sabato 7 giugno 2014

La quinta stagione - Peter Brosens, Jessica Woodworth

nel film c'è "solo" la rappresentazione e il racconto di un mondo che muore, 
molti film, anche di ottimo livello, negli ultimi anni e non solo, a partire dell'immenso "Il cavallo di Torino, di Bela Tarr (qui), dev'essere lo spirito dei tempi.
di Peter Brosens e Jessica Woodworth avevo già visto l'ottimo "Altiplano" (qui), ambientato nelle Ande, cercherò  adesso "Kadhak" (ambientato in Mongolia),quei due fanno grande cinema.
ne "La quinta stagione" tutto sfocia nella ricerca e omicidio di un capro espiatorio, un'ottima fuga dalla realtà, dalle cause e dalle soluzioni, che ha avuto, ha e avrà successo presso il genere umano, la specie più dannosa del pianeta.
qui il capro espiatorio è un apicoltore, che ha una sensibilità diversa dagli altri (sarà una coincidenza, ma Sam Louwyck, l'attore, fa l'apicoltore anche qui, e però ha fatto anche altro, come "Rundskop", qui, sempre nel settore dell'allevamento).
le immagini sono bellissime, e il dolore urlato di Alice non lo dimentichi per un bel po'.
un gran film, da non perdere - Ismaele





L’arte è un processo di improvvisazione e ispirazione, non la si può circoscrivere all’interno di un universo raziocinante. "La Cinquième Saison" è una forma di cinema che pur non abusando dell’avanguardia più sfrontata, comunica mediante emozioni primordiali, a livello epidermico. Sul fronte di un estetismo delle immagini vicino alla forma pittorica, di un dialogo quasi impercettibile e di una costruzione narrativa che sfida la forma canonica perdendo progressivamente aderenza dalla realtà…

Film d'immagini di infartuante bellezza (già l'incipit con quella carrellata lentissima sul tavolo è strepitosa), tanti quadri in movimento da fermarli là dove sono e guardarli e rimirarli, una regia di classe immensa.
Però la narrazione, molto frammentaria, lascia a desiderare e le minivicende al suo interno, il rapporto paese-filosofo o l'amore tra i due ragazzi arrivano a degli epiloghi con la sensazione che manchi qualcosa nel mezzo. Gli strepitosi 10 minuti finali, preannunciati da quell'uomo con la maschera e la gallina morta nel tavolo, roba da restarci secchi per bellezza, arrivano a mio parere in un modo non del tutto convincente, leggermente esagerato per quello che avevamo visto finora. E ho notato un eccesso di simbolismo che ho faticato a decifrare…

… è un mirabile apologo sulla condizione dell'essere umano di fronte al potere di una Natura che erge a protagonista suprema, solamente mascherato (come l'umanità rappresentata) da falso apocalittico, in quanto non muta come tale (gli struzzi simboleggiano la rinascita e la loro apparizione nel finale, potrebbe rappresentare la speranzosa ricomparsa della primavera), ma resta inviluppato alla radice e giusto per chiarire, risulta alquanto inglorioso farne accostamenti, anche minimi, con il catastrofismo propinatoci dall'industria hollywoodiana. Quì, la coppia (anche nella realtà) Brosens/Woodworth, predilige movimenti di camera assolutamente sinuosi e pacati, in perfetta armonia con gli stilemi del cinema contemplativo: basti pensare alla scena di apertura o ancor più, a quella lenta carrellata orizzontale (Tarr docet?), da destra a sinistra e poi viceversa, nella sequenza della discussione al bar, sui primi segnali infausti…

…in quell’isolato villaggio delle Ardenne l’inverno si è fermato, ha irrigidito il suo alito mortifero e respinto l’avvento della primavera, sottraendo alla terra l’impulso alla rigenerazione e scatenando negli abitanti quello animale di sopravvivenza.  Quanto prima era fonte rituale di incontro e di condivisione ora è soltanto motivo di arida contesa e di esplosioni violente ai danni di chi, per caso e per fragilità, è assunto a capro espiatorio della situazione, condannato a patire su di sè una colpa che è di tutti, come afferma con un rimasuglio di saggezza una donna della cittadina. Si assiste così a una progressiva e irreversibile perdita di fratellanza e carità, contro cui neanche la purezza intatta di due adolescenti, Alice (Aurélia Poirier) e Thomas (Django Schrevens) potrà lottare. Una parabola biblica e apocalittica che non risparmia sul peccato, sul male e sulla punizione.

gli unici colori sono il grigio del cielo, il nero della terra e il bianco della neve, tonalità livide che giocano un ruolo fondamentale in questo film (straordinaria la fotografia diHans Bruch jr.) in quanto espressione dell'aridità e della superficialità dei suoi abitanti, che sottovalutano fino alle estreme conseguenze quello che sta accadendo fuori. Chiara parabola rivolta al genere umano tutto, troppo spesso stupidamente indifferente ai segnali che la natura, violentata e incattivita, ci invia sotto forma di disastri  ambientali mai presi adeguatamente sul serio.
Tutto il film, del resto, è una parabola sulla grettezza dell'uomo e la sua incapacità di comprendere non solo la natura, ma pure chi gli sta accanto: dopo aver preso coscienza troppo tardi dei segnali negativi che anticipano il disastro (un gallo che non vuol saperne di cantare, un falò che non si accende...) l'intera comunità si scaglia ferocemente verso gli ultimi arrivati, accusati di portare la malasorte e sacrificandoli a un Dio che non esiste più. La povertà, la fame, l'impotenza, accrescono a dismisura gli istinti malvagi dell'uomo, incapace di autogovernarsi e pronto a prendersela con i più deboli, ingiustamente accusati di aver rotto un meccanismo inutilizzabile da tempo.

La quinta stagione è un film che somiglia solo a se stesso talmente carico di simboli e metafore sulla grettezza dell'animo umano che se ne esce turbati proprio perchè non si è stupiti che qualcosa del genere possa accadere in una società in crisi socioeconomica come la nostra che per far progredire la massa non esiterebbe a sacrificare i più deboli e i diversi in genere.
Peter Brosens e Jessica Woodworth non si limitano però al semplice interesse antropologico, non mettono la loro lente da entomologo puntata su questo piccolo avamposto di umanità.
Il loro è un discorso che assume connotati universali come l'apocalisse che incombe e che si appalesa con un inverno che non vuole andare più via, quasi fossero prove generali di una nuova glaciazione.
L'uomo è figlio della natura che lo circonda ed è destinato a morire se lei muore.
Ma sembra non accorgersene.
Ecco perchè il mancato fluire delle stagioni inquieta e disturba, come quel gallo che si ostina a non cantare ( e fa una brutta fine) oppure quello struzzo che guarda fisso nella telecamera.
Un nuovo inizio? O la certitficazione della fine?
Parafrasando Amleto si può dire che c'è del marcio in Belgio.
Ma da tutto questo vien fuori dell'ottimo cinema....

La question est donc celle de la survie de l'homme, dans un monde où les oiseaux morts s'amoncellent, et où même les arbres se mettent à tomber. Déroutant de prime abord de par son humour visuel et décalé (voir les scènes avec le coq, la comptine de l'escargot dans la culotte...), "La Cinquième saison" est un film d'une immense richesse, mêlant le désespoir de l'humanité à la persistance de certaines croyances, pour mieux jouer avec nos peurs (l'apocalypse, la persécution...). Un film au charme esthétique indéniable, aux cadrages savamment calculés, usant d'une symbolique fort à propos, et stigmatisant avec rigueur l'absence d'entraide (il fait dire à l'un des personnages : « c'est pas bien la charité »), l'exclusion, la peur de la différence et la notion même de fatalité. Une œuvre jouissive et visionnaire.

La cinquième saison diventa la straziante rappresentazione (mediante ricostituzione di simboli e figure mortifere) di un immaginario (intradiegetico) non più possibile, un racconto (aperto) in cui emerge, progressivamente e inesorabilmente, il lato oscuro e oscurato della relazione dell’uomo/poeta con la natura.
La seconda non-stagione (Primavera) segna il crepuscolo della coltura: dal letame non nasce più niente, le api non impollinano più, il paradosso sembra realizzarsi e il filosofo nomade, il solo adulto a non sentire il bisogno di spiegare l’inspiegabile (facendo del paradosso di oggi il pregiudizio di domani), sa che si può rispondere all’impossibile soltanto proponendo una via d’uscita egualmente impossibile (egli afferma, citando Rousseau: Je préfère être un homme à paradoxes qu'un homme à préjugés)…
da qui

5 commenti:

  1. Al cinema era stata una visione veramente emozionate. Mi sa, che a distanza di un anno, è giunta l'ora di rivederlo. "Altiplano" invece ancora manca, spero si trovi in italiano anche quello ;)...

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  2. Piaciuto parecchio pure a me, uno di quei film che non si dimenticano. "Altiplano" e "Kadhak", però, mancano e credo sia ora di cercarli.

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  3. Visto in concorso a Venezia due anni fa, è tuttora un titolo che non smetto di rivedere: esteticamente bellissimo, clamorosamente d'atmosfera, inquietante e mistico insieme. Davvero una bellissima scoperta: è d'obbligo adesso recuperare i film precedenti di Brosens/Woodworth

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  4. al cinema qui non era arrivato, pazienza, meno male che ci sono le visioni di "riparazione"
    "Altiplano"è tutto diverso, e merita comunque
    "Khadak" mi (ci) aspetta :)

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  5. visto di recente pure io, l'ho trovato molto interessante :)

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