martedì 13 giugno 2017

The survivalist - Stephen Fingleton

in un futuro non troppo lontano gli umani hanno esaurito le fonti d'energia e ognuno per sé, l'altro è (quasi) sempre un nemico, che si allontana o altrimenti si uccide.
un umano vive nella sua capanna, con qualche pianta, utensile e ricordo.
due donne appaiono, lui non riesce a capire bene cosa fare, l'unica sopravvissuta, col bambino, cercherà un rifugio dove qualche comunità umana ha costruito i suoi muri, forse i precursori del paese raccontato da Volker Schlöndorff e Harold Pinter.
poche parole, molti sguardi e violenze.
una cronaca dal futuro, non trascurarla - Ismaele






Un mondo bucolico quindi, un vecchio Nuovo Mondo, dove sto Survivalist, come un colono post Mayflower, si è appropriato di un minuscolo podere con annesso appezzamento di terra e produce da sé, a chilometro zero, lo stretto necessario per sopravvivere, cioè per continuare ad esercitare la sua professione. Siamo tutti sotto il cielo però, e anche lui lo è, nello specifico non ha fatto i conti con l’altra metà del cielo, una collega Survivalist, due colleghe Survivalist, madre vecchiaccia e figlia pubescente, ed ecco il triangolo: lui, lei, la suocera. Straordinario e nuovissimo triangolo per il cinema inglese, non ricordo infatti altri esempi fulgidi di coppia con contrappeso di parentame al seguito, e qui Fingleton decolla, perché mette in scena il machismo, il titanismo dell’uomo solo e resistente, in contrapposizione al matriarcato che pure sarebbe la cifra delle società primitive, primitive survivaliste. L’incontro di Adamo e di Eva nasce sul filo del baratto ovviamente, cresce sul piano degli ormoni, accoppiamenti belluini reiterati, e mammà a sentire tutto nell’altra cameretta della baracca, con occhi che tradiscono pensieri strani, lubrichi, assassini, non è dato sapere. È tutta una questione di baricentro, se il legame di sangue sia più o meno forte del legame di cuore, o di sperma…

Gli scenari post-apocalittici si offrono generosamente anche a pellicole dal budget basso e dai mezzi limitati. All’esordiente Stephen Fingleton e alla sua opera prima The Survivalist è bastato infatti un fitto bosco, una casetta di legno, un orto che ricorda i tanti “orti insorti” cittadini. Una dimensione minimalista, essenziale, a misura di tre personaggi provati dalla fame e dalla paura, scarnificati nel corpo e nell’anima.
Lo scenario distopico architettato da Fingleton si nutre delle performance attoriali e fisiche di Martin McCann, Mia Goth e Olwen Fouere, di una natura oramai tornata sovrana, di un comparto sonoro accuratissimo – non in presa diretta, ma con un certosino lavoro di (ri)costruzione dei suoni ambientali. E della messa in scena dello stesso Fingleton, che non si accontenta di scandagliare psicologicamente i tre sopravvissuti e le loro tesissime dinamiche, ma che impreziosisce The Survivalist con alcuni virtuosismi registici, in primis la sequenza della sparatoria: Fingleton utilizza in maniera magistrale l’altezza dell’erba, sottolineando ancora una volta il ruolo predominante della natura, e capovolge con un lento e calibrato movimento di macchina dall’alto il nostro punto di vista. In questo modo, il regista nordirlandese riesce a dare corpo alla spazialità, alla distanza così ridotta tra i due uomini, inversamente proporzionale alla crescente tensione. The Survivalist è fantascienza distopica (iper)umanista e (iper)realista percorsa da una tensione costante, come un thriller claustrofobico…

Il contesto post-apocalittico si presta perfettamente alla messa in scena pura dell’essere umano, che diventa messa a nudo dell’individuo. La natura che sovrasta la figura umana, le fatiscenti oasi di fortuna, i silenzi prolungati e le scarne battute dalla forza ieratica (come ultime parole proferite da un’Umanità in perenne agonia) non fanno altro che suggerire una impasse irreversibile, il capitolo ultimo di una specie in via di estinzione, autodistruttasi con le proprie mani. “La fine di tutto è vicina Pietro 4-7” è l’epigrafe affissa all’entrata dell’accampamento dove si chiude questa storia tragica, ma è anche la consapevolezza dell’inarrestabile declino, mentre ancora ci si affanna a spremere la terra per il proprio nutrimento. Ciò che resta è il seme di un uomo sterile, che corrode ciò che lo circonda e si autofagocita con la sua voracità e la sua cattiveria, condannandosi alla fine ultima


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