lunedì 6 giugno 2016

Fiore – Claudio Giovannesi

un'altra giovane attrice sconosciuta contribuisce a fare un bel film italiano.
Fiore è una ragazza senza un domani chiaro e un presente non invidiabile, ma esiste.
figlia di un ex carcerato (il bravissimo, come sempre, Valerio Mastandrea), scarto della società, che tenta di rifarsi una vita, e Fiore esiste, non può ignorarla, prova a darle una mano, ma la vita è troppo difficile.
e quando il mondo è impossibile resta il sogno, con Josciua, non importa cosa succederà dopo.
(mi è tornato in mente questo libro di Fabio Geda).
la fotografia, e si vede, è di Daniele Ciprì.
lo trovate in poche sale, non fatevelo scappare - Ismaele










... Non tutto appare convincente, nel percorso tracciato da Giovannesi e dalla sua troupe: se il lavoro sul campo – il film è frutto anche di un laboratorio organizzato dal regista nel carcere minorile di Roma – è a dir poco encomiabile, e trasporta Fiore in una dimensione a se stante, lontano dalle secche del cinema “di impegno” che ben poca gloria ha portato alla produzione italiana, la scelta di lavorare su una sceneggiatura così poco narrativa, a favore di singoli estratti di vita quotidiana alla lunga finisce per appesantire un’opera che dovrebbe al contrario fare della semplicità la propria stella polare. L’eccessiva insistenza su alcune situazioni – su tutte la ferrea disciplina pretesa da una delle responsabili della struttura, che minaccia la povera Daphne in continuazione di “fare rapporto” – non giova a Fiore, gravandolo di un aggravio retorico. La stessa regia, ancora basata sull’idea di pedinamento, si fa via via meno efficace. Là dove Fiore colpisce sempre il bersaglio, invece, è nella tessitura di personaggi credibili, vivi, appassiona(n)ti. Daphne Scoccia stupisce per la naturalezza, l’espressività e la presenza scenica, ma non da meno sono anche Josciua Algeri (il ragazzo di cui si innamora in carcere, Josh) e le altre detenute Gessica Giulianielli, Klea Marku e Francesca Risu: su tutti allarga le sue ali protettive il sempre eccellente Valerio Mastandrea, qui nella parte del padre della protagonista, a sua volta ancora in attesa di scontare una pena detentiva.
Questo amore che Giovannesi nutre per i suoi personaggi permette a Fiore di scartare in maniera sensibile nell’ultimo segmento del film, a partire dal permesso concesso a Daphne per assistere alla prima comunione del figlio della compagna del padre…

non stupisce che il film sia perfettamente a fuoco quando lo sguardo di Giovannesi può coincidere e sovrapporsi a quello di Daphne (come avviene nei primi due terzi del film, quelli ambientati nello spazio concentrazionario del carcere), mentre sembra sfocarsi e perdere lucidità quando si allarga, aprendosi all’esterno, al mondo ‘fuori’. Non è un caso, allora, che nell’ultima parte le sequenze si facciano improvvisamente più veloci e concitate, che gli eventi si moltiplichino e si affastellino, come se si volesse ancora dire troppe cose nel poco tempo rimasto a disposizione per raccontarle (perché non concedersi un’altra mezz’ora?) o, meglio, per narrarle con l’esattezza (di toni e, appunto, di tempi) mostrata nell’ora e mezza precedente.
Resta comunque un gran film, Fiore, come resta il miracolo di un’attrice debuttante di impressionante presenza scenica, che lascia l’impressione di avere occhi troppi grandi e pieni di dolore per il suo corpo da bambina.

La storia di Fiore poggia sulle spalle esili (solo fisicamente) del personaggio femminile (un trend molto interessante del nuovo cinema italiano) che la regge con la grazia inconsapevole di un papavero di campo: il debutto di Daphne Scoccia è davvero notevole per immediatezza e carisma, e assai credibile è anche Josciua Algeri, con il suo accento che mescola hinterland milanese e radici meridionali con dolcezza e tracotanza. Ne emerge il ritratto di una vitalità insopprimibile come quelli dei fiori che crescono in mezzo al letame, o nelle fessure dei marciapiedi. 
Il pregio di Giovannesi è soprattutto lo sguardo pulito che scansa istintivamente gli autocompiacimenti di molti altri autori cinematografici. Il difetto è l'esilità di una trama già vista, soprattutto nel cinema francofono: il personaggio di Dafne, senza tetto né legge, ha già avuto mille incarnazioni precedenti, da Bresson a Truffaut, da Agnès Varda ai Dardenne. Più originali la figura del padre, cui presta la consueta mestizia Valerio Mastandrea, e della matrigna rumena, né strega né fata benefica. Daphne Scoccia sconta purtroppo la somiglianza fisica con Astrid Berges-Frisbey, protagonista del più coraggioso e innovativo Alaska, anch'esso assai legato all'estetica cinematografica (e alla coproduzione) francese. 
Auguriamo a Giovannesi di spingersi oltre le sue conoscenze filmiche pregresse e di buttare la cinepresa (e il cuore) oltre l'ostacolo per trovare la propria cifra originale, possibilmente radicata nel suo essere un regista italiano, oltre che un cittadino del mondo.

Qui il Fiore del titolo è un’adolescente chiamata Daphne, ragazza di strada che campa di piccoli furti (ruba gli smartphone e poi li rivende) e una volta beccata finisce in riformatorio, dove conosce Josciua (scritto proprio così, i ragazzi portano i loro veri nomi), pure lui giovane e incazzato, con il labbro bucato da tutti i piercing che gli hanno tolto prima di metterlo dentro. C’è una specie di amicizia, che poi diventa gelosia e alla fine amore – amore tra disgraziati, cioè un modo di tenersi a galla a vicenda, di mettere un senso nelle giornate.
Il film non è molto più di questo, la vita nel riformatorio, le visite del padre (interpretato da Valerio Mastandrea), la ricerca di uno spazio personale dentro un mondo in cui sono gli altri a decidere cosa devi fare, e dove e quando.
La cosa migliore sono i due protagonisti, ma il pensiero che per imitare la vita si debba prendere attori non professionisti, lasciargli il nome e togliergli lo spazio per scappare dalla macchina da presa, senza qualche intuizione di scrittura in più – o di forma, o tutte e due – sembra sempre un pensiero un po’ povero.

La realtà è necessità, la finzione è romanticismo; per un regista che si prefigge di raccontare la realtà sporca e dura delle carceri minorili,l’amor cortese dovrebbe essere l’ultima cosa a cui pensare.
Fiore allora è uno scialbo film romantico, ambientato in un luogo che dovrebbe essere “difficile” ma che difficile non è, nel quale ad opporsi al loro amore è la legge che li ha condannati e l’assistente che la minaccia di fare rapporto.
Non si capisce dove voglia parare il regista e la vicenda è tirata incredibilmente per le lunghe.
Il cinema coraggioso è un’altra cosa. Definire Fiore un film “difficile” farà rivoltare Claudio Caligari nella tomba.


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