lunedì 17 ottobre 2022

Siccità - Paolo Virzì

siamo in una città, che è Roma capitale, con l'acqua agli sgoccioli (Capitale corrotta - nazione infetta, scrivevano nel 1955).

tante storie scorrono e si intersecano, l'acqua è una scusa (o un'aggravante) per raccontare e mostrare un mondo alla deriva, in grande crisi, dove nessuno è contento, tutti hanno dei problemi e provano a risolverli come possono.

Virzì riunisce tanti attori importanti, che a volte fanno quasi una comparsata, visto che le battute per ciascuno non sono moltissime, come sa bene Tommaso Ragno.

alcuni personaggi colpiscono più di altri, Max Tortora, Silvio Orlando e Valerio Mastrandrea, ma tutti sono bravissimi, merito del regista, naturalmente.

si avvisa che il film non è adatto per chi ha paura delle blatte, ma basta chiudere un po' gli occhi.

buona (assetata) visione - Ismaele



 

La forza del grande cinema italiano che ha fatto scuola nel mondo stava tutta nello sguardo autoriale lucido, sincero e spesso amaro sul reale. Con Siccità Paolo Virzì fa sua la lezione dei maestri di ieri e realizza un film graffiante e colmo di umanità che avrebbe potuto firmare Ettore Scola. Drammatico ma non lacrimevole, umoristico ma non farsesco, apocalittico ma non retorico, Siccità è scritto a otto mani dallo stesso Virzì con Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo. Racconta solo superficialmente la siccità che asfissia Roma, con il suo Tevere prosciugato e le blatte pestilenziali in ogni dove, di fatto approfondisce l’aridità dilagante che ha contagiato un’umanità sempre più disincantata, abituata a resistere all’assurdo quotidiano come può, giorno dopo giorno…

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Siccità parte lento, si carica di tanti personaggi e di altrettante tematiche – l’ambiente, l’epidemia, il confronto generazionale –  e avanza a fatica. Sicuramente, il film è un riflesso della società odierna, dell’Italia mal governata, impari, perennemente in crisi. Tuttavia, mescolare così tanto materiale, avendo a disposizione così poca acqua è alquanto impegnativo. Siccità presenta diversi livelli di lettura. Da un lato, osa toccando una serie di questioni moderne e difficili, dall’altro tutta questa densità ostacola quella sensazione di leggerezza realistica e palpabile che tipicamente lascia un film di Virzì.

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La volontà di voler apparentare metaforicamente la penuria d’acqua a quella spirituale dei romani che, unici nel Belpaese, subiscono questa perdurante siccità si smarrisce nella coralità delle storie rappresentate, ancora una volta scelte pigramente dal bestiario del cinema capitolino degli ultimi ottant’anni. Lo sguardo di Virzì mostra che la catastrofe ecologica è prima di tutto morale: dall’attore sessantenne che ha smesso di lavorare in teatro perché passato alla droga di like e share alla madre Terminator, anaffettiva nel privato poiché concentrata sul lavoro di medico ospedaliero, il caleidoscopio corale ombreggia spesso tinte fosche lasciando gli unici abbagli di luce ai giovani che dai genitori hanno ereditato solo un pianeta in enorme sofferenza. Così, in questo “conte moral” la catastrofe ecologica regredisce a sfondo non trovando quasi mai un’adeguata rappresentazione visiva/concettuale. L’immagine spot del Tevere disseccato, landa desolata percorsa da un padre ed una figlia a dorso di mulo, sembra il classico report UE che ai suoi Paesi membri presenta una fotografia drammatica del disastro salvo poi classificare gas e nucleare come fonti sostenibili.

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Siccità vuole dunque essere una palla di vetro che ci mostra quel domani devastato e privo di speranza verso il quale ci stiamo dirigendo a ritmo sostenuto. Virzì, da sempre attento alle dinamiche sociali che ha mostrato attraverso gli occhi dei personaggi che hanno popolato i suoi film, porta sullo schermo un disaster-movie che a una lettura ai raggi x vuole mettere a nudo un’umanità spaventata, affannata, afflitta dall’aridità delle relazioni, malata di vanità, mitomania e rabbia non più repressa. Attraverso la galleria di personaggi che si affacciano di volta in volta nel quadro, passandosi reciprocamente il testimone, il cineasta livornese vuole impersonificare tutto questo. Ciascuno di loro, innocente o colpevole, vittima o carnefice che sia, è lo specchio che li riflette e li rappresenta. L’habitat urbano e casalingo che li accoglie e che fa da cornice a questa vicenda corale è la tela sulla quale l’autore disegna con pennellate di giallo acceso e di rosso ardente un racconto a mosaico di tasselli singoli che man mano scopriamo essere legati l’uno all’altro in un intreccio più grande. Un intreccio che si rivelerà purtroppo una ragnatela ingarbugliata di tanti buoni propositi rimasti incastrati a causa dell’incapacità di una scrittura di tenerli insieme e farli coesistere in maniera equilibrata…

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