legge del desiderio di riconciliazione che sgorga.
Nella vecchia casa sono nati i sogni, e Louis avrebbe voluto accarezzarli per l'ultima volta.
Desiderio di riscoperta per chiudere degnamente il cerchio. Desiderio che la testa poggi di nuovo su quel materasso.
La vecchia casa, non ha senso vederla: la brutalità della rinuncia.
Desiderio di avere la possibilità di pronunciarsi, di pronunciare la morte, per spezzare quel tabù condividendo la verità, nuda e semplice, eppur dolorosa, con la propria famiglia, con chi più di chiunque altro ha il diritto e il dovere di sapere e accogliere.
“Che cosa sei venuto a fare”, domanda ripetitiva come una interrogativa subdola. Non c'è tempo per porsi in ascolto per più di una manciata di secondi, si è perso il tempo dell'attesa, del mettere gli altri nelle condizioni di esprimersi secondo i loro tempi, le loro intenzioni, le loro necessità.
La pendola, il tempo scorre, quando sarà il momento giusto?
Le parole circostanziali per introdurre le parole “giuste”, quanta fatica. Scegliere il momento “giusto”, Louis ci ha provato, tre parole da dire e da rispondere, quelle essenziali, a volte quelle per rompere il ghiaccio dell'omertà.
La paura di parlare e di ascoltare, per contro, la paura di sentirsi dire che si muore, come se non lo sapessimo…

un tipo di cinema che non può che dividere. Da amare o da odiare. Perché c’è chi non sopporta il concentrato di narcisismo maniacale che Dolan propone coi suoi protagonisti, un narcisismo che diventa sempre un concentrato di genialità, di malattia, di autocommiserazione di chi non si sente mai abbastanza cresciuto o amato. Certo, possiamo vederlo anche come pura messa in scena teatrale di rapporti conflittuali tra chi è cresciuto negli anni fluidi di Moby. Ma Dolan, coi suoi già 27 anni, non ci propone mai solo questo. Pretende di più dai suoi spettatori, dai suoi personaggi e da se stesso che un bel drammone recitato da attori strepitosi come Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard. Nel ritorno a casa dopo 12 anni di assenza di un geniale autore teatrale malato, Gaspard Ulliel, che cerca la forza di comunicare la sua imminente fine alla madre svalvolata, Nathalie Baye, e ai fratelli, leggiamo anche una sorta di auto-messa-in-scena di Dolan e delle proprie paure dopo tanti film di successo…

"Juste la fin du monde" è un film che necessiterebbe di più visioni per poterne cogliere e custodire le tante sfumature. Alla delicata sensibilità con cui sono ritratti tutti i personaggi (anche Antoine, alla fine, rivelerà una rimossa fragilità) si accompagnano le sfumature delle scelte di messa in scena, che Dolan padroneggia sempre più sicuro, lavorando meglio anche per sottrazione. Le stesse aperture musicali sono più rare e rarefatte: i "momenti-videoclip" sono diversi, per tono, rispetto ai film precedenti - abbondano le musiche in minore, e sulle canzoni pop predominano brani strumentali e strumentazioni classiche.
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.

Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce…

Al lavoro per la prima volta con attori noti, Dolan ne isola i volti nell’inquadratura e riprende le loro reazioni, che si esprimono in una struttura campo-controcampo claustrofobica e oppressiva. Questo permette agli interpreti di costruire le emozioni dei personaggi sfruttando la micromimica facciale, distribuendo nelle espressioni del volto il loro dissidio interiore. I visi degli attori intrattengono un fraseggio mimico e verbale dal ritmo musicale. Così Louis blocca i tratti in una maschera sommessa, controbilanciata dalle reazioni ferine e incontrollate del fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel) che tratteggia la rabbia originando un universo espressivo compresso, concentrato in una tensione oculare scandita al tempo delle battute pronunciate. La Catherine di Marion Cotillard trasforma la propria fragilità e indecisione di moglie remissiva in un balbettio che è anzitutto mimico. Lea Seydoux attribuisce alla sorella Suzanne – che conosce Louis solamente nei racconti familiari, era infatti una bambina quando il fratello ha lasciato la famiglia – un’instabilità emotiva e un impeto espressi in uno sguardo tagliente e disperato. Nathalie Baye dona alla madre un’aria trasognata ed eccentrica, rivelata in un fiume verbale ininterrotto…

Nelle parti più riuscite par di assistere a un girone di dannati che si sbranano, si fanno del male fingendosi di amarsi. Ma l’operazione resta sempre all’esterno dei personaggi e del testo. Dolan mostra i muscoli facendoci capire quant’è bravo come metteur en scène, ma gli manca un pensiero davvero forte, un progetto per organizzare la materia che si ritrova tra le mani. Resta alla fin fine un ragazzino di talento, e sarebbe anche ora che crescesse. Non è un disastro, Juste la fin du monde, nei momenti più alti è un huis-clos teso e disturbante al punto giusto, folle e concitato. Dolan mantiene il suo rango d’autore. Ma è un film-limite oltre cui dovrà reinventarsi e smetterla con certe astuzie pop che l’han reso tanto amato tra giovani e fashionisti, e rischiare di più, mettersi in gioco. Il punto di massima fragilità è il pessimo Gaspard Ulliel, lamentoso e inespressivo, incapace di reggere un film che ruota intorno a lui (Ulliel è pessimo anche in un altro film visto a Cannes 2016, La danseuse). Mentre gli altri son bravissimi, ovvio, avendo Dolan chiamato a raccolta il meglio del cinema french-speaking: Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye. Tutti formidabili. Con menzione speciale per la Cotillard in un ruolo ingrato.

…Juste le fin du monde è un film claustrofobico che gioca con i sensi primari dello spettatore, senza riuscire mai a sbarcare nel postmoderno, o in qualunque altra scelta artistica degna di nota. In contrasto con chi afferma che certi altri film autoriali siano fin troppo concettuali, è invece concettualissimo il nuovo film di Dolan (e anche tutto il suo cinema): è un modo di girare che scava nelle idee e nelle trovate, praticamente un campionario di immagini che cercano l’angolatura più curiosa, per la più strampalata delle scene. Fuffa, fumo negli occhi. Ogni scena del film sembra accontentare uno stato d’animo differente, tradendo l’unicità e l’univocità ricercata del film stesso, come se potessimo vedere proprio lì, in mezzo alle immagini, Dolan che sviscera tutto il materiale che gli viene in mente, e si sfoga senza però mai lasciarsi andare. Ma Juste le fin du monde non è un film né sull’immaginazione, né su un’eventuale schizofrenia emotiva (che porta in effetti Dolan a usare con sfacciata noncuranza le musiche più disparate): quello che le immagini vogliono dire (e si fanno intendere, perché spesso sono facili, schiette, dirette) è che la vita è, se non per rari sprazzi sognanti, un lento avvicinarsi alla luce (il finale). Ma, sorvolando sull’eventuale originalità dell’idea (e di tradurla in un dramma familiare da camera), è davvero così affascinante una divisione così netta delle parti? Un uso così simbolico e schematico delle scene e delle sequenze si addice all’idea immersiva di un cinema che vuole a tutti i costi emozionare, percuotere, destabilizzare con i suoi estremi opposti?...


5 commenti:

  1. Grazie per avermi linkato e per il consiglio letterario, fa sempre piacere condividere con voi :)

    RispondiElimina
  2. ecco chi è David Cooper: https://it.wikipedia.org/wiki/David_Cooper_(psichiatra)

    se il voi è perché ho più di 50 anni va bene sempre il tu, se pensi che siamo in tanti sono solo io, e quindi ritorniamo alla soluzione del tu :)

    RispondiElimina
  3. Ahaha è che a volte leggo Francesco, altre Ismaele. Mettetev.. ehm mettiti d'accordo :) ho appena trovato in libreria La morte della famiglia a 6 euro (5a edizione del '78), grazie ancora!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. da quando ho conosciuto Fernando Pessoa non sono più me stesso...

      Elimina
  4. "simulacro di me stesso", ho presente

    RispondiElimina