domenica 3 novembre 2019

L’uomo del labirinto - Donato Carrisi

come nel primo film, La ragazza nella nebbia, anche il secondo film di Donato Carrisi è tratto da un suo libro.
si vede lo sguardo coincidente di scrittore e regista, il che non è una bella cosa, come se non potessero esserci registi capaci di filmare come si deve l'opera dello scrittore, se non se stesso.
la storia è complicata, non lineare, va avanti e indietro, e bisogna stare attenti.
e però alla fine si scopre tutto, meno male.
il film non è male, sembra però che il regista voglia far vedere quanto è bravo lo scrittore, insomma se la suona e se canta.
e però il film non è male, anche se a tratti sembra un gioco della Settimana Enigmistica, per solutori esperti, forse.
bravissima Valentina Bellè.
comunque buona visione - Ismaele







Con L’uomo del labirinto l’autore di Martina Franca sceglie di fare un gioco con lo spettatore e, man mano che la trama si srotola, semina dettagli che dovrebbero aiutarci a trovare la verità. Ma esiste davvero un’unica verità? Esistono davvero buoni e cattivi? Basandosi su una sceneggiatura sicuramente non lineare, atta a infondere nello spettatore una sensazione di caos perenne, Carrisi si diverte a introdurre nella pellicola riferimenti che vanno dal cinema horror italiano (impossibile non pensare a Suspiria di Dario Argento vedendo le sequenze in cui è protagonista la Linda di Caterina Shulha) ad Alice nel paese delle meraviglie (ma anche Donnie Darko) fino a Saw – L’enigmista. Fa scattare meccanismi automatici nella nostra mente sapendo che non siamo pienamente in grado di controllarli e così edifica una prigione buia, un labirinto fatto di “pareti vive”, corridoi in cui la luce si accende al passaggio della prigioniera e le porte si aprono per consegnare ricompense. Parallelamente costruisce un labirinto in superficie, facendo in modo che entrambi convergano e si moltiplichino dal punto di vista psicologico.
Una sceneggiatura ben architettata, fatta di specchi e fili da ricollegare, che però alle volte sembra inciampare su stessa: richiede attenzione e intuito come nella risoluzione di un caso, come dovrebbe fare un buon thriller, ma talvolta lesina racconti che ci avrebbe fatto piacere ascoltare, come quelle tormentate storie dei “figli del buio” rimaste a mezz’aria; semplici bulloni nell’ingranaggio di una macchina…

L’uomo del labirinto ha il limite di sembrare proprio un libro sullo schermo, con troppi dettagli che un lettore non farebbe caso ma che uno spettatore non può non notare e per i quali ovviamente si aspetta una spiegazione.
L’uomo del labirinto invece spiegazioni ne dà poche, ma è proprio questo il bello: esci dalla sala con un senso di insoddisfazione e inquietudine che non ti fa smettere di pensare alla trama così intrecciata e speculare. Sei fuori ma sei ancora dentro a provare, invano, a rimettere insieme i pezzi.
È questo ciò che rende un bel film L’uomo del labirinto, la capacità di catturarti anche oltre la durata del film e di tenerti con la mente incollata allo schermo senza la possibilità di distrarti nemmeno per guardare l’orario sul cellulare, e al giorno d’oggi è un vero lusso…

La storia è ben costruita e si lascia seguire ma, come nel film precedente, è spesso ridondante e molto concentrata sulla volontà di spiazzare lo spettatore, aggiungendo anche un colpo di coda finale che dà il via ad una doppia lettura di tutta la vicenda precedente. La struttura labirintica della narrazione, legittimata fin dal titolo, può affascinare ma anche confondere, e crea un effetto straniante che è consono alla storia, ma mette a dura prova chi tenta di seguire le contorsioni della trama. E la tecnica registica rischia di apparire più di maniera che di stile.

La chiave di lettura più interessante riguarda i cosiddetti "figli del buio" (al punto che poteva essere quello il titolo della storia), ovvero i bambini rapiti traumatizzati dall'esperienza, e portati a perpetuare all'infinito (come in un labirinto che "non ha inizio e non ha fine") il loro trauma. Ma Carrisi è troppo impegnato ad accendere fuochi d'artificio per esplorare in profondità le tematiche più impegnative, accontentandosi della sua consumata abilità di costruttore di incastri e di suggeritore di incroci…

Suggestivo e disuguale, L’uomo del labirinto appare asimmetrico nella sua costruzione, specie laddove concentra l’attenzione sul personaggio interpretato da Servillo, relegando il profiler di Dustin Hoffman a un ruolo apparentemente marginale; un ruolo che risulta immobilizzato e isolato nelle interazioni – dapprima prive di evoluzione – con la vittima interpretata da Valentina Bellè. Un’asimmetria, quella del film, la cui giustificazione narrativa diverrà chiara quando il mistero sarà infine districato, ma che tuttavia, portata sullo schermo così com’è, inficia l’armonia di un racconto che vorrebbe il giusto spazio per tutti gli interpreti principali. Mette tanta carne al fuoco, Carrisi, gioca in modo disinvolto con i tanti temi della storia (tra questi, la paura del diverso, gli orrori nascosti nelle comunità religiose, l’inefficienza della polizia), rischiando a più riprese di perdere centro e coerenza narrativa; il twist finale arriva in modo forse troppo affrettato, non riuscendo a tirare adeguatamente le somme dei vari subplot – dispersi tra passato e presente – di cui la storia si compone…

…La riflessione è su una società che riconosce la violenza come elemento costitutivo, da tramandare da psicopatico a vittima. Ognuno ribalta i propri traumi su chi ha intorno, in un gioco di specchi dove le immagini si sdoppiano, i disegni sono schizzi oscuri.
Thriller d’atmosfera, che danza sul baratro, sceglie di superare il limite e di giocarsi fino all’ultima carta: durata extra- large, grandi divi che non si incontrano mai (Toni Servillo e Dustin Hoffmann duettano una volta sola), finale apertissimo, in un maledetto imbroglio che si trasforma in un nodo gordiano.
È un cinema claustrofobico, tra luce e oscurità, dove ovunque ci sono pareti pronte a schiacciare, a stritolare. Le inquadrature dall’alto si alternano a primissimi piani, e il delirio si ispira anche al sadismo (ma senza sangue) di Saw The Cube. Film imperfetto, affascinante, molto coraggioso, specialmente in Italia. Un’opera seconda da sostenere, perché lascia ben sperare nel futuro.

L’uomo del labirinto alterna questi due scenari senza mai farli confluire uno nell’altro, aumentando così le perplessità dello spettatore ancora sveglio. Chi ha ingaggiato Bruno? Perché continua a indagare se la ragazza è stata ritrovata? Perché non va a trovarla? Non si sa, come non si capisce se le due vicende si svolgano su piani temporali diversi. Quando lentamente la matassa comincia a dipanarsi, tra ripetuti e inutili colpi di scena e un numero eccessivo di personaggi, l’interesse del pubblico è ormai venuto meno. Anche per colpa di banalità a pioggia, come per esempio il fatto di far camuffare il mostro con una testa da coniglio e chiamare Alice una delle sue vittime. Gli aspetti avvicinabili all’horror sono del tutto scolastici, quelli noir sono penalizzati dalla mancanza di ambientazione, il mistero è troppo fitto per coinvolgere.
In questo guazzabuglio annaspa vistosamente Toni Servillo nella parte di un detective stropicciato, troppo ridicolo per assomigliare al Philip Marlowe di Raymond Chandler, ma al tempo stesso troppo poco ironico (salvo il fatto che giri in sandali da frate) per essere avvicinato al Lazzaro Santandrea del compianto Andrea G. Pinketts. Privo del suo mentore Paolo Sorrentino, l’attore non azzecca un film. Forse è ormai prigioniero del particolarissimo immaginario del regista premio Oscar e dei suoi personaggi, che lo rendono inadatto a incarnare qualunque altro genere di personaggio. È troppo “ingombrante” per non fare il protagonista, ma al tempo stesso, da napoletano atipico, gli manca quella naturale empatia che da sempre connota i grandi protagonisti del cinema italiano.
L’unica cosa da salvare de L’uomo del labirinto è, come prevedibile, l’interpretazione di Dustin Hoffman. Il quale, pur apparendo comprensibilmente un po’ svogliato, grazie alla sua classe e alla sua esperienza è l’unico a mantenersi su toni sussurrati, smarcandosi da quelli esageratamente sopra le righe di tutti gli altri, forse adottati sulla base di errate indicazioni di regia. Il vero mistero, che nemmeno con un arzigogolo di Donato Carrisi si potrebbe risolvere, è dunque cosa lo abbia spinto a partecipare a un film tanto scombinato.



cosa vorrebbe essere questo film non è chiarissimo. Non è chiaro se voglia omaggiare Argento o Refn, non è chiaro se voglia essere avanti anni luce oppure memore della tradizione del genere, se ami essere classico come mostra il segmento con Dustin Hoffman o se pensi che quel che fa in quello con Servillo sia sperimentazione. Di certo non riesce in nessuna di queste imprese ma semmai mette in scena quanto sia difficile fare un buon film e quante cose diverse sia possibile sbagliare quando non lo si fa.

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