domenica 16 settembre 2012

Pietà – Kim Ki-Duk

il titolo giusto sarebbe Vendetta, ma qualcuno l'aveva già fatto, e meglio.
il film è una mezza delusione, c'è grande mestiere, scene forti e a volte memorabili, ma la storia non mi ha preso più di tanto, anzi poco.
i film belli di Kim Ki-duk sono "Ferro 3", "Primavera, estate..." e Bad guy", secondo la mia opinione, questo si può vedere, ma non è indimenticabile, le cose migliori sono quelle nelle quali i ritmi sono lenti e non serve la violenza, altri sono molto più bravi, in Corea, nei "generi" vendetta e violenza.
so di essere in minoranza, Fantozzi aveva usato parole più estreme per un film capolavoro, questo non è da disprezzare, ma il capolavoro è lontanissimo, a Venezia hanno fatto un pasticcio - Ismaele




"Pietà" è la storia di un contrappasso, di una rieducazione forzata, di un rovesciamento tra vittima e carnefice, di una abisso morale che non ammette ritorni e risalite. Kim-Ki duk è un genio dello stile. Racconta con immagini crude e asciutte, al limite del sostenibile, nel contempo realistiche e simboliche, descrivendo gesti e ambienti con precisione tagliente, giocando tra crudeltà e conati di tenerezza. Cinema d'autore certo, ma questa volta la cerebralità ci è sembrata eccessiva rispetto alla capacitrà di emozionare. L'esercizio è diventata una lezione, non una testimonianza che sa di un "corpo a cuore". L'immagine michelangiolesca della Pietà è solo una citazione che non si consustanzia. E se fosse questo il meno riuscito dei suoi film? Che poi abbia vinto a Venezia, non ci può fregare di meno. A me è piaciuto più Bellocchio.

Adottando una messa in scena che sfiora più volte la tragedia greca, il regista si sofferma su un sentimento di pietà che sgorga dalla società contemporanea, soggiogata da violenza e soprusi e che trova nel dio denaro l’origine e la fine di tutte le cose. Inevitabilmente il titolo dell’opera si ricollega al capolavoro di Michelangelo, come testimoniato da una delle immagini di locandina, un’immagine che abbraccia il dolore e la sofferenza dell’umanità intera. La regia vivace ed eclettica non cade mai vittima del virtuosismo più sfrontato, anzi, aiuta il regista a non prendersi sul serio pur analizzando concetti importanti e di denuncia. Ecco allora che ironia ed egocentrismo fluiscono costantemente, tra una gamba fracassata e un braccio mozzato c’è posto per più di un sorriso, irrisione crudele, forse, di un mondo che non accetta il fatto di prendersi mai seriamente e che è destinato a non cambiare le sue radici, quelle insite nella natura di un uomo come l’avidità, la violenza o la vendetta. Imperfezioni di scrittura si ravvisano con facilità ma i colpi di scena non mancano e questo basta per coinvolgesi totalmente nel nuovo progetto del cinquantaduenne coreano…

La struttura apertamente allegorica sull’omicidio di tutta una classe della società coreana, esplicitamente dichiarata dalla sequenza in cui il protagonista guarda lo skyline della città e il quartiere di baracche di lamiera destinato a sparire per far posto agli ennesimi grattacieli, diventa il limite più pesante e asfissiante di un film malauguratamente tra i meno riusciti di Kim Ki-duk, che non riesce a far vibrare – se non nel balenio tremolante e effimero di alcuni fulgidi istanti – il rapporto tra la madre ritrovata e il protagonista…

Una storia potente che, tuttavia, nel suo dispiegarsi avverte la mancanza di qualcosa come se il regista coreano avesse (forse volutamente?) sottratto una serie di elementi cari al suo cinema. Non c’è la poesia di Ferro 3, né la nota struggente de La samaritana o l’incanto della Natura di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera ed è come se, in questo film, mancasse quel tocco – seppur estremo – di magia che ci ha fatto amare, quasi incondizionatamente, le opere precedenti. Il film tocca così le corde profonde del dolore ma, al tempo stesso, rende visibile un’assenza, ovvero l’incanto di quello stile che sa coinvolgere fino in fondo, nella visione e nel racconto. Resta, sì, l’intensità ma senza il prodigio.

6 commenti:

  1. Mi hai dato un colpo al cuore. :(
    Io ci contavo parecchio. Comunque sono d'accordo sui titoli in pole position a cui ci aggiungo anche La samaritana.

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    1. "La samaritana" è solo quarto:)

      appena lo vedi mi fai sapere

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  2. Ti dirò, anche io uscito dal cinema sono rimasto un po' con l'amaro in bocca, poi però il film è cresciuto e posso ritenermi soddisfatto. La rappresentazione del contesto economico e sociale manca di sostanza, quella che invece riguarda l'umanità e i conseguenti legami tra madre e figlio l'ho trovato riuscito.
    Credo che ci sia molto da ragionare intorno al concetto di "pietà" applicato da Kim, significati religiosi (di dio) e personali (dell'uomo). La vendetta non è per me il fulcro ma solo un mezzo usato dal coreano.
    Insomma, carne ce n'è a mio avviso.

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  3. forse dipende dal fatto che sono vegetariano:)

    la parte migliore è l'ultima parte e il sacrificio finale, una fine (in entrambi i sensi) sconvolgente.

    per arrivare all'ultima parte si deve soffrire, poi si viene ripagati, ma per arrivarci...

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  4. concordo, il fatto è: possibile che a Venezia non ci fossero film superiori a questo? Ovvero: perché The Master non ha vinto il Leone?

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  5. qui (http://luigilocatelli.wordpress.com/2012/09/08/venezia-festival-il-giallo-del-leone-doro-pare-che-la-giuria-avesse-deciso-per-the-master-ma-poi/) un'ipotesi

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