giovedì 24 novembre 2016

Animali notturni – Tom Ford

quando entri in sala non sai ancora la grandezza e il dolore, del film, primo dell'era Trump al cinema, per me.
sceneggiatura che non concede respiro, finale straordinario, senza parole, non servono, non c'è niente da spiegare.
attori davvero bravi, tra cui Michael Shannon, il poliziotto Bobby Andes, futuro premio Oscar per il miglior attore non protagonista.
Bobby Andes è la versione texana, senza ironia, dell'ispettore Pastor, di Pennac.
la storia è strana, all'inizio, poi si capisce tutto, e qualcosa lo capisci anche dopo, non importa, mica siamo noi ad aver scritto la sceneggiatura.
il professore-scrittore fallito, debole, non adatto, timido, buono, scrive un libro, dopo 19 anni, un'arma potentissima, è arte, trasfigura la realtà, ma parla sempre della realtà, perché altrimenti certe pagine o certi libri ci fanno stare male?
sono delle piccole innocenti cariche che si posizionano nei posti giusti e poi esplodono dentro, come l'esplosivo in miniera.
all'inizio c'è una cortina fumogena che nasconde e confonde tutto, poi si posa e tutto diventa chiaro, e certe volte terribile, come in questo film, la vendetta non ha scadenza.
non perdete questo gioiellino, vi turberà, non vi lascerà indifferenti, se non vi sarete addormentati o se non avrete sbagliato sala.
buona visione - Ismaele




lo stilista prestato al cinema mette su un cast della madonnina, con quella Amy Adams che anche dimostrando in tutto e per tutto i suoi quarant'anni non perde manco un grammo di fascino o sensualità, quel Jake Gyllenhaal che nel curriculum ha così tante parti cult da far invidia a molti colleghi più vecchi, un Aaron Taylor-Johnson che finalmente dimostra di saper recitare e, last but not least, Michel "più grande attore del mondo" Shannon, uno il cui nome dice già abbastanza e che, pur con una parte più contenuta, riesce a bucare lo schermo come pochi altri. Attori perfettamente calati nella parte per una storia nella storia, una matrioska cinematografica presa dal libro Tony e Susan di Austin Wright, al quale Ford riesce a dare una coerenza cinematografica non da poco e senza particolari manierismi, ma giocando perfettamente coi volti degli interpreti per far valere quelli che sono i punti cardine della storia. Chi sono alla fine gli animali notturni del titolo? E di che parla, alla fine, questo film? E' una pellicola che si presta a numerose interpretazioni, che mira a confondere e ad attecchire lo spettatore e nella quale ogni visionatore potrà dare una propria interpretazione dell'accaduto…

…Il loro dolore ti entra nelle viscere e non si stacca mai, per tutti i 117 minuti di film ed anche oltre. Animali Notturni è un continuo irradiarsi di pulsazioni e di un incessante nodo in gola. Ti nausea, ti sfinisce, ti si attacca addosso e non ti stacca più.
La perfezione sta tutta nel modo autentico ed elegante che ha Tom Ford di raccontarci una storia che non appartiene solamente ai due protagonisti, ma si estende a macchia in un mondo ormai arido di genuinità e di bontà, parole che risultano infatti desuete e banali. Arido come le radure del Texas, dove un uomo distrutto è obbligato a camminare per ore prima di ricevere un aiuto, dove nessuno ti salva se non ti salvi da solo.
Di contro l’oscurità è quella in cui gli animali notturni sanno muoversi perfettamente, attaccano e uccidono vittime innocenti (se qualcuno lo è davvero, in fondo) con la brutalità tipica, appunto, delle bestie.
Ma esiste anche la vita diurna, e quella obbliga persino gli animali notturni a fare i conti con se stessi e con le conseguenze delle proprie azioni…

Animali Notturni è la debolezza che si cela dietro ogni decisione, è l’insonnia della mente, il battito che unisce ciò che abbiamo a ciò che avremmo potuto ottenere.

L’insegnamento forse più raggelante che lancia Animali Notturni si dilegua nella sala, tutti possono vederlo ma mai oserebbero alzarsi in piedi per lasciarsi giudicare. Ford urla a gran voce ma le risate, l’applauso finale denota che coloro che hanno apprezzato la drammatizzazione di un romanzo o la storia d’amore decentrata dalla realtà, ha speso più tempo a valutare una pellicola che in realtà nasce per giudicare noi, non per essere giudicata.

Ford gioca sulle ambiguità dei personaggi, sul non detto degli sguardi di Tony, come Edward si autodescrive nel suo romanzo. Ammesso che sia lui il personaggio che Susan pensa di leggere e trasporta dentro il film. Il romanzo nel film funziona da terreno comune dove Susan è obbligata a diventare un corpo unico con Tony e Edward, e la tragedia della famiglia spezzata è la parabola della sconfitta creativa e sentimentale di tutti i personaggi. Come i protagonisti, anche Ford cerca di ridare vita a questi fantasmi facendoli muovere alla ricerca di una vendetta o di una sostanza creativa che ne definisca in maniera meno ambigua i tratti. Perdendosi però nel momento stesso della loro ricomposizione sullo schermo.

Per una storia così, che incrocia tre piani (presente, passato e immaginazione) è necessario un lavoro di montaggio impeccabile, complesso e inventivo (da parte di Joan Sabel, la stessa che ha montato la furia omicida di Kill Bill), un altro tassello tecnicamente impeccabile di questo film tecnicamente impeccabile, che non riesce mai imporsi nell’agenda dello spettatore. Nonostante siano molto chiare le traversie della protagonista non siamo mai con lei o contro di lei, esiste sempre un filtro che ci impedisce di avvicinarci al suo (melo)dramma. Lo stesso problema di narrazione che affliggeva A Single Man, il disinteresse, lo ritroviamo qui. La stessa ignavia emotiva e pretesa che sia lo spettatore a trovare dentro se stesso le sensazioni invece che la storia a risvegliarle. E tanto più sono impeccabili spunti e particolarità, tanto più è evidente cosa manchi.
Perché anche il parallelo tra la storia di dolore, sofferenza e privazione del romanzo che viene letto e la dimensione emotiva della donna che lo legge, in cui viene risvegliata la voglia di una vita panica, è solo tratteggiato e non usato. Una volta che abbiamo capito che quelle sensazioni lette sono le stesse riportate a galla in chi sta leggendo, il film non affonda la stoccata, non mette a frutto la maturata consapevolezza nello spettatore, lasciando tutto, ancora, nel vuoto, convinto che il senso a suo modo emergerà da sè.

El poder de la ficción como arma contra la realidad. La ficción puede ser un consuelo, un escape, un espejo y, a veces, también puede ser venganza. Una historia en la que el dolor provocado es devuelto con intereses puede ser mejor venganza que cien improperios. Este es el núcleo de Nocturnal Animals, segundo trabajo de Tom Ford en el que hace gala de una lucidez de la que carecía Un hombre soltero, ópera prima que, aun con sus logros, revelaba un estilismo fotográfico tan desaforado que al final uno tenía la sensación de que cobraba más importancia la última chaqueta que llevara Colin Firth que lo que realmente emanaran sus extrañas. En su afán por transmitirlo, el director recurría a escenas contemplativas donde, ayudado por el todavía infravalorado Abel Korzeniowski, se hundía en el rostro reflexivo de un personaje al que, desde su sofisticación, resultaba muy difícil acceder. Es el mismo punto de vista que aquí adopta Ford para Amy Adams, de nuevo en las elegantes alturas de una burguesía acomodada, repleta de prejuicios y tan ahogada de placeres que ya no sabe apreciar alguno. Entre sus trajes de marca y sus casas de cristal, tanto Firth como Adams forman parte de un mismo imaginario que Ford conoce al dedillo. Él mismo se mueve en ese mundo y su reflejo lo subraya. Tiene esa misma frivolidad que forma parte de su carácter pero sabe combatirla a través unos guiones que profundizan en el vacío de unas personas que parecen tenerlo todo…

nel complesso, il tempo filmico dedicato al presente, ai flashback del passato e alla visualizzazione del romanzo appare alquanto sbilanciato verso quest’ultimo. In particolare dispiace poi che l’autore non sia andato a fondo con il discorso sul classismo insito nell’alta società wasp americana, che dovrebbe qui essere oggetto, tra le altre cose, degli strali di Ford, ma si riduce a mero sfondo decorativo. E si passa rapidamente ad altro, a nuove similitudini, richiami, drammi amplificati.
È un film ambizioso Animali notturni e questa resta la sua maggiore qualità. E poi certo è ben realizzato, seducente, ha splendide inquadrature geometriche, ottimi attori, ma a tratti si fa strada l’idea che si tratti semplicemente di una losca vicenda in cui le “brave persone borghesi” hanno paura dei “bifolchi” e proprio questa paura finisce per scatenare la violenza nei loro confronti. O magari è semplicemente una storia dove anche i ricchi piangono, e non sanno neppure bene il perché.

martedì 22 novembre 2016

Il corridoio della paura – Samuel Fuller

l'ambizione smisurata di Johnny Barrett è l'innesco di un film che è un altro mondo, esplora il manicomio.
Johnny Barrett vuole vincere il Pulitzer raccontando un omicidio e scoprendo i colpevoli dentro il manicomio.
ci riesce anche, ma a un prezzo smisurato.
il matto più matto è un nero che inneggia al Ku Klux Klan, ma Johnny Barrett perde il controllo, come i marinai di Ulisse al canto delle sirene, così è per lui il profumo del successo.
attori bravissimi e storia terribile, al confronto "Qualcuno volò sul nido del cuculo" è un film leggero, ma siccome non lo è immaginate cos'è il film di Samuel Fuller, meglio guardatelo.
dentro c'è il Cinema - Ismaele





Fuller costruisce un ingegnoso meccanismo predisposto di continuo alla rilettura interna ed esterna della vicenda, attribuendone significati molteplici, i personaggi assumono una funzione polivalente ed emblematica, ora assumendo una veste personale, poi traslata verso il giudizio e l’immedesimazione dello spettatore, incarnando la veste simbolica e mostrandone le ferite pubbliche che invece la storia e la società vorrebbero nascondere. E’ la denuncia della società americana intera, del suo perbenismo formale travestito di modernità, il manicomio è il mondo, una volta addentrati non se ne esce altrimenti, anche perché è la vita, scandita, abitudinaria e sottomessa. Milos Forman diede luce anni dopo ad un ritratto simile, al capolavoro Qualcuno volò sul nido del cuculo, dove però si mitizzava la ribellione, l’antieroismo, la lotta al sistema. Nell’opera di Fuller tutto ciò è assente, l’esplorazione della struttura sociale è interna e conforme a chi l’ha creata e in qualche modo dimostra di credergli. La spietata analisi parte dalla figura del protagonista, l’arrembante e sicuro Johnny Barrett che si crede in grado di potere uscire mentalmente indenne da un esperienza così estrema, come se il nuovo potere dei media non solo avesse il dovere di documentare il reale, ma detenesse anche il potere di rivelare nuove verità e giudicarle, di modificare gli equilibri sociali senza subirne conseguenze…

…Le riprese, di immediatezza rude ma non rudimentale, assecondano il percorso mentale del protagonista. La prima dissociazione è oggettiva, ossia rivolta all'immagine che Johnny ha di Cathy. Da poco entrato nell'ospedale psichiatrico, nel sognare la propria bionda compagna Johnny la visualizza diversamente dalla donna premurosa e preoccupata che si era adoperata per evitare che il proprio uomo finisse in pericolo: in una sequenza onirica sovraimpresse, la comparsa ectoplasmatica di una Cathy in miniatura mangiatrice di uomini rivela il desiderio inconscio del giornalista, dissociato dall'immagine reale sin qui profilata. Cathy, infatti, si muove e parla diversamente nel sogno rispetto alle scene precedenti.
La violenza registica di Fuller arriva oltre, nella scena impattante dell'elettroshock, aperta da un medium close-up e trasformata in una bolgia di immagini ancora sovraimpresse (Cathy che danza, le ninfomani, gli scontri razziali di Trent) e di suoni (le urla di Johnny ed una scala di piano discendente): overdose iconico-cacofonica con lo scopo di far esperire sensorialmente allo spettatore il rilascio della tensione, prima della dissolvenza in nero che accompagna la perdita dei sensi del paziente.
Almeno un altro tour de force d'inquadrature si può annoverare tra i vertici stilistici della carriera di Fuller: la sequenza della pioggia nel corridoio. Il piano sequenza che segue Johnny avvicina lo spettatore al protagonista, mentre la voce interna ci introduce nei pensieri del giornalista che cerca di ricordare il nome dell'assassino. Il reporter ha poi la sensazione che cominci a piovere: il rombo del tuono e l'effetto goccia accompagnano il trapasso di inquadrature dall'oggettiva alla soggettiva. È una soggettività dissociata: il bellissimo spostamento a sinistra della macchina da presa, che trascorre sull'ombra allungata di Johnny con la mano tesa per raccogliere le gocce, rivela, nel contrasto ombra/luce e nella generazione del doppio (l'ombra), la divaricazione tra realtà ed immaginazione, oggetto e soggetto, sanità ed insanità, ripetendosi subito dopo a corridoio vuoto: tale, infatti, è nella visione distorta di Johnny…

"If you don't like Samuel Fuller, you don't love cinema” (Martin Scorsese).
Samuel Fuller aveva le palle. Fu il precursore del cinema americano indipendente, padre putativo della nouvelle vague francese (un film come Quaranta Pistole ha profondamente influenzato Godard), di John Cassavetes e dei vari movie brats mid – seventies, Scorsese e De Palma su tutti. Fu anche letterato, giornalista e reduce di guerra. Era insomma, una vera furia, come furiosi sono i suoi film (uno tra i tanti, “Il bacio perverso”, film del 1964, incentrato sulla pedofilia).
“Il corridoio della paura” è l'apice della sua intera filmografia. Interamente girato in interni, è uno dei più claustrofobici e inquietanti bildungsroman della storia del cinema, vera e propria discesa agli inferi della coscienza umana. Romanzo di formazione si diceva, perché Fuller, da uomo vulcanico che ha vissuto ogni sorta di esperienza, rifiuta qualsiasi forma di conoscenza intellettuale o speculativa. Non esistono per il regista giudizi sintetici a priori. Il suo è un cinema di scontri, di antitesi. La vita, nel cinema di Fuller, va affrontata, con tutte le botte e i traumi che ne derivano. Così è per Johnny, giornalista del “Globe”, assetato di gloria e desideroso di vincere il premio Pulitzer. Il suo unico desiderio è quello di scrivere l'articolo dell'anno: quale occasione migliore se non un misterioso omicidio avvenuto all'interno di un manicomio? Con l'aiuto di uno psichiatra che lo addestra adeguatamente e quello della fidanzata, che fingendosi sua sorella, denuncia alla polizia le sue turbe da fratello feticista, egli viene internato. Scoprirà la verità, ma a caro prezzo…


lunedì 21 novembre 2016

Sing Street - John Carney

questo film è un anello mancante fra School of rock e The commitments e il regista è lo stesso di Once.
è un film leggero, e però solido, una storia di ragazzini che crescono, e la musica ha un ruolo fondamentale.
i protagonisti sono davvero bravissimi, merito anche di una sceneggiatura che non annoia mai.
un film che coinvolge ed entusiasma, peccato per i ragazzini di oggi che vanno poco al cinema.
è solo in 39 sale, ma diventerà un film di culto nei prossimi anni, sicuro.
cosa aspetti a vederlo adesso? - Ismaele






Sing Street è una commedia deliziosa, fiera del proprio taglio buffo, malinconico, nostalgico, anche un po' scemotto, sempre sincero e trascinante. Ha momenti di cinema deliziosi, che raccontano la forza della musica, della passione, del processo creativo, della speranza. I passaggi in cui i ragazzi compongono e suonano la loro manciata di canzoni mescolano reale e fantastico in una maniera esaltante, unendo esibizioni, videoclip fatti in casa e sogni in un frullato di malinconica realtà e immaginazione sparata a mille, dando vita ad alcune fra le sequenze più belle del film. Ma Carney trova momenti meravigliosi anche negli attimi più semplici, fatti di sguardi silenziosi e semplici conversazioni, costruendo un film deliziosamente irresistibile, che affoga nelle risate l'amarezza in cui vivono i suoi personaggi e tratta con rispetto e affetto la forza straziante con cui gli adolescenti affrontano la vita. Insomma, Sing Street è davvero adorabile.

Il segreto di un buon film, spesso, è la sua colonna sonora. E chi riesce a miscelare nel modo giusto immagini e suoni, trova una scorciatoia per il cuore degli spettatori. Questo John Carney, che è un veterano del grande schermo, ex-bassista e compositore, e che ha firmato pellicole come Once e Tutto può cambiare, lo sa bene. Sing Street, il suo nuovo film, è un piccolo gioiello: una comedy romantica vecchio stile, parente prossimo dei teen movie, sceneggiatura brillante e affilata, poche location in cui girare, esempio prezioso di buon cinema. Racconta la storia di un ragazzo e della sua band, della sua famiglia, della ragazza che ama, e della Dublino in cui abita…

Writer/director John Carney is no stranger to combining a genuine story of love and music. In fact, after his beautifully crafted 2007 film, Once captured the hearts with its down-to-earth storytelling, it was obvious he had a knack for this uplifting combination. His latest film, Sing Street too hits all the right notes.
Set in 1985 inner-city Dublin, young Conor (Ferdia Walsh-Peelo) is removed from his private school by his family to ease their financial situation. Like any typical new kid in school, Conor is immediately thrusted into the antagonistic environment. You have your stereotypical bully, painting a target of him from day one and a stickler school principal (Don Wycherly), who continuously gives Conor a hard time for not following dress code. He’s not as treacherous as say Dolores Umbridge from Harry Potter, albeit still a thorn in Conor’s side throughout the term...

Carney proves that you can take cliched and overdone material and still make it great and give it a fresh twist, Everything about this film from the direction to the musical numbers are top notch. This is a real crowd pleaser and a film that one will want to watch again and again. John Carney has created the movie musical trifecta withOnceBegin Again, and now Sing StreetBravo John Carney, Bravo.

…La banda Sing Street es una esponja y absorbe los distintos géneros del pop, desde los "futuristas" Duran Duran pasan al gótico de The Cure para continuar con el pop más clásico de Spandau Ballet, todo vale para conquistar a la chica de tu sueños. Vemos como cada canción representa un estilo distinto según lo que el protagonista escucha en ese momento. Es la era de la MTV y como decían los Buggles, The Video Killed The Radio Star.
Ferdia Walsh-Peelo es el elegido para representar el papel principal, un papel difícil y arriesgado que cumple a la perfección seguramente a que el- novato- actor ya era un experto músico gracias a su formación, es un experto en la guitarra y tiene un perfecto dominio del piano, además su familia son profesionales de la música, tanto su madre como hermanos tienen una formación clásica importante.
Si te gusta la música Sing Street te parecerá una delicia, una feel-good movie como pocas. Consigue emocionarte ante esta "tonta" historia de amor pero que no te importaría ser tu el protagonista. Una historia vitalista que te hace disfrutar como pocas veces lo haces en una sala de cine.

Lo de John Carney es curioso. Su cine, a pesar de no tocar ningún extremo, polariza al espectador. Genera el mismo número de adhesiones que de rechazos. Y eso, para alguien que hace feel good movies o si lo prefieren, crowd pleasers, no está nada mal. Un tipo de películas que en muchas ocasiones no generan ninguna reacción más allá del, si me permiten la expresión coloquial, está bien pero no mata. Su propuesta, que rescata la parte más epidérmica y sentimental del Cameron Crowe y el John Hughes de los ochenta, se repite en todos sus trabajos. El irlandés es un autor en toda regla y un estajanovista de los buenos sentimientos. Y eso le convierte en archienemigo de aquellos que censuran los relatos azucarados. Ahora bien, esta especie de Frank Capra moderno de los dramedies con trasfondo musical, ha conseguido crear un –exitoso- subgénero propio desde que dio la campanada con Once. Cinta que utiliza como patrón desde entonces, y ejemplo perfecto para lo que decíamos al inicio de esta crítica de la relación amor-odio que se establece con su cine…

…E poi naturalmente c’è la musica, vera protagonista del film. Dopo il successo ottenuto con l’acclamato musical pauperistico con ballate romantiche Once (premio Oscar alla migliore canzone originale nel 2008), Carney questa volta si cimenta in un’elaborazione musicale assai più ricca e complessa, mescolando numerose suggestioni da pezzi classici del pop anni ’80 e facendo di ciascun brano (è lo stesso Carney a firmare le canzoni, insieme a Gary Clark) una sorta di compendio delle sonorità in voga all’epoca. Ecco che Conor guarda in tv un videoclip dei Duran Duran e il giorno dopo compone un brano in quello stile, oltre ad agghindarsi da new romantic; quando il fratello gli sottopone l’ascolto di In Between Days dei Cure, ne ritroviamo poi le tracce nella sua nuova canzone e naturalmente nella sua nuova acconciatura.
Accanto a dei momenti più convenzionali, in cui la storia d’amore o le vicende familiari e scolastiche devono in qualche modo progredire, Carney inserisce inoltre un paio di sequenze nelle quali Conor e il suo chitarrista vengono colti nell’atto quasi intimo della creazione musicale, mentre mescolano parole e accordi, disquisendo sulla durata di questi ultimi e sulla direzione da far prendere alla melodia.
Sì, perché Sing Street è un musical sugli anni ’80 che riesce a dimostrare continuamente una sensibilità, soprattutto musicale, che va oltre la sua confezione impeccabile, sa blandire lo spettatore senza dimostrarsi troppo apertamente ruffiano, perché è il frutto non di una nostalgia di superficie, quanto piuttosto di un manierismo sonoro colto e sincero. Andante pop con brio, e schietto sentimento.

da qui 


sabato 19 novembre 2016

Gabo - Il mondo di Garcia Marquez - Justin Webster

una biografia in stile classico, che si vede bene (nel prezzo del biglietto è compreso anche Bill Clinton).
aneddoti di vita del grande scrittore non mancano, amicizie, libri, donne, Cuba e Colombia non mancano.
anche se il documentario non è indimenticabile, vedere e ascoltare Gabriel García Márquez non è mai tempo perso.
e se magari ti viene voglia di leggere o rileggere almeno uno dei suoi libri, e lo fai davvero, allora ben vengano le biografie in stile classico - Ismaele





Questo è un film sobrio e semplice, che non ambisce a incantare vaste platee, ma contiene diverse perle di conoscenza che non mancheranno di entusiasmare chi sente la passione della scrittura, chi ama i libri di Gabo e chi ha apprezzato o vuole meglio conoscere questo protagonista del XX secolo. Come quella che ci regala lo stesso scrittore al termine di questo viaggio, parlando della sua avversione contro la morte e della sua lotta per allontanarla, alla domanda del giornalista che gli chiede cosa si possa fare per sconfiggerla, Marquez risponde: “scrivere, scrivere molto”. Solo tre parole, che valgono come un intero testamento.





se uno non vede il film (pochissime copie, meno delle dita di una mano) può vedere e ascoltare almeno un'interessante intervista del 1995:



Gabriel García Márquez è un gigante paziente e Ana Cristina Navarro una maschera sciocca, tutto un pregiudizio, come se stesse intervistando un idiota.

mercoledì 16 novembre 2016

The Adventure of married couple (Zan va Shohare Karegar) - Keywan Karimi



ispirato a un racconto di Italo Calvino (qui)

---------------------


"…ora è la volta di Keywan Karimi, giovane documentarista curdo iraniano condannato a sei anni di carcere e 223 frustate per il film documentario Writing On City, realizzato quest’anno, di cui è stato diffuso soltanto il trailer. Un racconto storico-sociologico per immagini, realizzato osservando i graffiti per le strade di Teheran, attraverso il quale Karimi documenta l’Iran a cavallo tra la rivoluzione del ’79 e il movimento dell’Onda Verde, nato dalle manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad…"
qui e qui due interviste con Keywan Karimi.





qui una pagina dedicata a Keywan Karimi su wikipedia

lunedì 14 novembre 2016

Fai bei sogni – Marco Bellocchio

Belfagor me lo ricordo, faceva paura davvero.
Massimo se lo ricorda bene, la mamma lo proteggeva.
il film è sull'assenza, al protagonista manca qualcosa più della madre, gli manca un perché, e solo la dottoressa Elisa riesce a dargli una spinta decisiva a diventare un altro, non a dimenticare la madre, ma ad affrancarsi.
ci sono cose inutili nel film, le scene a Sarajevo (uno cattivo, molto cattivo, direbbe che è per dare una piccola parte a Piergiorgio, figlio di Marco Bellocchio), per esempio, ma c'è anche Roberto Herlitzka, per pochi minuti preziosi.
Massimo bambino è molto bravo, e anche da grande Massimo non delude, solo che vedere Valerio Mastandrea fuori dalla Roma popolare fa uno strano effetto. 
non è un film indimenticabile, ma nel complesso è un bel film.
Marco Bellocchio fa un film onesto, da una sceneggiatura non originale, e con interpreti che sanno il fatto loro, e un direttore della fotografia che è Daniele Ciprì.
al cinema le luci e i colori di Daniele Ciprì rendono più che a casa, secondo me.
buona visione - Ismaele






…Intendiamoci, l’argomento in sé è potente e significativo ma per poterlo narrare di nuovo (oggi) in modo veramente convincente e personale forse sarebbe servita un’impostazione meno scontata, e anche una sceneggiatura più attenta alla costruzione umana del personaggio che, ad esempio, vediamo improvvisamente giornalista sportivo e poi, altrettanto repentinamente, inviato in zona di guerra. A ciò, si aggiunge il fatto che Valerio Mastandrea, pur all’altezza (professionalmente) del compito che gli è stato assegnato (il ruolo del protagonista da adulto), non sembra proprio plausibile nei panni di un medio borghese nato e cresciuto nella Torino degli anni Sessanta e Settanta.
Fai bei sogni è, dunque, un’opera cinematografica che riesce a tenersi in piedi soprattutto grazie alla sua solidità registica, alla costruzione di alcune scene in cui l’emozione viene comunicata in modo trattenuto, alla mano di un cineasta che è in grado anche solo con alcune intense inquadrature di tenere accesa l’attenzione dello spettatore. Queste ultime sono vere, autentiche, apparizioni estetiche di un cinema di estrema importanza, quello di Marco Bellocchio, che ha dato tantissimo alla cultura visuale del Novecento (In Italia, e non solo) ma che, a nostro avviso, non sembra più possedere una tangibile spinta propulsiva.

…è potente e rivelante la scena di lui Massimo - di nuovo restio - accetta l’incarico offertogli dal direttore del giornale di rispondere ad una lettera in cui si afferma l’odio verso le madri - e in generale l’ordine costituito. Nella rubrica del giornale Massimo scrive in maniera viscerale, racconta la sua esperienza sofferta, di figlio senza madre e con desiderio di abbracci. Cosicché tutti i lettori conoscono il suo modo di esprimersi, fuori dalla sezione sportiva o di cronaca cui aveva finora lavorato. Ma ciò sigla la fine della purezza di Massimo. In questo caso ha usato la madre - e la sua morte - per ottenere un successo mediatico, seppellendola definitivamente: è ciò che infatti un altro giornalista gli fa notare, tanto che Massimo innervosito attacca il telefono in faccia.
È forse questo l’aspetto più innovativo che Bellocchio riesce ad offrire. Ovvero la capacità di denudare una propria sofferenza, per far immedesimare sì i lettori, ma aumentare anche il proprio business. È giusto usare l’esperienza intima per ottenere successo? La madre di Massimo sarebbe stata d’accordo nel sentirsi raccontata in un articolo di giornale? Se dal punto di vista giornalistico la riposta è no, lo è da quello letterario. È un omaggio ad una donna che non c’è più, ma dall'altra parte la si è usata per uno scopo anche economico - pur se attraverso la trasfigurazione letteraria.
Sono gli stessi pensieri intimi che il protagonista Massimo prova, e che Bellocchio amplifica a dismisura fino a farla diventare un’ossessione. I film che Massimo vede con la madre nutrono questo timore, da “Il bacio della pantera” a “Il gabinetto del dottor Caligari”, e ogni visione si schiudeva con un abbraccio. Fino al timore di essere catturato dalla figura demoniaca di Belfagor.
Alla domanda sulle liceità di usare il dolore privato per scopi mediatici Bellocchio non risponde, la semina. Una chiosa la offre la dottoressa Elisa mentre abbraccia Massimo: “Lasciala andare”.

Ora, si fa abbastanza fatica a capire cosa ci abbia trovato Bellocchio in questo melodramma familiare ipersentimentalista e gonfio di retorica con un protagonista orfano certo sofferente, ma pure qua e là insopportabilmente narciso e autoriferito (vogliam parlare delle scene finali quando il nostro non ha la minima parola di comprensione per la povera madre accusandola, ancora!, di averlo abbandonato?). Una storia oltretutto trasposta nel film con dialoghi al limite dell’inudibile, e con sequenze intere di cui faremmo a meno, come l’escursione nei Balcani o quella sulla collina torinese nella casa dell’amico ricco e stronzo. Per fortuna che Bellocchio c’è, ed è in grado di cavare visioni e cinema vero anche da un feuilleton tra Carolina Invernizio e Senza famiglia, per quanto aggiornato agli usi e agli psicologismi della contemporaneità italiana. Specialista nel cinematografare l’inconscio, appronta scene di un (sur)realismo più onirico che magico, dalla bara della madre che sovrasta e schiaccia il bambino al megapresepe in cui par di precipitare in un mondo parallelo. E le lezioni del sacerdote-mentore, e i percorsi misteriosi nelle vecchie case colme di libri e carte e ogni possibile soffocante arredo. E incubi e fantasmi e fantasticherie, molto giocando sul Belfagor televisivo anni Sessanta culto di mamma e figliolo. La claustrofobia familiare, così bellocchiana da sempre, trova in questo film un’altra occasione per imprigionare i personaggi e, per contagio, pure noi spettatori. Bellocchio dissemina il suo racconto di prefigurazioni, anticipazioni psichiche, premonizioni, come l’ossessione da parte di Massimo bambino, ragazzo e adulto della caduta, del precipitare, una spia di quello che sa ma non vuole ammettere di sapere. E via allora con la statuetta di Napoleone lanciata dalla finestra, con Belfagor che precipita, con il tuffo dal trampolino più alto della donna-salvatrice (una Bérénice Bejo bellissima). Come in quel romanzo psicanalitico anni Ottanta, L’albergo bianco, dove la protagonista attraverso visioni inconsce pre-vedeva e pre-sentiva quanto le sarebbe successo. Se solo Bellocchio avesse seguito con più radicalità e convinzione questa traccia di connessioni, concantenazioni inconsce, avremmo avuto un altro (e migliore) film…

Bellocchio, capace di vertiginose astrazioni e di altissimi afflati filosofici, racconta la storia di un salto nel vuoto attraverso i tuffi di Cagnotto e la caduta dell'aereo del Grande Torino sopra la collina di Superga, non mettendosi mai al di sopra di quelle "ovvietà che sconvolgono" e che sono la forza primordiale del romanzo di Gramellini perché parlano a tutti accantonando il comune senso del pudore (ma anche la spocchia da intellettuale) come si fa quando ci si scioglie nel ballo, rendendosi ridicoli e irresistibili nello stesso magico e imbarazzante istante. Le raffinate musiche di Carlo Crivelli sottolineano invece la presenza costante di un battito nascosto che viaggia in direzione contraria rispetto alla melodia di facciata, irrazionale e ingestibile come un attacco di panico, rivelatore di una verità che nessuna glassa superficiale può tenere nascosta…
da qui

La trasposizione in pellicola di Fai bei sogni ad opera del nostro Marco Bellocchio però ha rovinato tutto come peggio non poteva. Non c’è nulla degli slanci e dello sguardo a tratti ironico riconosciuti al romanzo. Della luce che nonostante tutto, sorge. Il film procede stentato e tedioso, la sceneggiatura spezzata in lacci che non si annodano mai; nonostante la lunghezza niente e nessuno nel film “sta” nelle situazioni per il tempo sufficiente a entrarci in empatia, il montaggio passa da un decennio all'altro come a caso…

domenica 13 novembre 2016

Frailty (Frailty - Nessuno è al sicuro) - Bill Paxton

inizia come una qualunque soffiata/confessione a un agente dell'FBI e piano piano diventa un'altra cosa, a metà fra I soliti sospetti e un giro sulle montagne russe.
la sceneggiatura è inquietante e perfetta, e non ti stacchi fino all'ultima immagine.
grande Matthew McConaughey, ma gli altri non sono da meno.
non leggete la trama e non perdetevelo, sarà una bellissima sorpresa - Ismaele







Paxton, noto attore spesso non protagonista (Boxing Helena, 1993; Terminator, 1984; Titanic, 1997; True Lies, 1994; Twister, 1996; Vertical Limit, 1996), si mette dietro la telecamera per dirigere questo thriller a tinte forti che sa un po' di horror (con spolverate di gotico moderno) e un po' di psycho-thriller. Nonostante il poco azzeccato titolo italiano (strano, vero?!) e la trama sopra riportata che sembra raccontare qualcosa di non originale, Paxton e Brent Hanley (alla sceneggiatura) riescono a dipingere un quadro dell'America rurale, puritana, isolata, in modo sobrio, un po' noiosetto potrebbero dire alcuni, ma comunque convincente ed inquietante. Nonostante tutte le uccisioni e le violenze siano off-screen, cosa che rimarca l'appartenenza di tale pellicola più al genere thriller che a quello horror, l'inquietudine sprigionata dalla storia, che si svolge in poche e limitate locations, è notevole. Una certa lentezza del film, quindi, è forse più specchio di una chiusura mentale dei protagonisti, di un ambiente culturalmente asfittico, piuttosto che un difetto di produzione. Oltre alle dinamiche differenti che scuotono le menti dei due bambini, è interessante notare come i deliri del padre, omicida eppure nel medesimo tempo così incessantemente buono e comprensivo, facciano venire dei dubbi anche allo spettatore rispetto alla sua pazzia; per la qual cosa si spera che Mr. Meiks abbia in un modo od in un altro ragione e non sia solamente un serial killer. E questo è un punto a favore per la pellicola…

He loves his children. He is only following God's instructions: "This is our job now, son. We've got to do this." When the older son, terrified and convinced his father has gone mad, says he'll report him to the police, his father explains, "If you do that, son, I'll die. The angel was clear on this." The pressure that the children are under is unbearable, and tragic, and warps their entire lives.
"Frailty" is an extraordinary work, concealing in its depths not only unexpected story turns but also implications, hidden at first, that make it even deeper and more sad. It is the first film directed by the actor Bill Paxton, who also plays the father and succeeds in making 'Dad' not a villain but a sincere man lost within his delusions. Matthew McConaughey plays one of his sons as a grown man, and Powers Boothe is the FBI agent who is investigating the "God's Hand" serial murders in Texas when the son comes to him one night, with the body of his brother parked outside in a stolen ambulance…

Capita raramente di assistere ad un esordio in cabina di regia intenso ed emozionante come quello dell'attore Bill Paxton con il suo Frailty, opera prima che attraversa gli esili margini dei generi cinematografici per poi adagiarsi lentamente negli spazi immobili di quel che rimane del miglior cinema d'autore. Una deriva dell'occhio che inizia fin dalle prime inquadrature, incorniciate in interminabili flashback e scandite da una voce – off che lascia crescere tensione ed inquietudine, immergendo lo spettatore nelle pratiche di un oscuro ménage familiare, in una "piccola bottega degli orrori" dove si rincorrono apparizioni di un angelo sterminatore, un'incredibile missione di purificazione sociale ed una serie interminabile di corpi smembrati a colpi d'accetta. Eppure Frailty non è un horror né un thriller e rimarrà deluso chi si aspetta sequenze ad alta gradazione di adrenalina: qui l'orrore è un germe, un batterio che si insidia nei vicoli e negli anfratti più bui della quotidianità corrodendone dall'interno riti e strutture dell'ordinario, in un gioco al massacro che sembra non risparmiare nessuno. Quasi una partita a scacchi che Paxton conduce magistralmente costruendo un set squadrato fra il roseto e la cantina di una modesta fattoria della campagna yankee, affogato sui volti dei protagonisti ma in costante tensione con la voce della memoria di un "futuro anteriore" dove apparenza e realtà si sovrappongono continuamente. Fino alle sequenze finali che rileggono il flusso narrativo capovolgendone senso e significato in un detour narrativo degno di film come The Others di Amenábar o Il sesto senso di Shyamalan…

sabato 12 novembre 2016

Operazione Valchiria – Bryan Singer

Tom Cruise è bravo, sempre uguale, magari, ma se Stauffenberg fosse stato interpretato da un attore non statiunitense il film ne avrebbe guadagnato, secondo me.
la storia è tesa, un meccanismo a orologeria che appassiona anche se la fine è nota.
Bryan Singer è bravo, sa il suo mestiere (chi non lo conosce recuperi la sua opera prima, poco nota, Public access, un gioiellino).
in sintesi, Operazione Valchiria si fa vedere bene, buona visione - Ismaele











…Bryan Singer dirige con un ritmo perfetto e un’essenzialità avvincente la storia di un gruppo militare che osò valorosamente opporsi al tiranno tedesco, ordendo un attentato per ucciderlo e rovesciarne il regime. Lo spettatore seduto in sala può facilmente prevedere quale sia la fine di questo colpo di stato. Quello che si evidenzia è una storia non da tutti conosciuta, ma che ipnotizzerà il pubblico, per merito di una regia e una sceneggiatura (Christopher McQuarrie, Premio Oscar per I soliti sospetti), che hanno saputo bilanciare azione e suspense, creando un impatto scenico forte e definito, imprimendo ogni sequenza di una tensione che si mantiene costante per tutta la durata della pellicola.
Il design di quest’opera riecheggia quello dei film degni anni ’40, effetto dichiaratamente voluto da Singer, che ha adattato questa fotografia a un moderno action-thriller. La Germania ha fatto da set al film, con grande emotività da parte di tutto il cast. L’inizio è stato girato in modo classico con gru e carrelli, dopo il regista ha voluto che le riprese fossero effettuate con una camera a spalla, per creare “una sottile energia nervosa, una sensazione di incertezza, che accentua l’ansia”…

…Bryan Singer ha diretto un film storico che appare felicemente tradizionale al giorno d’oggi, dove più di una volta fanno capolino didascalie che non si vedevano da qualche anno, ed ha operato anche una scelta vincente nel limitare l’azione al solo prologo in Africa ed alla parte finale, lasciando intendere le possibilità di un esercito dell’epoca ed il potere che derivava dall’averlo sotto il proprio controllo. Sotto il profilo scenografico e costumistico la messa in scena è abbastanza fedele (sebbene nel film si veda quasi solo l’aspetto più militare della Germania e della sua popolazione), e il cast offre una prova soddisfacente, con un Tom Cruise meno sopra le righe del previsto e un insieme di caratteristi con un curriculum di ferro.
Anche solo come thriller Operazione Valchiria funziona bene, e lo si può vedere da come riesce a infondere una sottile speranza nel corso della visione, la sensazione che quegli uomini possano davvero portare a termine il loro disperato piano. Questo nonostante le circostanze della reale fine di Hitler siano universalmente note. E non è poco, come risultato.

Singer immerge i propri personaggi in una sorta di acquario, avulso dalla realtà, in cui i conflitti personali ed ideologici si riducono a miserabili fronde tra aristocratici insoddisfatti. Ma se le ragioni del fallito golpe rimangono inespresse, forti perplessità sorgono dalla rilettura farisaica del protagonista Stauffenberg, semplicisticamente dipinto come un eroe e vieppiù appiattito dalla solita volitiva interpretazione dell’inadatto Cruise.
Concetti come “onore”, “lealtà” e “coraggio” devono venire declinati diversamente a seconda di chi se ne appropria, e certamente assumono un valore ben diverso da quello comune se pronunciati da un nazista colonnello della Wermarcht. Singer invece rimuove con irritante superficialità ogni differenza, così da trasformare un manipolo di alti ufficiali nazisti, arrivati a posizione di grande potere non certo opponendosi a Hitler, in un gruppo di eroi idealisti. Troppo facile, troppo mainstream, troppo Hollywood. Una rilettura semplicistica aggravata dall’infelice interpretazione di Cruise, alla cui eroica determinazione avremmo preferito un maggior rovello, una scelta maggiormente sofferta e, di conseguenza, un protagonista più tormentato. Invece la gommosa fisicità yankee contribuisce a rendere Operazione Valchiria ciò che è: un’occasione sprecata per scarso coraggio.

…la messa in scena funziona, ma la ricostruzione appare troppo hollywoodiana, troppo modernista con quelle scenografie, quei costumi, quella fotografia davvero troppo americana. Anche le musiche, belle ma prevedibili, sembrano uscite da "Pearl Harbor"...
Nel cast Tom Cruise non è un granchè. Scelto forse soprattutto per la sua somiglianza fisica col vero von Stauffenberg, la sua interpretazione è un po' ingessata, sicuramente peggiore di quelle di altri attori scelti per il film. Fra le performance di questi ultimi colpiscono infatti quelle di Bill Nighy, Tom Wilkinson, Thomas Kretschmann e Kenneth Branagh

…“Operazione Valchiria” non può certo definirsi come uno dei grandi colossal di Hollywood; detto questo è un film ben fatto che si lascia guardare con partecipazione. La storia realmente accaduta del colonnello Von Stauffenberg di per sé attrae e interessa e la scelta di una regia altamente realistica da parte di Bryan Singer favorisce la riflessione ed un discreto coinvolgimento.
Purtroppo però, tutto qui. “Operazione Valchiria” si concentra esclusivamente sui fatti come in una sorta di documentario, tralasciando del tutto la parte emotiva ed emozionale della vicenda. Per lo spettatore dunque nessun sussulto, mai un piccolo balzo dalla sedia, neppure quando il colonnello saluta per l’ultima volta la bella moglie ed i suoi bambini.
Un film freddo come il nazismo, certo. Ma a noi sarebbe piaciuto sentirli ardere gli animi dei ribelli, come indubbiamente fu.

…No discuto que Mr. Singer se luce en la dirección de las escenas de acción -faltaría más, con el entreno que lleva en los últimos años- pero, aparte del cuidado que tiene en realizar las tomas del señor Cruise desde un ángulo bajo para disimular su escasa estatura (muy inferior a la del verdadero personaje), la formulación de una historia cuyo final es archiconocido, requería mayor vigor psicológico, más fuerza en la descripción de los personajes, al modo en que, por ejemplo, el maestro Hitchcock nos hace simpatizar con sus héroes perseguidos por el infortunio.
Porque, sabiendo de antemano que el complot va a fallar de forma estrepitosa, solo queda el interés de empatizar con los conspiradores hasta su fatal desenlace.
Pero ni el guión profundiza en los caracteres ni el director sabe retratarlos con la debida intensidad, ni los actores, la mayoría desperdiciados en escenas de secundarios muy por debajo de sus posibilidades, logran emocionarnos.
Quizás porque todo el circo está montado al servicio de la estrella principal, un Tom Cruise que aparece en casi todas las secuencias demostrando su inutilidad para expresar nada en absoluto, hierático hasta decir basta, acaparando la pista principal de un circo que se ha anunciado con muchas luces pero que, acabada la función, queda en la memoria como una pobre atracción de feria, ditirámbica en su promoción, hueca de contenido, propia de tirititeros ambulantes en busca de un momento de gloria lejana en el tiempo.