Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
venerdì 2 dicembre 2022
ricordo di Jean-Marie Straub
Jean-Marie Straub:
il cinema tra mito e storia - Marco
Grosoli
Chi si imbatte per la prima volta nei film
di Jean-Marie Straub (quasi sempre girati e montati insieme alla compagna
Danièle Huillet, morta nel 2006 e a tutti gli effetti coautrice), magari
ignorandone il contesto, rimane spesso un po’ interdetto da queste immagini
estremamente essenziali, orlate da rari ma chirurgici tagli di montaggio, dove
figure umane inquadrate con certosina cura compositiva (senza mai voler
assomigliare a quadri, ma sempre in tensione organica con lo spazio fuori
dall’inquadratura), volta soprattutto ad inserirle in modo visivamente coerente
nell’ambiente circostante, declamano con dizione studiatissima testi
scrittissimi. Non pochi, in queste immagini così rigorose, di cinematografico
vedono poco o nulla.
È vero il contrario. Pochi, come Straub,
hanno saputo onorare quella che è stata sovente identificata come la
caratteristica fondamentale del medium cinematografico: l’oggettività.
“Oggettività” non vuol dire “realismo”. Non vuol dire “riprodurre le apparenze
del reale”. “Oggettività” vuol dire “cancellare le tracce di soggettività
nell’oggetto”. Cosa che riesce particolarmente bene alla cinepresa, macchina
che dipinge in movimento grazie a un movimento illusorio creato da un
automatismo di proiezione (i famosi 24 fotogrammi fissi al secondo). Molte
delle cose migliori mai viste al cinema dipendono dall’aver saputo assecondare
la sua innata oggettività, in moltissimi modi diversi. Lo ha fatto a lungo, ad
esempio, il cinema classico americano (le cui punte Straub conosceva bene, John
Ford su tutti): tutt’altro che realista, la sua impersonalità veniva dall’aver
portato nel ventesimo secolo il narratore onnisciente dei grandi romanzieri
ottocenteschi.
Straub era nato nel 1933 a Metz, in
quell’Alsazia contesa tra Francia e Germania soprattutto nei decenni successivi
a quelli in cui romanticismo e idealismo filosofico di là dal Reno, e ciclici
slanci rivoluzionari di qua, avevano gettato le basi di una nuova, utopica idea
di comunità. È lì che guarda l’oggettività straubiana: quella che cancella,
nell’oggetto, quelle tracce di soggettività che non si lasciano prendere nella
coimplicazione con l’oggetto. La sua oggettività è il circuito
idealista soggetto-oggetto portato alle estreme conseguenze: in altre parole,
il materialismo marxista, per il quale il soggetto, da un lato è coimplicato
nell’oggetto attraverso il lavoro, e dall’altro (e questo è il punto
decisivo) non è da confondersi con l’individuo.
Il suo stesso cinema, in misura quasi
esclusiva e a cominciare da Il fidanzato, l’attrice e il
ruffiano (1968, film sulla coppia tra i più belli mai fatti),
non è il cinema di Straub: è il cinema di Straub-Huillet. E nella prima delle
sue non poche autobiografie mascherate, Cézanne (1990),
Straub racconterà il suo cinema attraverso il pittore francese, capace di
osservare per anni la stessa montagna per riuscire a vederla per davvero, per quella che è, senza le incrostazioni
soggettive che si accumulano nei nostri occhi e nel nostro cervello. In voce
over, come nel successivo Une visite au Louvre (2004),
vengono letti dialoghi tra Cézanne e Joachim Gasquet, vere e proprie
dichiarazioni di poetica: come lo stesso Straub, il pittore è romantico perché
unisce l’arte alla critica d’arte, non in quanto individuo di genio. Il
montaggio spazializza l’individuo Cézanne, rendendolo inseparabile da una rete
di riferimenti che include non solo i luoghi della sua arte, ma soprattutto
altri pionieri dell’oggettività, romanzesca (Flaubert) e cinematografica (Jean
Renoir che filma Madame Bovary).
Il soggetto si afferma non come individuo,
ma annullandosi nell’oggetto e come oggetto; solo dispiegando le potenzialità
autonome dell’oggetto, l’uomo può piegarle ai propri bisogni, scoprendo questi
in quelle. Visione marxiana che non arriva dall’idealismo filosofico senza
passare dall’amatissimo Hölderlin: nel suo La morte di Empedocle (portato
sullo schermo nel 1987), al filosofo presocratico che predica invano una
rivoluzione tanto politica quanto epistemologica (riconoscere uguaglianza
ontologica a tutto ciò che esiste) non resta, come tentativo estremo di fusione
con il divino coincidente con la natura, che gettarsi nell’Etna…
In memoriam di Jean-Marie Straub (1933-2022): Un sua intervista (di Giovanni Spagnoletti)
È morto il
20 novembre 2022 a Rolle – la stessa località svizzera in cui era deceduto
anche l’amico Jean-Luc
Godardlo scorso 13 settembre) Jean-Marie Straub (1933
) che ha così raggiunto la sua compagna Danièle Huillet (1936)
deceduta nel 2006. Insieme sono stati la coppia più importante con cui è nato
il Cinema moderno negli anni Sessanta.
In attesa di
un ricordo più approfondito che seguirà nei prossimi giorni, ripubblico stralci
di una mia intervista riguardo a quello che considero il loro film più
importante – o almeno uno dei loro fondamentali e comunque il mio
preferito: Klassenverhältnisse(Rapporti di
classe, 1983). (G.Sp.)
Una
brevissima premessa per introdurre questa intervista a Jean-Marie
Straub e Daniéle Huillet, gli autori del film Klassenverhältnisse(Rapporti
di classe, 1983) tratto da Amerika (Der
Verschollene) di Franz Kafka. Da molte parti si
è ripetuto e si continua a ripetere che lo scrittore praghese è, a
differenza di altri, un autore infilmabile, in quanto tramite la
sua lingua ci avrebbe consegnato delle immagini molto precise che
azzererebbero (o almeno tenderebbero a farlo) la possibilità di
corrispondenti immagini visive.
Naturalmente tale “pregiudizio” non
ha impedito che le opere di Kafka
siano state, a più riprese, utilizzate dai media della riproducibilità
tecnica – senza voler parlare poi di tutto ciò che il “kafkismo” ha
prodotto in campo cine-televisivo perché allora il discorso si allargherebbe a
dismisura. […] In ogni caso per lo meno due esempi
smentiscono, nella pratica e nei risultati, la
teoria della presunta non filmabilità di Kafka: Le
Procès/The Trial(Il processo, 1962)
di Orson Welles e appunto Klassenverhältnisse.
[….]. Le Procès è soprattutto un “pre-testo”
perché – contro o al di là del romanzo di Kafka – si è
trasformato in un’opera compiutamente e baroccamente wellesiana,
che si iscrive in modo perfetto nel mondo del grande regista
americano – non è un caso che l’autore lo
consideri il film migliore della sua carriera.
Tutt’altro tipo di discorso cinematografico –
lontano dalle deformazioni dei grandangoli, le
inquadrature dal basso e la monumentalità degli spazi
di Welles – è quello che affrontano
invece Jean-Marie Straub e Danièle Huillet –
qualcuno ha definito il loro lavoro il “protocollo cinematografico di una
lettura”. Ma a questo punto è tempo di lasciare la parola
ai due autori.
Giovanni
Spagnoletti: Voi
avete dichiarato presentando al Festival di Pesaro Schwarze Sünde (Peccato
nero, 1989) che molte volte
all’origine dei Vostri film c’è un luogo, uno spazio più che il
testo stesso. Ciò è stato vero anche nel caso di Klassenverhältnisse che
avete realizzato, in gran parte, ad Amburgo?
Straub: No per nulla, nel
caso di Klassenverhältnisse non è stato
così. Devo fare una digressione. Quando sono scappato dalla
Francia per non essere costretto a sparare contro gli algerini – il
tribunale militare del mio paese mi aveva condannato ad un anno di
prigione e ci sono voluti più di dieci anni prima di essere amnistiato -, ero
segnalato alla frontiera e quindi non potevo rientrare in Francia. Allora
ho cominciato a vagabondare tra Amsterdam – dove c’era Gustav
Leonhardt con cui volevamo realizzare Chronik der Anna
Magdalena Bach (Cronaca di Anna Magdalena
Bach, 1967) – Dresda, Lipsia e la
Biblioteca di Berlino-est in cui sono raccolti la maggior parte dei
manoscritti di Bach, ma a un certo momento questo
mio vagabondaggio doveva finire. Inoltre non avevo più una lira – non
che avessi molti soldi prima, tanto che ero giunto a viaggiare
in treno di notte per non pagare l’albergo. Les voyages
forment la jeunesse ma a un certo punto ti distruggono la
vecchiaia e io cominciavo a diventare vecchietto. Allora ho deciso
di fermarmi e Danièle [Huillet] mi ha ritrovato. Così
finalmente ci siamo stabiliti a Monaco ma solo perché pensavamo che se si
tentava di fare dei film – in primo luogo Anna
Magdalena Bach che siamo riusciti a realizzare
solo dieci anni dopo, nel 1967 – bisognava stare a
Monaco. La città, però, a cui pensavo e mi ero affezionato, era
Amburgo. Questa sarebbe la risposta
rispetto al luogo: no quindi. Ma anche un paradosso:
quando vent’anni dopo sono tornato a fare dei film in Germania, abbiamo
girato Klassenverhältnisse ad Amburgo perché era
la prima città tedesca in cui pensavo che sarei diventato
sedentario.
In
precedenza hai filmato con molti altri autori della letteratura
tedesca, Böll o Brecht per esempio. Qual è l’itinerario
che vi ha portato a confrontarvi con Kafka?
Straub: Cesare Pavese,
ma sarebbe troppo complicato da spiegare. Direi anche Brecht ma non
l’uomo di teatro bensì il Brecht di un romanzo perché il film a cui fai
riferimento è il nostro Geschichtsunterricht (Lezioni
di storia, 1972) – trenta pagine tratte dal suo romanzo
incompiuto Die Geschäfte des Herrn Julius Caesar (Gli
affari del Signor Giulio Cesare) di circa
trecento pagine. Tutti i testi che poi diventano dei
nostri film, sono degli incontri e come tali sono sempre
casuali, dipendono dalla vita, dall’esperienza, dai
sentimenti, ecc. Non siamo noi che cerchiamo i testi sono loro che ci
prendono – non saprei dire di più.
Inoltre, un giorno, per caso, ho incontrato a Francoforte Peter
Handke – io stavo andando a mostrare Geschichtsunterrichtall’editore
Suhrkamp perché l’avevo fatto senza avere i diritti. Handke
mi ha accompagnato, ha visto anche lui il film e dopo mi ha detto che era
meglio di Brecht. Mi ha fatto un complimento velenoso
sia per noi che per Brecht, dicendomi che il film era
“schmerzlich” (doloroso) mentre a suo avviso Brecht non lo è
mai. Ed io ho ci ho riflettuto un po’ sopra.
Inizialmente, l’idea che avevo, era di filmare solo
il primo capitolo, l’unico testo del romanzo che Kafka pubblicò
in vita: Der Heizer (Il fuochista).
Sarebbe stato un cortometraggio di 15-20 minuti ma poi quando
abbiamo cominciato a lavorare, siamo arrivati a tutto il romanzo…
Morto nel silenzio Jean-Marie Straub. L’intervista a Roberto
Silvestri (di Alessandra Mammì)
Lunedì
21 novembre Roberto Silvestri (storico,
critico e cronista, voce militante del cinema più radicale e intelligente)
sulla sua pagina Facebook scrive: “Jean-Marie
Straub oggi è morto. La miseria etica e soprattutto culturale del cinema
italiano nel suo complesso, noi cronisti e critici compresi (a parte Fuori
Orario e Gian Vittorio Baldi) e anche della Sinistra politica, che senza gli
artisti non è nulla, è esemplificata dalla spocchia e dall’arroganza con la
quale sono stati trattati, recensiti, sbeffeggiati, ignorati, fraintesi, dagli
anni ’80 ad oggi, le opere dei cineasti Huillet-Straub”.
JEAN-MARIE
STRAUB: CHI ERA
Chi segue Silvestri lo ha saputo così. Non c’era stato un
tg, un notiziario, un talk show e tantomeno una prima pagina di quotidiano a
dare notizia della morte di uno dei più grandi artisti/cineasti del Novecento.
Ma sapevamo invece tutto di femminicidi, di omicidi, serial killer dei Parioli,
stragi commesse da un pazzo armato al di là dell’Oceano.
Così come non sapevamo che dopo un’intera vita passata nella periferia di Roma,
Straub era andato a morire a Rolle in Svizzera accanto al suo amico Godard. Non
sapevamo che in trent’anni di vita e lavoro nel nostro paese a nessun archivio,
museo o cineteca italiana è venuto in mente di acquisire il suo patrimonio di
appunti, lettere, story board e film. Film soprattutto, difficilissimi da
vedere, comprare o trovare. Provate a cercare in streaming una copia decente
del suo famoso, celebrato e meraviglioso “Cronaca
di Anna Magdalena Bach“. Non è disponibile neanche su Mubi, mentre Rai Play
(che pure dovrebbe averli) offre solo una selezione degli ultimi cortometraggi
e il lungometraggio “Sicilia!”, limpido, perfetto, filmico dialogo con il
Vittorini della “Conversazione in Sicilia” che, ci ricorda ancora Silvestri, “Nel 1999 con ministro dei Beni culturali
Melandri e governo D’Alema, non ebbe il Premio Qualità perché “troppo
letterario””.
Nessuno è profeta in patria, neanche in quella acquisita e scelta come fu
l’Italia per il comunista Straub, non capito dall’intellighenzia di sinistra,
lasciato andare via senza neanche un gesto per trattenere almeno il suo lavoro.
A Marco Müller (tra i pochi a
sostenerli istituzionalmente) che nel 2006 come direttore della mostra di
Venezia li voleva in laguna per rendere omaggio a loro cinema con un Leone
speciale, Daniéle Huillet e
Jean-Marie Straub rifiutandosi di raggiungere il Lido, risposero che quell’invito
era:”venuto troppo presto per la nostra morte
– troppo tardi nella nostra vita”. E adesso che è troppo tardi anche per
noi tutti, con l’aiuto di Roberto Silvestri, è il caso di riflettere su cosa
abbiamo perso nell’ignorare l’immenso valore di Danièle Huillet e Jean-Marie
Straub.
INTERVISTA
A ROBERTO SILVESTRI
Trent’anni a Roma in
isolamento, portando avanti con fatica il suo lavoro. Perchè Straub era stato
così emarginato dal sistema del cinema?
Era un uomo che mai si è riconciliato con il sistema. Fin dai suoi primi lavori
che sono la denuncia di un ritorno dei nazisti in posizioni di potere. Sono gli
anni in cui fa film dedicati alla Germania, compresa “Cronaca
di Anna Magdalena Bach“. Gli anni in cui è a stretto contatto con Rainer Werner Fassbinder e con il nuovo
cinema tedesco ma soprattutto Rosa von Praunheim, che nonostante il nome è un
uomo, tra i primi a occuparsi di problemi di omosessualità. Poi viene in Italia
nel 1969 per girare “Othon” tragedia di Corneille in costume ma ambientato in
una Roma piena di traffico e resta a Roma perché in quel momento l’Italia è un
baluardo della lotta antifascista. Qui nel 1975 gira un film molto importante ” Mosè e Aronne” dove si comincia ad elaborare
un’idea di Europa che nasce come scontro/incontro tra cultura ebraica e cultura
greca, partendo dal presupposto che una parte dell’identità europea
pre-rivoluzione francese è legata a questo incontro che diventa poi fondante
nella cultura americana. Ma mentre elabora queste operazioni, non entra
mai contatto con l’Intellighenzia romana, resta lontano dal cerchio che va da
Moravia a Pasolini, così come avrà rapporti di estraneità con il cinema
italiano compresi Bellocchio e Bertolucci, proprio perché questa sua
elaborazione della cultura cinematografica che condivide con Jean-Luc Godard da una parte abbraccia
il cinema moderno dalla forte soggettività, con quel punto di vista individuale
che non più ha rapporti ideologici con Chiesa o partito e sta elaborando una
propria visione, ma dall’altra proprio questa soggettività viene messa in
discussione da ciò che succede nel mondo, soprattutto dalla guerra del Vietnam
che riporta in scena un problema di identità politica. Il cinema allora deve
uscire dal cinema. Per lui come per Godard si apre una strada di
sperimentazione e isolamento dal sistema.
Godard sembra più
integrato di lui…
Godard è uno sperimentatore a tutto tondo e sa confrontarsi anche con il cinema
industriale, ma in fondo lo farà pochissimo. Rimarrà sempre indipendente: film
a basso costo totalmente controllati da lui. Mentre Straub fatica di più nel
fare cinema indipendente: ha il solo appoggio di qualche mecenate e poche
istituzioni particolarmente illuminate. Eppure riesce a produrre film a
bassissimo costo ma di altissima qualità. Bei film con pochi soldi: una cosa
che disturba e mette in imbarazzo l’industria.
Parliamo
di lui ora, ma lei fu altrettanto importante. Era una delle rare coppie di
autori uomo/donna che condividono la vita e i film. La qualità in loro sta
anche nella perfezione di ogni inquadratura, come procedevano nel lavoro? Come
lo dividevano? Facevano storyboard?
Sì certo c’erano degli storyboard, ma soprattutto una partitura musicale che
definiva anche le pause e i ritmi delle parole che dovevano scandire gli
attori. Daniele e Jean-Marie usavano un sistema di colori, un codice di loro
invenzione che indicava quando allungare una lettera o porre una pausa. Era
Danièle a guidare il film con le spalle alle riprese ma con attenzione pazzesca
al sonoro, alla parte fonica, alla registrazione del sound. I loro
collaboratori più importanti sono i fonici, non i direttori della fotografia.
Ed era sempre lei a curare la parte produttiva e organizzativa. Non a caso dopo la sua morte nel 2006, lui
fa soprattutto cortometraggi. Il loro lavoro può rappresentare il primo esempio
del cinema post moderno e anche quel cinema che ha elaborato una critica
analitica per definire quando un’immagine ha una funzione e quando invece non
ce l’ha. Quando Robert Bresson nelle
sequenze di battaglia inquadra solo gli zoccoli dei cavalli, apre una fase di
totale decostruzione di quella narrativa che era stata imposta dal cinema
classico. Come Bresson anche in Straub le sue qualità solo quelle del
de-costruttore: il taglio netto in montaggio che lui porta nella distruzione
della punteggiatura ritmica; il cinema di scena che si oppone al cinema del
piano e dunque l’abolizione del campo contro campo; l’unione fra documentario e
fiction che poi diventa un fulcro del cinema moderno; la camera fissa; il
décadrage quel decentramento dell’inquadratura che ci spinge verso le zone
abbandonate, ai margini del décor. “Non siamo rigattieri” diceva “non dobbiamo
elencare gli oggetti…
Quale
rapporto aveva con l’arte?
Un cortometraggio del 2015 è un omaggio all’arte italiana poi il mediometraggio
“Cézanne, dialogue avec Joachim Gasquet”
è la presa di posizione per dichiarare che le opere si vedono solo da uno o due
punti di vista, non si gioca danzando con la macchina da presa sul
quadro. Ma è il cinema postmoderno a richiedere di debordare da tutte le
parti compresa la letteratura. Non si tratta di diventare letterario ma di
lavorare quasi su un happening della parola. E lui sulla parola e sulla lingua
ha molto lavorato, in questo si avvicina a Pasolini quando afferma che questa
lingua italiana fascista va ricostruita. Straub aiutava gli italiani a
ricostruire la lingua: è la parola che lui mette in scena, non il libro. Chi lo
capiva lo trovava solare ed esplicito esattamente il contrario di quel che
vuole la vulgata nel considerare Straub noioso o troppo rigoroso.
La causa della sua
emarginazione fu più culturale o politica?
Politica sicuramente. Come lui stesso afferma con uno dei suoi primi film è un
“non riconciliato”. Va via dalla Germania dichiarando che erano tornati nazisti
al potere, viene in Italia e attacca la storia politica del Pci per la
distruzione della campagna e della vita di braccianti, sostiene il Sessantotto
e si schiera per il Terzo Cinema. Per tutti questi motivi è partita un’opera di
demolizione e a parte alcune riviste come “Filmcritica” in Italia o i “Cahiers”
in Francia, poche voci lo hanno difeso. Ma più che l’opera di denigrazione a
isolarlo soprattutto qui da noi, è stato il silenzio che lo ha circondato fino
a diventare un silenzio assordante il giorno della sua morte.
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