lunedì 12 dicembre 2016

Agnus Dei - Anne Fontaine

una storia da nascondere, e però è impossibile.
la madre badessa del convento non riesce a risolvere a suo modo la questione, in ogni istituzione totale c'è sempre qualcuno che tradisce la volontà dei superiori, meno male.
attrici bravissime, hanno già recitato in grandi film, polacchi e non solo (solo un esempio, la madre badessa è stata la zia di Ida).
dopo Ida un altro grande film con suore, ambientato in un convento polacco (da recuperare anche il grandissimo Madre Giovanna degli angeli, di Jerzy Kawalerowicz).
bravissimo anche il medico francese, naturalmente, dotato di un umorismo spesso amaro, non ama i polacchi, che non amano i tedeschi, ma sopratutto i russi.
un bel film che, naturalmente, non è facile trovare in sala, ma non vi deluderà, promesso - Ismaele


ps: cercate solo di non sedervi davanti a una fila di spettatori che quando appare un bambino dice "un bambino!", quando c'è del sangue dice "c'è sangue!" (la fila intera, mica uno), e così via, pensando forse che tutti gli altri spettatori siano non vedenti, 



Ci sono film che vedi, ti entrano sotto pelle e non ti lasciano facilmente nonostante l’assenza di trame avvincenti, scene esplosive e inquadrature traumatiche. Hai bisogno di metabolizzare e fare tuo un ricordo che ti accompagnerà per un po’ di tempo. E, in effetti, Agnus Dei (Les Innocents), il nuovo lavoro di Anne Fontaine (Two Mothers) infine nei nostri cinema, è proprio così: è una carezza. E’ una storia drammatica narrata con poesia tanto nelle parole, sempre calibrate, quanto nelle inquadrature, sempre gentili.
Eventi durissimi sono alla base dell’esperienza che sta per vivere Mathilde (Lou de Laâge), il giovane medico francese che risponde alla richiesta di aiuto di una suora. In un convento isolato la fine del secondo conflitto mondiale ha portato l’orrore: i soldati russi si sono presi il loro “premio”. Di quella tragedia non si vede alcun particolare. Le urla soffocate che si odono provenire dalle piccole celle sono le conseguenze. Conseguenze in grado di mettere in crisi qualunque donna, a maggior ragione se deve conciliare la violenza subita con la propria vocazione…

Storie di donne e di sofferenze, di brutalità ed ingiustizie ai danni di queste per opera di una società prettamente maschilista: in fondo molto del cinema della valida cineasta Anne Fontaine (Gemma Bovary la sua ultima e precedente prova) verte su quello, alternando abilmente i toni del racconto, non sempre ed esclusivamente rappresentativi di un dramma cupo e inserito in un contesto altamente drammatico come in questo caso…

L’assurdità presente nella realtà supera di gran lunga l’immaginabile: Agnus Dei lo racconta con il tocco poetico del cinema, in grado di far convogliare le arti.
Siamo nel 1945 in Polonia, nonostante la seconda guerra mondiale sia terminata, ne restano strascichi di terrore e violenza. Le cicatrici e i ricordi tremendi si accompagnano al terrore di una violenza che sembra non trovare pace. Il conforto e la speranza hanno smarrito la residenza, perfino la fede vacilla, perché non si trovano giustificazioni…

Anne Fontaine, che da sempre racconta storie di donne, supera questa volta la dimensione individuale per approcciare quella collettiva, non solo perché s'immerge nella vita di comunità del monastero, con la sua drammaturgia di caratteri differenti, differenti motivazioni, paure e gerarchie, ma perché, sollevando il velo su una prassi di guerra tanto atroce quanto purtroppo comune, parla di ciò che non può essere ignorato da nessuno, nemmeno nel nome del pudore o della presunta protezione (ed è questo concetto ad essere tradotto, nel film, nella vicenda tragica della madre superiora). 
Lo stile di regia sembra tener presente un'ampia destinazione del messaggio: la storia forte non si traduce mai in immagini forti, la vita della protagonista fuori dalle mura del convento è romanzata a fini narrativi (con qualche forzatura, va detto) e il film si chiude su una nota forse eccessivamente ottimista…

…Il film si regge su una fotografia incantevole, non certo ardita come quella di Ida (con quei tagli d’inquadratura audacissimi): qui è più formale, ma comunque di grande impatto. La Champetier, che la dirige, non ha bisogno di presentazioni (Holy motors, Uomini di Dio). Le attrici sono bravissime; il volto di Suor Maria è un misto tra l’angelico e il risoluto, poi la solita (Ida) Kulesza, imponente in quel film, autoritaria e fondamentale perdente anche qui. Sulla protagonista avrei qualche riserva, come volto, non certo come bravura. Colonna sonora al top con canto gregoriano preponderante e la stupenda sovrapposizione monodica e melodica che possiamo ascoltare nella veglia della sorella suicida. Da brividi.
La storia è una storia di guerra. E’ la solita e spesso propagandistica storia dove quello che macroscopicamente resta delle gesta degli eserciti “liberatori” è il loro eroismo. Lo sciame di microscopiche ma diffuse nefandezze che si sono portati appresso diviene taciuto o secondario e, tendenzialmente, non riempie i libri di storia; perché la guerra è un vivaio di nefandezze: dei vinti e dei vincitori. La guerra è una delle dannazioni dell’umanità tutta, incapace di trovare gli strumenti alternativi per proporre delle idee o far valere i diritti di un popolo o di una minoranza se non attraverso l’istigazione all’odio troppo spesso mascherato da valori o ideali di facciata, ancora più spesso da meri interessi economici…

…Lontano dal promuovere l'arroccamento maligno dei propri principi morali (il colpo di scena finale spiazza più dello stesso antefatto, mostrando come la paura di compromettersi possa essere nociva e come una regola seguita senza l'aiuto della riflessione mostri tutto il suo lato maligno) il film mette in luce però l'importanza di uno sforzo di fede, non necessariamente orientato verso la confessione religiosa, quanto verso il ritrovamento di un orizzonte di valori che appare sempre più sbiadito e fragile nella società occidentale contemporanea: la giovane Mathilde è un esempio positivo di ciò.

L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.

…È quasi mirabile l’equilibrio in cui riesce a tenersi Agnus Dei nel suo voler raccontare la storia di un trauma senza traumatizzare, ritagliandosi momenti distensivi quando occorre, concentrandosi sovente sul volto di porcellana e sugli occhioni sgranati della sua protagonista. Si resta così in uno stato di sospensione, in attesa di qualcosa che faccia fuoriuscire il film dagli schemi arcinoti di un valido prodotto in costume sulla seconda guerra mondiale, quale in ogni caso Agnus Dei è, e non vi è dubbio che con la sua parabola seriosa ed edificante, riuscirà a conquistare una buona fetta di pubblico. Quel qualcosa di sorprendente ogni tanto fa capolino, va detto, come ad esempio accade in quell’unica inquadratura che riesce a restituirci il senso del dramma collettivo in cui versa la Polonia: quella in cui un gruppetto di bambini saltella giocoso su una bara abbandonata di fronte all’ospedale. Si tratta però di un brevissimo istante all’interno della durata del film, subito soffocato dalla regista in un andamento narrativo che si limita ad alternare la presenza della protagonista nell’ospedale francese con quella, via via sempre più preponderante, nel convento.
Eppure qualcosa è davvero sfuggito al controllo della Fontaine in Agnus Dei e questo qualcosa è Vincent Macaigne. Esponente di spicco della commedia drammatica francese contemporanea, con la sua fisicità nevrotica e i suoi ruoli perennemente in bilico tra normalità e follia (si vedano i suoi exploit in La bataille de Solférino o in 2 automnes 3 hivers), Macaigne è qui una scheggia impazzita solo parzialmente imbrigliata dal ruolo del medico-amante. Quel suo monologare a tratti delirante – viene da pensare che le sue linee di dialogo siano, almeno in parte, frutto di improvvisazione – fa di Samuel un personaggio contraddittorio, imprevedibile, e proprio per questo umanissimo, molto più della protagonista e delle sventurate sorelle. E in tal senso, il confronto con l’interpretazione della collega Lou de Laâge è esemplare: da un lato abbiamo lei che cammina  in divisa nel chiostro del convento con le mani in tasca e la faccia da dura, dall’altro abbiamo Macaigne che dà corpo al suo ruolo con alte dosi di ironia, esagitazione e disincanto.
Sarebbe bello poter dire che la sola forza della performance recitativa di Macaigne riesca a scardinare l’aulica messinscena di questo dramma storico così imbrigliato nel suo calligrafismo, ma naturalmente non è così. Noi pubblico “borghese” saremo scandalizzati in un’altra occasione, o forse ci basterà leggere la sinossi del film per percepire il giusto sdegno per la sua storia vera.

L’approche semble-t-elle simple qu’elle se révèle complexe. La lecture féministe est-elle évidente qu’elle se développe en corolle. Car si la foi de Madeleine en son pragmatisme est pour elle gage de liberté, la foi qu’elle découvre l’est peut-être tout autant. Les mots des soeurs résonnent d’autant plus en elle qu’ils se veulent rares et donc précieux. «Vingt-quatre heures de doutes, une minute d’espérance » ; « derrière toute joie, il y a la Croix »… Les dialogues se veulent d’autant plus percutent qu’ils transcendent la personnalité et l’évolution des personnages. Enfin l’universalité du propos se dessine tant à travers la situation « mère » abordée – le viol comme arme de domination et de guerre – qu’à travers les pluralité des portraits de femmes déterminées par leurs choix…



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